Docente di Storia del cristianesimo, Enrico Norelli esamina lo stile di Gesù nella comunicazione della “buona notizia”. Non è una dottrina. Gesù si fa interrogare e chiama ciascuno all’incontro personale che mette in moto nuove energie, crea comunità. La comunicazione rende presente il regno di Dio.
È lo stile della Chiesa sinodale in uscita?
-
di Enrico Norelli
Le interpretazioni di
Gesù da parte degli storici restano varie, ma un punto almeno non può essere
messo in dubbio: fu un uomo della comunicazione. Del resto, il termine sempre
rimasto in uso per designare il suo messaggio, così come il messaggio relativo
a lui portato dai suoi seguaci, reca il segno di questo fatto. «Vangelo» è
trascrizione del greco euangelion attraverso il latino evangelium; il termine
greco, formato dall’avverbio eu, «bene», e dalla radice del verbo angello,
«annunziare», era corrente nel senso dapprima della ricompensa per chi portava
una buona notizia, poi della buona notizia stessa. Ciò che Gesù, e poi i suoi
discepoli, comunicavano era dunque una buona notizia; naturalmente, una notizia
buona per qualcuno, ad esempio per l’oppresso, non lo è necessariamente per
qualcun altro, ad esempio per l’oppressore.
Comunicazione,
annunziare, notizia implicano sempre una relazione con altri, anzi la
istituiscono, e chi comunica o annunzia crea un gruppo di destinatari, anzi più
d’uno, ad esempio gli oppressi e gli oppressori: questi esistono già nel
contesto socioculturale in cui il messaggio è emesso, ma il messaggio li
ridefinisce e li convoca. Così, per il Gesù del vangelo di Luca, la buona
notizia è per i poveri, gli affamati, coloro che piangono (6,20-21), e
corrispondentemente la cattiva è per i ricchi, i sazi, coloro che ridono
(6,24-25). Certo, sappiamo che questa non è direttamente la definizione di
Gesù, ma quella che Luca ha attualizzato per le esigenze del proprio ambiente.
Matteo ha fatto lo stesso
nel suo contesto, indirizzando la buona notizia ai poveri nello spirito, a
quanti sono nel lutto, ai miti, agli affamati e assetati della giustizia,
nonché, rispetto a Luca, prolungando la lista (5,3-12) e non esplicitando la corrispondente
cattiva notizia. Entrambi gli evangelisti hanno, con ogni probabilità,
modificato una stessa fonte, quella che gli studiosi chiamano documento Q, che
possiamo solo cercar di ricostruire a partire dai due vangeli, ma di cui
intravediamo che, pur situandosi più vicino a Gesù, rappresentava già
un'interpretazione contestuale delle sue parole. Dobbiamo dunque ricordarci che
le fonti disponibili su Gesù sono tutte reinterpretazioni della sua persona e
del suo messaggio, ma non avremmo un Gesù libero da interpretazioni nemmeno se
disponessimo direttamente delle testimonianze di quanti lo incontrarono.
Dobbiamo dunque interrogare gli scritti che abbiamo a disposizione, con metodo
e prudenza.
Non ho scritto a caso «le
testimonianze di quanti lo incontrarono», perché alla base delle nostre
informazioni ci sono effettivamente incontri personali, nei quali ha luogo una
comunicazione orale: la diffusione del messaggio di Gesù a mezzo di scritti, che
permette di raggiungere persone che non lo hanno mai visto e vivono in contesti
lontani dal suo, è ben posteriore alla sua morte.
Gli strati più antichi
dell’informazione su Gesù concordano nel descriverlo come quello che chiamiamo
un carismatico itinerante. Parliamo di carisma (termine che in greco significa
«dono») là dove un gruppo riconosce una determinata persona come dotata di
forze o proprietà sovrannaturali, sovrumane o quanto meno straordinarie nel
senso specifico della parola, non accessibili a chiunque e, di conseguenza, la
accoglie come proprio capo. Il carisma non può essere acquisito a volontà
mediante una formazione o istruzione, né può essere trasmesso mediante rituali
o altri mezzi codificati.
