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di Giuseppe Savagnone
Antisemitismo
e antisionismo
Mentre
a Gaza la crisi umanitaria raggiunge il suo culmine – tanto da spingere il
segretario generale dell’ONU Guterres a invocare per la prima volta l’art.99
della Carta delle Nazioni Unite per convocare d’urgenza il Consiglio di
sicurezza, per chiedere l’immediato “cessate il fuoco” – si è svolta a Roma la
manifestazione organizzata dalla comunità ebraica romana e dall’Unione delle
comunità ebraiche italiane contro l’antisemitismo.
L’evento
non ha avuto una grandissima adesione di folla – erano circa tremila persone –,
ma in compenso ha visto la partecipazione compatta di tutte le rappresentanze
politiche, tranne Alleanza Verdi e Sinistra. In prima fila il governo: dopo il
presidente del Senato La Russa sono intervenuti i vicepremier Salvini e Tajani;
poi Nordio, Valditara, Sangiuliano e Roccella. Ma c’erano anche Elly Schlein e
Conte, Calenda ed Elena Maria Boschi.
L’obiettivo
dichiarato era la denuncia del rinascere dell’antisemitismo, dopo il massacro
del 7 ottobre perpetrato da Hamas. Un massacro, ha denunciato Victor Fadlun,
presidente della Comunità Ebraica di Roma, che «è stato presto rimosso da gran
parte della pubblica opinione».
In
realtà, con la sola eccezione di Conte (che non ha parlato dal palco), la
manifestazione è stata caratterizzata dalla identificazione dell’antisemitismo
con le massicce proteste che in tutto il mondo occidentale hanno visto le
piazze e le università mobilitate contro la guerra condotta dallo Stato ebraico
nella Striscia di Gaza e contro i governi (tra cui quello italiano) che, più o
meno esplicitamente, la sostengono.
Così
Ignazio La Russa, accolto dagli applausi, ha detto: «Basta distinguere
antiebraismo e antisionismo. È un giochino. Io non ho ancora visto antisionismo
che poi non finisca per essere contro gli ebrei. Le due cose stanno insieme».
«Io
sto con Israele e con gli ebrei, lunga vita a Israele», ha urlato Salvini per
dieci volte. Anche quando, di passaggio, si è accennato al costo di vite umane
innocenti che essa sta comportando, questo è stato interamente addebitato
all’aggressione da parte di Hamas.
Come
ha detto il nostro vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Il
gruppo terroristico è responsabile di tutto ciò che accade in Medio Oriente».
«Si dice che Israele ha il diritto di difendersi, ma lo si attacca quando lo
fa», ha sottolineato Carlo Calenda.
Le
proteste contro Israele sono state attribuite da Calenda al fatto che esso
rappresenta ancora i valori che noi stiamo dimenticando: «L’odio per Israele è
l’odio che l’Occidente ha per sé stesso, per la libertà, l’uguaglianza e i
diritti umani». Non è stato il solo a sposare così, senza riserve, la tesi del
premier israeliano Netaniahu, secondo cui in questa guerra sono in gioco non
solo le sorti di Israele, ma quella della nostra civiltà e della democrazia.
Contro
l’“equidistanza” di papa Francesco
Non
è mancata una critica alla posizione della Chiesa cattolica. Nel suo intervento
la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Italiane, Noemi Di Segni si è
rivolta a papa Francesco chiedendogli di non mettere tutti sullo stesso piano»,
perché «l’equidistanza e l’equivicinanza non aiutano a cogliere il vero
problema».
Riprendendo
così la dura nota in cui il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia
accusava Bergoglio di aver fatto seguire al suo incontro con i parenti degli
ostaggi rapiti da Hamas quello con i parenti di palestinesi prigionieri in
Israele e di avere «pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo».
Col risultato che, «in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo
stesso piano aggressore e aggredito».
L’interrogativo
posto a questo punto dai rabbini era: a che cosa sono serviti «decenni di
dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella
realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere
espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie
diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è
distanza ma non è equa»?
Insomma,
secondo i rabbini italiani, il dialogo religioso tra cristiani ed ebrei non è autentico se, in
una contingenza come questa, non porta a una convergenza sulla politica – e in
concreto sulla guerra – condotta dallo
Stato di Israele… Ancora una volta, il
problema è la distinzione o meno tra ebraismo e sionismo.
Ma
ebraismo non è sionismo
Che
dire di questa impostazione? Si può sicuramente comprendere lo stato d’animo
dei rappresentanti delle comunità ebraiche, a due mesi da una spaventosa strage
che ha visto massacrati o presi in ostaggio centinaia di innocenti.
E
tuttavia questa coincidenza tra il popolo ebreo e lo Stato d’Israele è
semplicemente falsa. L’identità e la storia del primo sono culturali e
religiose e in esse affonda le sue radici anche il cristianesimo, a cui tutta
la nostra civiltà si è ispirata.
Gesù,
non lo dimentichiamo, era ebreo, come del resto la Madonna e gli apostoli. E
san Paolo sottolinea che la predilezione divina non potrà mai essere annullata.
Anche se, paradossalmente, a dimenticarsi di questo sono state per secoli le
società cristiane, con i loro pogrom e i loro ghetti.
Il
sionismo, invece, è un’ideologia laica, sorta alla fine dell’Ottocento e a cui
non tutti gli ebrei hanno aderito (alle attuali proteste contro Israele
partecipano anche molti di loro), che mirava a far nascere una istituzione
statale ebraica su un territorio – la Palestina – che da quasi duemila anni era
abitato da arabi.
