che ci attende
L’insegnante deve aprire ciascuno al suo futuro,
nella certezza che ci aspettano sempre
i frutti dopo qualunque prova.
Riflessione che arriva da una visita in
Bosnia-Erzegovina, tra ferite e speranze.
- di
Marco Erba
La
Bosnia Erzegovina è un Paese ancora ferito, ma stupendo. Ho avuto la fortuna di
andare lì tre volte: in ogni occasione ho incontrato storie laceranti, ma anche
piene di luce. L’estate scorsa, nel mio ultimo viaggio, mi sono imbattuto in un
uomo dallo sguardo profondo dentro al quale si muoveva un’ombra di sofferenza.
Ma era sereno, profondamente. Quasi per caso, in quel mattino d’estate, ci ha
raccontato la sua storia. Da bambino viveva su una collina verde, piena di
prati e boschi, insieme alla sua famiglia. Facevano parte di una comunità di
case sparse. Possedevano animali, coltivavano la terra. C’era solidarietà: non
erano ricchi, ma ci si aiutava come si poteva. Il suo paese era da secoli un
crocevia di popoli: un paese dove le moschee, le basiliche ortodosse e le
chiese cattoliche sorgono a poca distanza le une dalle altre. Un paese nel
quale i vicini di casa di fedi diverse festeggiavano le reciproche festività
religiose.
Di
fianco alla casa del bambino si ergeva un ciliegio. I suoi frutti, rossi e
succosi, erano uno dei suoi primi ricordi. Tutti abbiamo frammenti di un
passato remoto che non riusciamo a contestualizzare, ma che, chissà perché,
sono rimasti dentro di noi, nitidi relitti di un tempo in cui ancora non
parlavamo né articolavamo pensieri. Uno dei frammenti di quel bambino erano le
braccia di suo padre, il suo viso sorridente mentre lo sollevava fino alle
ciliegie, che lui coglieva, pieno di stupore. Quel bambino divenne ragazzo. Fu
allora che il suo mondo andò in pezzi, costringendolo a diventare precocemente
uomo. La Bosnia, il suo Paese, divenne un inferno, perché qualcuno, accecato
dal nazionalismo, decise che quella terra andava smembrata. Gli eserciti si armarono,
le etnìe divennero il pretesto per una folle violenza. Chi praticava una
religione diversa, chi proveniva da una tradizione considerata nemica, doveva
essere annientato. Erano un unico popolo, ma il veleno delle armi e della
propaganda ebbe la meglio, portò morte e distruzione in ogni villaggio, in ogni
casa.
Il
bambino divenuto ragazzo e poi precocemente uomo sentì dire che la guerra stava
arrivando. I soldati scesero dall’alto delle colline, i colpi iniziarono a
echeggiare dai crinali. Lui e la sua famiglia lasciarono la loro casa, si
rifugiarono altrove. Accaddero cose atroci. Una giovane coppia si nascose in
una baracca con il proprio figlioletto neonato. Il bimbo piangeva: li fece
scoprire. I soldati ammazzarono tutti e tre. Il giovane uomo decise di armarsi:
credeva non ci fossero alternative. Si arruolò nell’esercito per difendere il
suo Paese. Il resto della sua famiglia, di tradizione musulmana, si rifugiò
nella città più vicina considerata sicura: Srebrenica. A Srebrenica c’erano i
caschi blu, l’Onu aveva dichiarato che quella città era una safe area: la
famiglia del giovane uomo pensava che lì sarebbe stata protetta. Ma, nel luglio
del 1995, le milizie che assediavano Srebrenica avanzarono, presero la città. I
soldati dell’Onu non si opposero, abbandonarono le persone che avrebbero dovuto
proteggere al loro destino. Nel genocidio di Srebrenica il giovane uomo perse
suo padre e suo fratello. Lui invece sopravvisse, ma la guerra lo aveva
distrutto. Quel suo Paese, per cui aveva combattuto, gli era diventato
estraneo. Le ferite erano troppo profonde: voleva partire, ricominciare da zero
in un’altra parte del mondo. Non c’era altro modo per andare avanti.
