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venerdì 26 luglio 2024

L'ILLUSIONE DIGITALE

 

QUANDO IL TU E' L'IO

I social network hanno trasformato il web in un grande supermercato 

Ora il profilo di una persona ha smesso di essere rappresentazione dell’essere ed è diventato un prodotto a tutti gli effetti

Si afferma la necessità di intendere la pratica psicoterapeutica nella sua inevitabile interdipendenza con il contesto sociale e anche nelle dimensioni tecnologiche

 

-        - di  EUGENIO GIANNETTA


La gamification

Sempre più spesso oggi si parla di salute mentale, si discute di differenti approcci psicoterapeutici come il cognitivo comportamentale, il sistemico-relazione, la psicoanalisi, ma si parla ancora poco di come il digitale stia influendo su queste diverse pratiche, cambiando non solo l’approccio ma il setting stesso della terapia; hanno però affrontato l’argomento in un libro uscito per Mimesis – Il narcisismo del You. Come orientarsi nella clinica digitalmente modificata (pagine 270, euro 23,00) – Riccardo Marco Scognamiglio, psicoterapeuta, membro dell’International College of Psychosomatic Medicine e della Society for Psychotherapy Research e fondatore nel 1996 dell’Istituto di Psicosomatica Integrata (che ha 30 anni di vita), Simone Matteo Russo, membro dell’Istituto e responsabile della sua équipe educativa, e Matteo Fumagalli, socio dell’Istituto e membro del Gruppo Infanzia, Adolescenza e Parentalità dell’Association Européenne de Psychopathologie de l’Enfant et de l’Adolescent, nonché formatore dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche. Il libro (che ha la prefazione di Miguel Benasayag) sostiene che il narcisismo del You non riguardi la grandiosità dell’Io e nemmeno la sua vulnerabilità, bensì l’assorbimento dell’Io nell’onnipotenza del Web. Il volume, scandito da esempi clinici, chiarisce la necessità di intendere la pratica psicoterapeutica nella sua inevitabile interdipendenza col contesto sociale. A questo proposito abbiamo dialogato con gli autori per approfondire una serie di concetti come la volontà dell’algoritmo digitale, la gamification intesa come nuova sperimentazione del reale, ma anche il tema della società dell’immagine e il passaggio dalla terza alla prima persona nei social, partendo da una frase dell’antropologo Viktor von Weizsäcker: «Niente di organico è senza senso, niente di psichico è senza corpo», ma anche dal precedente libro, sempre di Mimesis,

Adolescenti digitalmente modificati:

«Questo libro – spiega Scognamiglio – è stato costruito nel confronto tra generazioni di terapeuti, per capire il fenomeno digitale, che non nasce oggi ma circa 30 anni fa. L’idea è quella di raccontare una nuova terra tecnologica, con le fenomenologie complesse che si porta dietro».

I nuovi sviluppi, l’intelligenza artificiale, hanno infatti portato a un cambiamento radicale nella posizione del paziente, ma come è cambiato il contesto sociale, come sta influenzando le categorie diagnostiche e cliniche, come mutano i pattern cognitivi? «L’oggetto digitale – risponde Fumagalli – è un oggetto invisibile, mimetizzato, e nel libro utilizziamo il concetto di Iperoggetto del filosofo fenomenologo Timothy Morton, provando ad andare oltre al modello causa-effetto più lineare. Per esempio: vedo l’uso del cellulare ma non vedo una corrispondenza in termini psico-patologici; per noi questo è un errore epistemologico, perché il digitale lo vediamo da un punto di vista macro che ci avvolge tutti. Se non vediamo tutto questo, non vediamo gli effetti pervasivi del digitale e ci troviamo di fronte a uno strumento che non è ad uso dell’uomo, ma ha invece creato un ambiente virtuale che ha avvolto quello reale, modificando in termini netti il pensiero».