Un
progetto all’inizio tradottosi nel trasferimento di piccoli gruppi di ebrei, ma
che sempre più ha trovato credito presso i governi occidentali, a partire dalla
dichiarazione del ministro degli Esteri inglese, lord Balfour, alla fine della
prima guerra mondiale, nel 1917, che aprì le porte della Palestina a una
immigrazione sempre più consistente, anche se ancora largamente minoritaria
rispetto alla popolazione araba.
Decisive
sono state, alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la tragedia della
Shoah, da un lato la convinzione di molti dei superstiti che il solo modo di
evitare il ripetersi delle persecuzioni antisemite fosse la nascita di uno
Stato ebraico, dall’altro l’esigenza dei vincitori di offrire alle vittime un
“indennizzo” per la spaventosa violenza che avevano subìto.
Da
qui un intensificarsi della migrazione di ebrei in Palestina. Da qui il
problema della coesistenza conflittuale di due popoli – molto diversi, visto
che gli ebrei sionisti erano per lo più europei o americani – su una sola
terra. E la resistenza degli abitanti – perché il dato da cui sempre si
prescinde è che questa terra era la loro – a fare posto a quelli che apparivano
ai loro occhi degli intrusi.
Malgrado
le loro resistenze, il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni
Unite approvò la risoluzione 181 II, che prevedeva la creazione di uno stato
arabo e di uno ebraico nei territori dell’ex Mandato britannico della
Palestina. Il 14 maggio 1948 veniva proclamata la nascita dello Stato
d’Israele.
Storia
di una pulizia etnica
In
realtà, come ha dimostrato – sulla base di una documentazione inoppugnabile a
partire dagli archivi militari di Israele – lo storico israeliano Ilan Pappé,
nel suo libro tradotto in 15 lingue, La pulizia etnica della Palestina
(da cui traggo le citazioni che seguono), fin dal marzo 1948 l’Haganà, la
principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben
Gurion – che rimane per gli israeliani “il padre della patria” – aveva
programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti
palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono
andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere
un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».
I
metodi erano minuziosamente predeterminati: «Intimidazioni su vasta scala;
assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case,
proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le
macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».
«Ci
vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta,
più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone,
era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani
svuotati dei loro abitanti».
«Questa
vicenda» osserva Pappé – «è stata da allora sistematicamente negata». «La
storiografia israeliana parlava di “trasferimento volontario”». Una tesi che
gli studi degli storici revisionisti israeliani della cosiddetta “nuova
storia”, sorta negli anni Ottanta, «utilizzando principalmente gli archivi
militari israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda», rivelando «che le
forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità». Vi rientrano anche
«la contaminazione dell’acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi
di stupri e decine di massacri».
Oggi
il governo israeliano e i suoi sostenitori insistono univocamente
sull’aggressione che hanno subìto il 7 ottobre, come se prima di quella non
fosse concesso guardare, e il ministro degli esteri di Tel Aviv Cohen si è
infuriato quando il segretario generale dell’ONU Guterres, pur condannandoli
duramente, ha notato che «gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal
nulla.
Il
popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione.
Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e
tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e
le loro case demolite».
La
risposta di Cohen è stata la richiesta di dimissioni di Guterres, unita
all’affermazione che l’ONU «non avrà motivo di esistere» se le nazioni che la
compongono «non si schiereranno dalla parte di Israele» e alla decisione di «dargli una lezione», negando il visto di
entrata ai suoi rappresentanti.
In
realtà è ancora il libro di Pappé a dirci che, ben prima della strage del 7
ottobre (che resta assolutamente ingiustificabile e disumana), all’inizio di
tutto, gli aggrediti furono proprio i
palestinesi. Scrive Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and
Destiny of Israel, p.530, notava candidamente che: “Fino alla partenza degli
inglesi il 15 maggio 1948 nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato
attaccato o occupato dagli arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte
posizioni arabe e liberato Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel
giorno del destino, quella parte della Palestina dove l’Haganà poteva operare
era quasi ripulita dagli arabi”».
La
verità – sottolinea lo storico (il quale, ripeto, è un ebreo e un autorevole
studioso, che oggi insegna nell’università di Exeter, nel Regno Unito) – è che
sin dall’inizio gli israeliani si sono mossi nella logica della pulizia etnica,
e ancora questa pulizia, con il moltiplicarsi degli insediamenti in
Cisgiordania, «è attualmente in corso». Dove va sottolineato che la pulizia
etnica non va confusa col genocidio, perché
non mira a eliminare fisicamente, ma a espellere il popolo nei cui
confronti opera.
«È
davvero difficile capire e quindi anche spiegare, perché un crimine, perpetrato
in tempi moderni (…) sia stato ignorato così totalmente», osserva Pappé.
Purtroppo, guardando l’atteggiamento dei governi occidentali e quello della
grande maggioranza della stampa, si capisce che questa censura della memoria di
ciò che è effettivamente accaduto – e che è all’origine dei drammi attuali – è
ancora operante.
Non
si può accettare l’idea di Hamas o dell’Iran che Israele non abbia il diritto
di esistere. Ma neppure si può riconoscere al suo governo il diritto di imporre
al mondo una versione ideologica della questione palestinese, accusando l’ONU e
il papa di essere amici di Hamas.
www.tuttavia.eu
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