Questa è la descrizione
classica fornita dal grande sociologo Max Weber (1864-1920), il quale distingue
tre forme fondamentali di potere legittimo: quello legale, che ha un carattere
razionale; quello tradizionale, fondato sulla credenza ordinaria nel carattere
sacro di tradizioni in vigore da lungo tempo; e quello carismatico, fondato
sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o eroico o esemplare di una
persona, e alle norme che questa ha rivelate o create. Quest’ultimo era
evidentemente il caso di Gesù, al quale le fonti antiche attribuiscono un
rapporto unico con Dio, designato da una voce celeste in una cornice narrativa
collegata con il battesimo amministratogli dall’asceta Giovanni. Dietro tale
narrazione sta certamente un’esperienza di vocazione vissuta da Gesù stesso, la
quale fonda la sua scelta di vita.
Gesù abbandona la vita
sedentaria entro la sua famiglia per condurre un’esistenza itinerante, che ha
come centro principale i villaggi della costa nord-occidentale del lago di
Genezareth in Galilea, in particolare Cafarnao, che compare negli strati più antichi
delle tradizioni su di lui, reciprocamente indipendenti. Invece non andava
nelle città, benché ce ne fossero vicino alla zona della sua attività
principale: Sefforis, a meno di 5 km da Nazareth; Tiberiade, non distante da
Magdala e Cafarnao. Evidentemente si tratta di una scelta consapevole, connessa
probabilmente con le tensioni tra città e campagna in una economia agraria
avanzata, nella quale la campagna produce la ricchezza, ma la città
s’impadronisce, mediante la fiscalità, della parte di produzione che eccede la
pura sopravvivenza dei contadini. Il fisco tendeva così a rovinare i piccoli
coltivatori indipendenti, e i grandi proprietari fondiari (tra cui la fascia
più alta dei sacerdoti), residenti in città, ingrandivano i loro latifondi,
affidati ad amministratori che impiegavano i contadini rovinati, come
braccianti a giornata.
Gli attori di tali
sviluppi affollano le parabole e i detti di Gesù: braccianti così miseri da
attendere fino a un’ora prima del tramonto, sperando di portare a casa almeno
il salario di quell’ora (Mt 20,1-15); mezzadri restii a versare al padrone
della vigna la sua parte dei ricavi (Mc 12,1-12 // Mt 21,33-46 // Lc 20,9-19);
coltivatori indebitati con i proprietari attraverso gli amministratori (Lc
16,1-8).
Intorno a Gesù scorgiamo
i mendicanti, i malati che precipitano nella miseria, come nell’episodio della
guarigione dell’uomo con la mano paralizzata in Mc 3,6 // Mt 12,9-14 // Lc
6,6-11, soprattutto nella versione contenuta in un vangelo apocrifo citato da
Girolamo, Commento a Matteo 2, a proposito di Mt 12,13: «Ero muratore, mi
guadagnavo da vivere con le mani; ti prego, Gesù, restituiscimi la salute
affinché non debba mendicare il mio cibo con vergogna». Scorgiamo gli affamati,
i poveri ai quali non è resa giustizia (Q/Lc 6,20-21, cfr. Lc 18,2-8), gli
«ossessi» che saranno stati spesso persone sconvolte nel profondo da condizioni
di vita laceranti.
Alcuni di coloro che
avevano perduto i mezzi di sussistenza si davano al brigantaggio per
sopravvivere, e come forma primitiva di rivolta contro le imposte; personaggi
reali o fittizi come Barabba, i due «briganti» crocifissi con Gesù, i ladri che
attaccano il viaggiatore, poi raccolto dal samaritano, potevano appartenere
all’una o all’altra di queste categorie e facevano parte del paesaggio noto a
Gesù e ai suoi compatrioti. Intorno al lago di Genezareth, l’economia era
strutturata dalla pesca; piccole imprese familiari che possedevano barche e
reti impiegavano aiutanti che potevano mettere a disposizione solo il loro
lavoro. È la situazione della famiglia di Zebedeo descritta da Marco (1,19-20).
Questo vangelo fa
dell’appello a seguirlo, rivolto ai due figli del proprietario, Giacomo e
Giovanni, la seconda chiamata di discepoli di Gesù (la prima, immediatamente
precedente, è quella di Simone e Andrea); come mostra il confronto con il
racconto ben diverso di Gv 1,35-42 circa i primi discepoli, Marco ha
privilegiato la vocazione delle due coppie di fratelli, che riceveva certo da
una tradizione, e ne fa il modello ideale del discepolato, servendosi della
storia biblica della vocazione di Eliseo (2Re 6,19), ma lascia trasparire
tratti realistici, che aiutano a comprendere gli orizzonti della comunicazione
di e con Gesù. Questi non chiama gli aiutanti a giornata, ma i figli del
proprietario, la cui precarietà economica era certamente inferiore, e lo spirito
d’iniziativa probabilmente maggiore; ciò giovava al progetto di Gesù, ma il
distacco dei figli indeboliva l’impresa familiare.