Il metapensiero

Lo sforzo, invece, è ancora quello di creare un metapensiero: «Questa – interviene Russo – era una questione che aveva già chiarito il massmediologo McLuhan nel ’64 con Gli strumenti del comunicare, quando parlava di come la tecnologia ci cambiasse dall’interno, senza che ce ne accorgessimo. Per questa ragione questo libro ha un’esigenza clinica, perché la sofferenza è già cambiata, ma il disagio è talvolta mascherato da un efficientismo tecnologico. Non è ancora così chiaro che questi siano strumenti della gestione dell’angoscia, dell’ansia, sintomi che oggi vediamo in una grossa percentuale di pazienti». La tecnologia oggi ci permette di “stare bene” senza passare dalla relazione; è questa la grande rivoluzione nella società dell’immagine? «Quando ti rivolgi a Word – spiega Scognamiglio – ti dice “bentornato”. È un esempio di marketing in cui c’è una relazione speculare Io-Tu, non voluta ma inserita in sistemi che ci parlano; però questa è una grande illusione», parte di un cambiamento epocale: «Internet – continua Fumagalli – è cambiato moltissimo. Abbiamo avuto l’illusione che il web potesse rappresentare una fratellanza universale, ma presto sono arrivate le aziende, e i social si sono trasformati in un grande supermercato. Il profilo allora ha smesso di essere una rappresentazione, ed è diventato un prodotto». Su questa linea prosegue Russo, con un’ulteriore riflessione: «L’oggetto internet che cambia è un oggetto che ha un’intelligenza che si attiva, e questo non è mai accaduto prima; nei fenomeni di dipendenza è una novità, perché internet stesso ha un suo desiderio e ci rende oggetti, per questo parliamo di clinica senza soggetti, che sono mossi dalla rete». Come se ne esce, perciò, da questi meccanismi? Risponde Scognamiglio: «Prima di tutto non deve pensare in termini di pessimismo, ma fenomenologici.

Cosa fare?

Citando Benasayag: alla domanda “cosa fare?”, dovremmo rispondere chiedendoci cosa siamo diventati, come siamo fatti, qual è la nostra sostanza. Quando diciamo che l’Io è sostituito da un You parlato dallo schermo e dall’algoritmo, avviamo una rivoluzione in termini ontologici. L’Io, che dall’Umanesimo in poi abbiamo creduto fosse al centro, non lo è più, tanto che il concetto di narcisismo conosciuto fino agli anni ’70, è mutato: nel 1971 lo psicanalista americanizzato Kohut inizia a ribaltare tutto questo, dichiarando che il cambiamento è determinato dai mutamenti sociali; l’Io, che è sempre più eroso e lui inizia a chiamare Sé, soffre di una frammentazione progressiva. Questo capovolgi-mento ci invita a pensare che questo secolo sia la fine dell’antropocene, come dice Benasayag, ma non ce ne stiamo accorgendo». Come rispondere quindi a un soggetto che non c’è più? «Il paziente va in terapia – continua – ma è come se fosse parlato, ed il ritirato sociale è il paradigma di questo svuotamento di soggettività». Per affrontare questa nuova clinica, è spiegato nel libro, si è quindi dovuta allargare l’osservazione ad aspetti prima trascurati dalla psicoterapia, come per esempio l’influenza del contesto sociale e del corpo: «Tutto questo – conclude Fumagalli – impatta con i nostri corpi, che diventano sempre più desensibilizzati, con un’attenzione costante all’esterno, al flusso, all’assorbimento del web, che non ci fa più sentire cosa proviamo, per esempio, quando siamo in relazione, sia con i dispositivi digitali, sia con le persone. In terapia, diventa allora fondamentale una domanda: cosa stai sentendo nel corpo?». Il vero cambiamento potrebbe risiedere, perciò, in un ritorno al corpo, come una sorta di risposta al tempo in cui viviamo, per cercare «la singolarità del vivente – dice Benasayag –, contro la potenza infinita della macchina», in una situazione di possibile ibridazione.

