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di Giuseppe Savagnone
Le
crescenti perplessità sull’azione di Israele a Gaza
Diventano
sempre più frequenti e pressanti le richieste degli alleati di Israele perché
cambi le modalità del suo intervento armato nella Striscia di Gaza.
In
particolare, sembra impressionare i governi occidentali il costo che
l’offensiva israeliana sta comportando per la popolazione civile palestinese:
ad oggi più di 21.000 morti, di cui una larghissima percentuale donne e 8.000
bambini. Conseguenza inevitabile dei furiosi bombardamenti che hanno devastato
città e campi profughi, radendo al suolo abitazioni civili, scuole, ospedali,
chiese, moschee.
Per
cercare di sfuggire alle bombe, la gente non ha avuto altra scelta che piegarsi
ai perentori ultimatum delle autorità israeliane e abbandonare, in tempi
brevissimi la propria casa, il proprio lavoro e la propria vita ordinaria.
Non
meno drammatico, dal punto di vista umano, il blocco, deciso da Israele, dei
rifornimenti di viveri e di carburante, che da più di due mesi priva due
milioni e mezzo di persone del cibo, dell’acqua, della luce, delle cure
ospedaliere, come attestano le reiterate, drammatiche denunzie di tutte le
agenzie internazionali, da quelle dell’ONU ad Amnesty International a Medici
senza frontiere.
Da
qui una sollevazione dell’opinione pubblica, nelle città e nelle università
americane ed europee, che non si registrava dal tempo della guerra del Vietnam
e che ha cominciato a preoccupare i governi, prima attestati sulla formula
secondo cui “Israele ha il diritto di difendersi”.
Il
presidente francese Macron ha recentemente dichiarato: «Non possiamo permettere
che si radichi l’idea che una lotta efficace contro il terrorismo implichi
appiattire Gaza o attaccare indiscriminatamente le popolazioni civili».
Lo
stesso presidente degli Stati Uniti – il più fedele e tradizionale alleato
dello Stato ebraico – ha espresso la sua preoccupazione per questa strage di
civili e ha avvertito il governo israeliano che questi metodi non fanno altro
che accrescere il livello dei dissensi
nei confronti della sua politica.
Le
parole e i fatti
Secondo
il governo di Tel Aviv, non si tratta solo degli interessi di Israele, ma di
quelli della stessa popolazione palestinese. A questo proposito il ministro
degli esteri israeliano Ely Cohen ha parlato di “liberare” Gaza da Hamas, «per
creare un futuro migliore agli abitanti della regione».
Quanto
ai costi umani, sia il presidente Netaniahu sia i comandi dell’esercito di Tel
Aviv hanno ripetutamente assicurato che le operazioni militari a Gaza si
svolgono nel pieno rispetto delle leggi internazionali e che Israele «segue il
diritto internazionale e prende tutte le precauzioni possibili per mitigare i
danni civili».
Intanto
però affiorano sempre nuovi elementi che smentiscono queste affermazioni. Due
recentissime indagini realizzate, indipendentemente l’una dall’altra, dal «New
York Times» e dalla CNN, hanno dimostrato che l’aviazione dello Stato ebraico,
nei mesi di ottobre e novembre, ha bombardato aree che le autorità miliari
avevano indicato come “sicure”, spingendo gli abitanti di Gaza a rifugiarsi in
esse, dopo l’inizio dell’operazione di terra.
E
non solo: lo ha fatto usando bombe MK-84 da 900 chili di peso, le più
distruttive degli arsenali militari occidentali, che, secondo gli esperti
militari americani consultati dal «New York Times», non vengono sganciate dalle
forze statunitensi in aree densamente popolate, proprio per i rischi che
rappresentano per la popolazione civile.
E
non si è trattato di un ricorso eccezionale: secondo le indagini,
accuratissime, del quotidiano e della emittente Usa, sono stati almeno 208 i
casi che provano l’uso, da parte degli israeliani, delle MK-84. L’ultimo, alla
vigilia di Natale, il bombardamento del campo profughi di Al Maghazi, che ha
causato più di cento morti innocenti.