L’episodio in cui, quando
Gesù si dirige verso Gerusalemme, i figli di Zebedeo gli chiedono di diventare
i suoi più stretti collaboratori nella sua «gloria», cioè nel regno imminente
(Mc 10,35-40), serve certamente al progetto teologico di Marco (quella gloria
si ottiene solo bevendo il calice che Gesù berrà); ma, che la storia sia vera o
meno, essa mette in risalto come l’abbandono volontario delle poche sicurezze
che persone come quelle potevano avere fosse anche guardato come una specie
d’investimento per ottenere benefici che sarebbero, peraltro, ricaduti anche
sul clan familiare (pensiamo alla versione di Mt 20,20-23, dove ad avanzare la
richiesta è la madre dei due discepoli).
Con tali persone si
svolgeva la comunicazione di Gesù, impostata come un annunzio divino trasmesso
con un’autorità non sindacabile, ma articolata in scambi che comportavano una
promessa ma anche interazioni, quali domande e risposte, interpellazioni, provocazioni
nei cui confronti si doveva prendere posizione, negoziazioni di vario genere.
Gesù, pur accolto come un carismatico, portatore di azione e messaggio divini,
si esprime certo talora in modo apodittico - che con ogni probabilità i vangeli
accentuano, in quanto intendono fornire norme ai propri lettori - ma più spesso
si mette in gioco in dialoghi che, coinvolgendo l’interlocutore, lo conducono a
modificare il suo punto di vista in un senso che poco prima gli sarebbe
sembrato assurdo.
Come avviene con le
parabole, non è solo il contenuto degli enunciati di Gesù a svelare come Dio
agisce, ma Dio - che Gesù, per così dire, mette in gioco nel mettere in gioco
sé stesso - agisce attraverso modi e funzionamento della comunicazione di Gesù.
Il regno di Dio avviene nella comunicazione di Gesù, la quale non consiste solo
in parole, ma anche in azioni e silenzi. In più casi è un atto di Gesù, spesso
controverso (ad esempio, una guarigione in giorno di sabato, Mc 3,1-6), o un
atto dei discepoli (Mc 2,23-28) a provocare una discussione con Gesù o tra gli
astanti (per quest’ultimo caso: Mc 1,23-28), in cui l’immagine di Dio è
coinvolta. Una magistrale combinazione di azione (Gesù scrive per terra),
silenzio e parola appare in un blocco erratico di tradizione, la storia della
donna accusata di adulterio, che ha finito con il depositarsi in Gv 8,1-11.
Caratteristica essenziale
della comunicazione di Gesù, sempre orale (che sarà ripresa dai suoi primi
discepoli itineranti, in nome di lui), è il fatto che emittente e ricevente
sono fisicamente l’uno di fronte all’altro, condividono una stessa situazione e
sono chiamati ad agire in questo stesso confronto. In tale processo, la parola
avanza la pretesa di spiegare ciò che avviene sotto gli occhi dei partecipanti
alla comunicazione: la parola inseparabile dall’evento, la parola che dice
l’evento come atto di Dio e che per ciò stesso ne fa un appello
all’interlocutore. In certo modo, è la parola che fa l’evento. Non è solo una
parola che interpreta, ma una parola che fa, come nel «taci ed esci da costui»
(Mc 1,25), nell’«alzati e cammina» (Mc 2,9-11) o nel «talitha kumi»
[«Fanciulla, io ti dico: Alzati»](Mc 5,41).
Ciò vale anche per le
parabole, le quali introiettano talora la discussione tra narratore e
ascoltatori, suscitata dal racconto: pensiamo al figlio maggiore nella parabola
del padre misericordioso (Lc 15,11-32) o ai lavoratori che hanno faticato tutto
il giorno nella vigna (Mt 20,1-16). Vi è un nesso tra l’autorità di questa
parola e l’autorità di chi la pronunzia. Questa parola fa sì che non si possa
restare indifferenti di fronte a ciò che avviene, perché ciò che avviene è
svelato come decisivo per il destino di chi vi assiste.