www.avvenire.it

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martedì 19 dicembre 2023

IL SILENZIO INTERIORE


 "Il silenzio interiore 

come antidoto 

al culto dell’io"

 

-di Marco Bevilacqua

 

Conversazione con Vito Mancuso

Il 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese diffuso a dicembre dal Censis interpreta i più significativi fenomeni socioeconomici in atto nel Paese. Quella del 2023 è una fotografia per molti versi impietosa di un’Italia che sembra invecchiata, rassegnata, piegata dalle avversità e da un clima generale stagnante: giusto il tempo di lasciarsi alle spalle il Covid, anche se non completamente debellato, e ora gli italiani sono angosciati dalla crisi della sanità, dai femminicidi, da un potere d’acquisto sempre più inadeguato all’inflazione, dal baratro dei conti pubblici, da una politica incapace di dialogo e di visione. Per non parlare della pena e del senso di impotenza di fronte alle guerre in Ucraina e nella striscia di Gaza, che continuano a mietere migliaia di vittime.

A soffrire di più di questa opaca fase di ripiegamento sono le giovani generazioni, quelle più sensibili anche al degrado dell’ecosistema, altra grande fonte di preoccupazione. Cominciamo da qui il nostro dialogo con Vito Mancuso, teologo e lucido osservatore dei fenomeni sociali del Paese.

 Professore, lei recentemente ha scritto su La Stampa che il Censis racconta di giovani che, rinunciando all’idea di poter cambiare il mondo, stanno perdendo la speranza a causa della mancanza di orientamento.

 Il bisogno fondamentale dell’essere umano è qualcosa che riguarda la mente, più che il sentimento, che pure è importante ma a un livello meno essenziale. Sto parlando di valori, di punti di riferimento etici. La rassegnazione dei giovani di cui parla il Rapporto è causata dall’assenza dai nostri orizzonti di un’idea forte, della stella luminosa che illumini il cammino. Un’assenza imputabile alla secolarizzazione, alla crisi dei valori religiosi e delle ideologie, malattia di cui soffre tutta la società, ma in particolare la sua parte più ingenua, più fragile, e cioè i giovani. Già nel 1802 Hegel parlava della morte di Dio.

 Mi chiedo se la mancanza di educazione e di orientamento possa incidere anche in un processo fondamentale per una società come l’elaborazione del lutto. Oggi è consuetudine che, di fronte alle grandi tragedie, sia pubbliche sia private, il dolore sia esibito, documentato fin nei più reconditi anfratti. Tutto viene ricondotto a una sorta di reality senza pudore. Mi riferisco in particolare a manifestazioni come gli applausi o i cori ai funerali. Seneca diceva che lieve è il dolore che parla, perché il grande è muto.

Ricordo che da bambino, trascorrendo le vacanze in Sicilia, vedevo uomini e donne portare il lutto, come si diceva una volta, per settimane, per mesi, fra una scomparsa di un parente e l’altra. Oggi si tende a non voler vivere più il lutto come condizione perenne, quasi a volerlo esorcizzare, ad allontanarlo da sé. Sono entrambi due eccessi, da un lato il vivere perennemente in lutto, perché tante sono le scomparse, gli episodi di dolore personale che colpiscono le vite di ciascuno di noi, e dall’altro il bisogno di liberarsi, di far finta che il dolore non esista. La necessità di socializzare il dolore c’è sempre stata. La tragedia greca nasce da qui: la polis greca una volta l’anno doveva immergersi collettivamente nel dolore delle storie esemplari di Antigone o di Edipo per comprendere la propria sofferenza, per metabolizzarla. Era un momento di lavacro, di catarsi collettiva. Oggi il contesto è diverso, ma il senso profondo è ancora lo stesso. Per questo gli applausi ai funerali non mi scandalizzano, secondo me è un modo per parlare con le mani, per testimoniare di fronte alla comunità la propria vicinanza.