Intanto
altri episodi fanno sempre più dubitare anche delle “regole d’ingaggio” delle
truppe di terra di Tel Aviv. Ha destato molta impressione la notizia che tre
ostaggi israeliani, sfuggiti al controllo dei loro carcerieri, sono stati
uccisi dal “fuoco amico”, pur essendosi presentati a torso nudo (per assicurare
che non nascondevano esplosivi) e sventolando una bandiera bianca. Qualcuno si
è chiesto cosa è successo, allora, a tanti civili che non usavano queste
estreme precauzioni…
Una
risposta inquietante viene dal comunicato del Patriarcato latino di
Gerusalemme, secondo cui un cecchino israeliano ha sparato sua una madre e una
figlia che si stavano rifugiando in una chiesa, uccidendole.
Ma
la violazione dei diritti umani non si manifesta solo nei massacri. Fanno
sempre più impressione le fotografie di gruppi di civili, compresi donne e
bambini – presentati come sospetti di
essere terroristi – seminudi, seduti, inginocchiati, o in marcia, sotto il
controllo di soldati israeliani. È stato osservato da molti che cose simili le
facevano i nazisti.
Il
paradosso dell’Occidente
Il
paradosso, in tutto questo, è che lo Stato ebraico può permettersi di
alimentare continuativamente da più di due mesi questa tempesta di fuoco solo
grazie alle forniture di armi da parte degli stessi paesi occidentali –
compresa l’Italia, tramite la «Leonardo» – che
a parole lo invitano a fermarla o almeno a limitarla.
Secondo
i dati del Pentagono, da ottobre gli Stati Uniti hanno inviato a Israele oltre
5.000 bombe MK-84 – quelle del cui effetto devastante sui civili gli stessi
americani sono ben consapevoli.
Un
paradosso analogo riguarda ciò che sta accadendo in Cisgiordania, dove in
questi ultimi decenni si sono moltiplicati gli insediamenti illegali di coloni
israeliani, ripetutamente condannati dall’ONU perché contrari alla risoluzione
del 1947, secondo cui questi territori dovrebbero far parte del futuro Stato
palestinese (e certo non sono stati
acquistati mediante compravendite private!).
Proprio
in questi giorni il parlamento israeliano ne sta finanziando di nuovi, come ha
denunziato l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea,
Josep Borrell: «L’Unione Europea è seriamente preoccupata per l’impegno di
finanziamenti aggiuntivi per la costruzione degli insediamenti e le attività
correlate approvati dalla Knesset nel bilancio modificato per il 2023».
E
ha aggiunto, riferendosi ai gravi episodi che anche il presidente americano
Biden ha recentemente menzionato e duramente condannato: «L’approvazione di
questo bilancio aggiuntivo avviene in un contesto di crescente violenza contro
i palestinesi da parte dei coloni estremisti nella Cisgiordania occupata, che
ha raggiunto livelli senza precedenti. Dopo gli attacchi terroristici di Hamas
contro Israele il 7 ottobre, la violenza dei coloni è aumentata drasticamente e
circa 1.000 palestinesi sono stati costretti ad abbandonare le proprie case».
Ma
proprio l’Occidente in questi decenni ha assistito indifferente al
moltiplicarsi di questi insediamenti illegali. Gli Stati Unti hanno addirittura
riconosciuto la proclamazione di Gerusalemme a capitale dello Stato ebraico, in
aperta violazione della risoluzione del 1947 delle Nazioni Unite, che riservava
a questa città, in considerazione del suo valore simbolico per tre religioni,
uno statuto internazionale.
Un
comportamento molto diverso da quello che è stato tenuto nei confronti delle
violenze scatenate Putin, con mezzi altrettanto efferati, contro l’Ucraina. In
quel caso i crimini di guerra russi sono stati colpiti duramente da sanzioni economiche
e da un isolamento totale – almeno da
parte dei paesi della Nato – , e il dittatore russo è stato condannato
dalla Corte penale internazionale. Nulla
di lontanamente simile verso Netaniahu.