Quel
luogo sarebbe stato l’Australia. L’uomo aveva già organizzato tutto: aveva
preparato i documenti, aveva ottenuto i permessi necessari. Era deciso: se ne
sarebbe andato per sempre. Prima, però, volle tornare un’ultima volta sulla sua
collina, nei luoghi dove un tempo era stato felice con la sua famiglia, quando
ancora il futuro era una promessa che non era stata sporcata dall’orrore. Tornò
verso Srebrenica. Imboccò la stretta salita che conosceva benissimo. La
percorse curva dopo curva. Giunse alla sua casa abbandonata e distrutta. Si
fermò a lungo a guardarla. No, non poteva esserci alcun futuro lì. L’uomo si
voltò sconsolato. Stava per andarsene e non tornare più. Ma un particolare lo
colpì. Il ciliegio. Il ciliegio era in fiore, e un ciliegio in fiore è una
sinfonia di bellezza che toglie il respiro. Il ciliegio era in fiore. Avrebbe
dato frutti abbondanti e succosi: ciliegie mature, dolci come negli anni
migliori.
L'uomo
si avvicinò al tronco, alzò lo sguardo verso i rami. Si risentì avvolto dalle
braccia di suo padre che stava in piedi proprio in quel punto, sollevandolo,
perché lui potesse cogliere le ciliegie con le sue manine di bimbo. Suo padre
che non c’era più, come suo fratello, come altre migliaia di vittime,
sterminate per la sola colpa di appartenere a una etnìa considerata sbagliata
da qualcuno. Il ciliegio però era sopravvissuto a tutto, avrebbe continuato la
sua opera. La natura andava avanti silenziosa, con i suoi ritmi quieti, fatti
di insopprimibili rinascite. Fu in quel momento che il viaggio in Australia
terminò senza essere neanche iniziato. L’uomo mise da parte passaporto e
documenti: capì con assoluta certezza che quello era il suo posto. Oggi quell’uomo
vive nella sua casa di un tempo, dove era stato bambino e poi ragazzo, con la
sua famiglia. Coltiva la terra e alleva mucche, donate a lui e a molte altre
persone del posto grazie a un bellissimo progetto partito dall’Italia, chiamato
“La transumanza della pace”. Nel progetto, animato da Roberta Biagiarelli, una
strepitosa attrice, è coinvolto Gianni Rigoni Stern, figlio del celeberrimo
scrittore. Il prossimo obiettivo è costruire un caseificio, per lavorare il
latte e produrre formaggi. Quelle terre, grazie al coraggio di chi è rimasto e
alla sensibilità di chi, venendo dall’Italia, si è innamorato di quei luoghi,
stanno rinascendo, proprio come fa il ciliegio ogni anno.
Nel
seguito del viaggio in Bosnia della scorsa estate sono arrivato in Erzegovina.
Una famiglia ha ospitato me, mia moglie e mia figlia in casa loro, con la
calorosa accoglienza tipica di quel popolo. Porto con me due immagini di quei
giorni. La prima è mia figlia Beatrice che, a Mostar, guarda lo Stari Most
mentre il sole scompare e il cielo diventa di un blu profondo. Lo Stari Most,
il vecchio ponte della città costruito secoli fa dagli ottomani, simbolo di
unione tra i popoli, era stato distrutto nel 1993, durante la guerra. Nel 2004
è stata terminata la sua ricostruzione. Beatrice era lì e guardava quel ponte,
simbolo di un futuro forse possibile, e mi piace pensare che stesse guardando
anche il suo futuro di adolescente, ormai non più bambina. La seconda immagine
è quella di Azra, una ragazza ventenne, parente della famiglia che ci ha
ospitato in casa loro. Una sera Azra e la sua famiglia ci hanno accompagnato in
cima a una montagna sopra Mostar, in un punto panoramico stupendo. Tutta la
città era sotto di noi, piena di luci, appoggiata nella valle come una
gigantesca astronave. Azra, nata dopo la guerra, parlava dei suoi studi, delle
sue passioni, dei suoi progetti, come ogni ragazza di quell’età. Diceva che
ogni conflitto è folle, impensabile, ingiustificabile. Mentre Beatrice guardava
lo Stari Most, mentre Azra parlava del domani di fronte a quel panorama
incantato, rivedevo le ciliegie colte dalla mano di un bambino e poi da quella
di un uomo.
Questa
è una rubrica sulla scuola: forse qualcuno mi accuserà di essere andato fuori
tema. Ma, alla fine di questo 2023, desidero condividere un’immagine che possa
sintetizzare tutto quello che finora ho scritto. Quell’immagine solo le
ciliegie del bambino diventato uomo, perché l’essenza dell’insegnamento e di
ogni cammino educativo sta nel cercare il proprio futuro, sapendo che c’è
sempre qualcosa che fiorisce dopo ogni ferita, che c’è sempre una ripartenza
possibile dopo ogni dolore. C’è sempre una ciliegia, dolce e succosa, che ci
attende sul cammino.
*Marco
Erba, insegnante e scrittore
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