 Il paradigma tecnologico, e non penso soltanto all’intelligenza artificiale, oggi segna il tempo degli uomini, l’accesso alle risorse, il posto dell’individuo nella società. Siamo senz’altro immersi in un periodo rivoluzionario della storia dell’uomo. Qual è l’approccio giusto, se esiste, per vivere questa condizione di cambiamento?

È necessario comprendere che noi siamo tecnica, ma non solo. La tecnica rimanda al fare, alla dimensione prassistica e performativa della vita. L’uomo sapiens è anche homo technologicus, ossia è un insieme di contemplazione e di prassi. Credo che mettere in contrapposizione queste due dimensioni sia un errore o, meglio, non concordo con chi demonizza il paradigma tecnologico in cui siamo immersi. Ma anche qui l’aspetto educativo è fondamentale, perché la seduzione della tecnologia e di tutti i suoi portati nella vita quotidiana è forte e può distrarre, può indurre chi ha meno esperienza (ancora una volta i giovani) a mettere da parte la propria dimensione contemplativa, sapienziale, che costituisce la nostra essenza più profonda. Per questo nelle scuole si deve improntare l’insegnamento a prospettive umanistiche e interiori, specie nei primi anni: ci vogliono meno dispositivi e più discipline che permettono la scoperta del proprio corpo, della voce, delle capacità espressive. L’aspetto tecnologico avrà poi comunque la sua parte, perché permea le nostre vite, ma la scuola dovrebbe preparare ad altro.

 In una società sempre più veloce e competitiva, ma al contempo priva di autorevoli riferimenti sociali e culturali, si può vivere la propria spiritualità nella vita quotidiana?

Vivere una dimensione spirituale per me significa entrare a contatto con la parte più profonda e più vera di noi stessi, quella legata all’interiorità e al pensiero. In greco il pensiero si chiama nous, un termine che può significare anche Dio in quanto spirito. Lei mi chiede come si fa a entrare in contatto con la parte più profonda di sé, ossia con il nous… Per farlo bisogna coltivare dei momenti di raccoglimento, una dimensione spirituale che Gesù invitava a raggiungere chiudendosi nella propria “stanza” personale, nella cripta che ciascuno di noi ha dentro di sé. L’obiettivo è coltivare il proprio silenzio interiore, condizione e insieme meta di quello stare in quiete, di quella esikìa praticata dai monaci dell’esicasmo che è anche vertice della meditazione buddista.

 In ordine ai femminicidi, e alla violenza di genere, si è parlato spesso della sussistenza culturale di modelli patriarcali. Ma so che lei non è d’accordo con questa visione, e individua il vero nodo gordiano nel culto della forza e nella venerazione del potere.

La considerazione generale da cui partire è questa: quando certe donne assurgono a posizioni di vertice politico o economico, capita spesso che si comportino esattamente come gli uomini, con ciò dimostrando che i meccanismi del potere non hanno genere. Il primo esempio che mi viene in mente è quello di Margaret Thatcher, nota come Lady di Ferro; se la mettiamo a confronto con un politico suo coevo come Nelson Mandela, è obiettivamente difficile ricondurre le politiche di ciascuno a modelli patriarcali o matriarcali. Per essere sintetici, Mandela esprime più anima, mentre Thatcher esprime più animus, come avrebbe detto Jung. Il fatto è che dentro ciascuno di noi convivono una dimensione maschile e una femminile. La prima si esprime più nell’idea della forza, e la seconda nell’idea della relazione. In sé, nessuna delle due è sbagliata. Dobbiamo ricordare che la forza è ciò che tiene insieme gli atomi, perciò è consustanziale alla vita. Ma la forza non dovrebbe mai degenerare nel potere e nella violenza, ecco il centro della questione. Il male è quando il culto della forza diventa dominio e non serve più come elemento relazionale. Purtroppo la maggior parte degli esseri umani inneggia ai vincenti, ad Achille che uccide Ettore. Questo è il punto: non c’entra il genere, ma il culto che della forza e del “vincente” si sono costruiti uomini e donne e che la nostra società sembra celebrare ogni giorno.