Si
obietterà che in quel caso i russi erano gli aggressori, mentre in questo gli
israeliani hanno subito per primi un
attacco di una ferocia disumana. Verissimo. Ma l’unanime indignazione e le
sanzioni non sono state dovute solo alle origini della guerra (Stati che ne
attaccano altri se ne sono sempre visti…), bensì al modo con cui i russi l’anno condotta, in totale
dispregio dei diritti umani.
Ora,
i civili morti in Ucraina a causa di questa violenza indiscriminata sono ad
oggi circa 10.000, meno delle metà di quelli palestinesi. Con l’aggravante che
questi ultimi, per ammissione dello stesso governo di Tel Aviv, non sono i
responsabili dell’aggressione del 7 ottobre ma, se mai, le vittime di Hamas.
Un
vicolo cieco
Colpisce,
peraltro, l’assoluta sordità del governo israeliano di fronte ad ogni appello.
«La guerra continuerà fino a che Hamas non verrà eliminato, fino alla vittoria.
Chi pensa che ci fermeremo, non è collegato alla realtà», ha detto il premier
Benyamin Netanyahu.
Gli
obiettivi da raggiungere prima di concluderla, secondo lui, sono due: la
liberazione degli ostaggi e la distruzione di Hamas. Ma per entrambi la
continuazione delle operazioni militari, così come si sono svolte finora,
sembra assolutamente inadatta.
Che
ciò sia vero per il primo, sono le famiglie degli ostaggi a ripeterlo
incessantemente, con le loro manifestazioni di protesta contro il governo. E in
effetti, in più di due mesi e mezzo, neppure un ostaggio è stato liberato,
mentre alcuni sono stati involontariamente uccisi da quelli che dovevano essere
i loro salvatori.
Quanto
al secondo obiettivo, può anche darsi che alla fine Hamas sia annientato, ma
quel che è certo è che la sua inaspettata capacità di tenere in scacco per
tutto questo tempo l’esercito è più forte del Medio oriente l’ha ormai
trasformato in un mito agli occhi del mondo palestinese e, dopo la sua
eventuale fine, rinascerà prima o poi in nuovi epigoni che si ispireranno al
suo modello.
Anche
perché le prevaricazioni e le violenze
dello Stato ebraico, oltre ad avere l’effetto di far dimenticare,
assurdamente all’opinione pubblica mondiale la ferocia inaudita di cui Hamas ha
dato prova il 7 ottobre, non possono che accrescere sempre più l’odio dei
palestinesi nei confronti di Israele,
contribuendo a rendere questa campagna militare un fallimento.
A
questo proposito il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, ha
recentemente dichiarato, intervenendo al Forum alla Reagan National Defense:
«Ho imparato una o due cose sulla guerriglia urbana dal tempo che ho trascorso
in Iraq. L’unico modo di vincere una guerriglia urbana è proteggendo i civili.
In questo tipo di battaglia, il centro della gravità è la popolazione civile.
Se la si spinge fra le braccia del nemico, si sostituisce una vittoria tattica
con una sconfitta strategica».
La
verità è che Israele, che aveva vinto trionfalmente tutte le guerre combattute
finora contro gli eserciti degli Stati arabi, ha già perduto questa, perché
l’ha trasformata, di fatto, nella spietata punizione di un popolo che non era
neppure il suo nemico.
Ma
l’Occidente in questo disastro sta avendo un ruolo decisivo. Certo, Israele è
uno Stato sovrano e nessuno può imporgli la pace. Ma dipende da noi continuare
a dargli, oppure no, le bombe con cui fa la guerra. Decideremo di fermarlo,
oppure continueremo ad accompagnarlo, di fatto al di là delle parole, in questo
vicolo cieco di violenza?
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della Cultura. Arcidiocesi Palermo.
www. tuttavia.eu
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