Questa combinazione tra
evento e parola diviene il kairòs imprescindibile, in cui chiunque sia
testimone è obbligato ad assumersi la sua responsabilità, e questa
responsabilità ha una portata ultima. Ma quel kairòs bisogna coglierlo, perché
è la parola di colui che passa e va altrove, la parola non ripetuta due volte
allo stesso destinatario, che non può essere conservata per iscritto e ripresa
secondo le disponibilità di chi voglia ascoltarla; è disponibile solo quando
chi la pronunzia è presente, e chi la pronunzia fa ciò che fa Dio. È allora che
si produce l’evento, l’appello che offre l’occasione. Ciò non impedisce che una
parola, ad esempio una parabola, possa essere ripetuta; ma a ogni performance
essa risorge nuova, in una nuova situazione, indirizzata a un nuovo
destinatario.
Separandosi dalla sua
famiglia, Gesù con ogni probabilità non aveva tagliato la comunicazione con
essa, ma certamente aveva ampliato e differenziato i suoi interlocutori, a
maggior ragione in quanto la zona principale della sua attività era un
territorio di frontiera, crocevia di gruppi e culture: il racconto della
vocazione di Levi (Mc 2,14) si svolge in un ufficio di dogana; uno dei
rarissimi racconti provenienti dalla fonte Q mette in scena un centurione
romano con i suoi soldati; gli esattori delle imposte appaiono come
interlocutori privilegiati di Gesù in un detto proveniente dalla stessa fonte
(Lc 7,34 // Mt 11,19).
Nei vangeli narrativi
Gesù è continuamente in cammino, a cominciare da Marco che ha fornito lo schema
a Matteo e a Luca: dapprima da solo: in Mc 1,9 Gesù «venne» da Nazareth di
Galilea a farsi battezzare nel Giordano da Giovanni; in 1,12 lo Spirito lo «spinge»
nel deserto; in 1,14 dopo l’arresto di Giovanni, Gesù «venne» in Galilea
annunziando il vangelo. Poi con i discepoli: in 1,16 «passando lungo il mare di
Galilea» chiama Andrea e Simone; in 1,19 «andato un po’ oltre» chiama i figli
di Zebedeo; in 1,21 «fanno il loro ingresso» a Cafarnao ed «entra» nella
sinagoga; in 1,39 «usciti» dalla sinagoga «vennero » nella casa di Simone e
Andrea; in 1,35 al mattino molto presto «levatosi uscì e se ne andò in un luogo
deserto»; in 1,38 esorta ad andare altrove nei villaggi vicini; in 1,39 «venne
annunziando» nelle loro sinagoghe in tutta la Galilea», e così via.
A loro volta, altri si
muovono verso di lui: la prima sera a Cafarnao, dopo il tramonto, gli portano
malati e indemoniati (1,32); «viene verso di lui un lebbroso supplicandolo»
(1,40); e così di seguito. Un movimento che sarà bloccato, nel senso più rigoroso
e materiale, solo dalla crocifissione, ma infine nemmeno da quella, perché le
donne, che il primo giorno della settimana arrivano alla tomba per onorare,
loro che possono muoversi, il cadavere immobile, scoprono che è andato via e
«precede» i discepoli in Galilea (16,1-8). Naturalmente questo schema di
spostamenti spaziali è un’elaborazione di Marco, ma Gesù itinerante è
certamente un ricordo storico.
Questa itineranza va
compresa in diretto rapporto con la vocazione che Gesù era convinto di aver
ricevuto. Nella varietà di interpretazioni moderne di Gesù, sembra esservi
accordo sulla centralità dell’annunzio del regno di Dio. Le divergenze tra gli
interpreti riguardano il significato che Gesù attribuiva al regno. Nei detti
attestati dagli strati più antichi della tradizione, il regno di Dio appare
talora come un’entità, la cui realizzazione è attesa per un futuro prossimo, e
questa era un’idea presente in numerosi testi del giudaismo coevo, benché la
precisa espressione «regno di Dio» vi sia rara; talora come un’entità già
presente, cui gli interlocutori di Gesù possono già accedere, accogliendo il
suo messaggio e orientando la loro vita di conseguenza.
Gesù ha dunque adottato
l’idea diffusa di una catastrofe imminente che avrebbe condotto alla fine del
mondo presente e del male, ma vi ha aggiunto un tratto proprio, cioè
l’affermazione che il regno ha già cominciato a rendersi presente in questo
mondo attraverso l’attività di Gesù stesso. In una situazione in cui la
condizione d’Israele appariva miseranda, Dio aveva preso l’iniziativa di
liberare il suo popolo, e questa liberazione s’iniziava negli eventi limitati
che si producevano mediante Gesù: guarigioni, esorcismi, l’esperienza del
perdono accordato e ricevuto, il pasto in comune che - al contrario
dell’abituale funzione socioculturale del pasto, che evidenzia le gerarchie
sociali, le inclusioni e le esclusioni - includeva senza distinzione quanti si
sentivano toccati dalla misericordia divina.
Gesù era dunque il
portatore ultimo e supremo della misericordia di Dio, in un certo senso era
questa misericordia. Non ci è chiaro se si attribuisse un ruolo nel regno che
stava per venire, né se si sia presentato come messia; probabilmente si è
identificato come il Figlio dell’uomo, del quale parla nelle fonti più antiche
(è l’unico titolo presente in Q) come attivo sia nel tempo del ministero di
Gesù che in quello futuro del regno. Ma deve aver attribuito a sé stesso un
ruolo specifico e unico, credo in stretto rapporto con la misericordia, uno dei
due attributi fondamentali del Dio d’Israele: attraverso di lui, Dio, prima
d’intervenire con il giudizio, faceva agire la misericordia, permettendo agli
israeliti di ricostituire il popolo così come Dio l’aveva voluto. È difficile
dire quale situazione Gesù attribuisse agli altri popoli in occasione
dell’avvento del regno, ma certamente non li ha considerati massa dannata.
In queste condizioni, era
naturale che Gesù riunisse intorno a sé dei discepoli, sia itineranti con lui,
sia sedentari, i quali dovevano non solo collaborare a diffondere il suo
messaggio, ma anche e soprattutto costituire nel presente il nucleo nel quale
il regno aveva già cominciato a realizzarsi.
Se quanto abbiamo detto è
accettabile, alla classica domanda: Gesù ha previsto, e fondato, la chiesa? si
deve rispondere che non l’ha prevista nel modo in cui si è formata, si è
organizzata e trasformata durando per millenni, perché aspettava la fine di questo
mondo e l’avvento del regno per un tempo molto vicino a lui. Ma proprio il suo
messaggio implicava, già per il tempo della sua attività, la costituzione di un
gruppo che rappresentasse il primo nucleo della collettività, in cui si sarebbe
manifestato il regno escatologico di Dio.
Senza voler affatto
identificare i due casi, si può ricordare che anche il gruppo di Qumran
considera sé stesso come una comunità di salvati presente già negli ultimi
tempi che precedono l’intervento finale di Dio e l’eliminazione del male dal
mondo; in alcuni scritti del gruppo, questo si designa come «assemblea di Dio»
(1 QM [Rotolo della guerra] 4,10; 1 QSa [Regola complementare] 1,25, letto con
un emendamento). Il gruppo di adepti di Gesù a Gerusalemme potrebbe essersi
attribuito, dopo l’esperienza pasquale, questa designazione già in lingua
aramaica, in quanto esprimeva la rappresentazione che il gruppo aveva di sé
sulla base del riconoscimento di Gesù come l’inviato escatologico di Dio. Se
così fosse, l’uso di ekklêsia («assemblea») da parte dei credenti in Gesù si
collegherebbe con il ruolo centrale del qahal, identificato idealmente con
l’Israele che si salva. I discepoli di Gesù in Palestina avrebbero visto il
proprio gruppo come il luogo di catalizzazione dell’Israele ricostituito negli
ultimi tempi. È del tutto probabile, del resto, che l’istituzione dei Dodici da
parte di Gesù sia un gesto simbolico, volto a significare che egli era stato
inviato per costituire il nucleo attorno al quale sarebbe avvenuta la riunione
delle dodici tribù d’Israele. Insomma, l’adesione a Gesù non aveva senso se non
formava una collettività di salvati, sulla linea delle attese d’Israele, e il
termine greco ekklêsia, che designa una riunione di persone, indica una
convinzione fondamentale e costitutiva: la salvezza, cui Dio fa accedere
attraverso Gesù, non si acquisisce individualmente, ma in quanto comunità.
Nessun commento:
Posta un commento