 Nel suo ultimo libro (Non ti manchi mai la gioia, Garzanti, 2023) lei sostiene che siamo prigionieri di un individualismo narcisista e del mito del successo, che non lasciano spazio all’espressione di sé e alla gioia di vivere. Quanto di tutto questo è frutto della mediazione dei social? O per meglio dire, i social riflettono l’involuzione della società o ne sono in qualche modo gli artefici?

Non sono un esperto di social, che utilizzo unicamente per veicolare il mio pensiero. Certo, molti indizi portano a pensare che siano fortemente connotati da violenza e aggressione verbale. Preciso peraltro che da Twitter, che adesso si chiama X, mi sono tolto non appena è stato acquistato da Elon Musk, perché non voglio avere a che fare con quella persona e con la sua filosofia di vita. Ogni civiltà ha sempre avuto alla sua base tre idee fondamentali: Dio, uomo e mondo. Parlare di Dio oggi, almeno in Occidente, è diventato un fatto privato, mentre un tempo il richiamo alla divinità era praticato e comunicato come parte di un linguaggio riconosciuto e comune, al quale non ci si poteva sottrarre. Siamo nell’antropocene, era nella quale l’essere umano con le sue attività è riuscito a incidere drasticamente sui processi geologici, facendo dell’intero pianeta una realtà da sfruttare. Si è persa la dimensione sacrale delle cose e dei luoghi, che per millenni si era mantenuta più o meno intatta. Tolti Dio e il mondo, inteso come ambiente, resta dunque l’uomo, il solo dei tre elementi cardine a sopravvivere. L’essere umano che riesce a fare a meno di Dio e piega l’universo ai suoi voleri dovrebbe essere felice e realizzato, eppure non lo è. Prendiamo gli Usa, la nazione guida del mondo occidentale: là il tasso di insoddisfazione, l’aggressività e la violenza sono ai livelli più alti. Il 40% degli americani è obeso, ed è del tutto evidente il legame di questo dato con un forte disagio psicologico. L’uomo divora tutto, gli oceani, le montagne, l’aria, e alla fine anche se stesso. L’ipertrofia dell’io che tutto può e tutto pretende è il grande male del nostro tempo. Prigioniero della trappola del narcisismo, nessuno riesce più ad accettare che ci sia qualcosa più importante di se stesso: il vero uomo spirituale non è chi prega, chi va in chiesa o mette in pratica dei precetti, ma chi ha la percezione di vivere al cospetto di realtà che sono più importanti di lui. Solo così si possono riscoprire Dio e il mondo in quanto luogo sacrale da rispettare e da contemplare.

 Un pensiero che può ricordare il panteismo.

Non c ‘è vera religiosità che non abbia echi panteisti. Che cos’è il Cantico delle creature se non un inno alla gioia per tutte le cose? Perfino la morte viene chiamata “sorella”. Tutto è permeato di Dio, nulla vi è estraneo.

 Cosa pensa del pontificato di Francesco?

Una grande speranza che corre il rischio di diventare una plateale illusione. La speranza era quella di un effettivo cambiamento e di un profondo rinnovamento della Chiesa, che forse non è oggettivamente riformabile. Probabilmente quindi non è una colpa ascrivibile a Bergoglio, che ha cercato con le forze a sua disposizione di lottare contro il clericalismo. Ma per me lo spartiacque, il momento in cui è cambiato il mio atteggiamento fino ad allora fiducioso nei confronti del suo pontificato è coinciso con il Sinodo dell’Amazzonia del 2019. In quell’occasione non è stata riconosciuta la possibilità di conferire il presbiterato ai viri probati. Non è stata consentita cioè l’ordinazione di uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa in quelle comunità che hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Tre quarti dell’assemblea sinodale votò a favore, papa Francesco invece votò contro. Per me questa fu una grave mancanza di coraggio. Non vedo grandi cambiamenti nemmeno sul diaconato femminile.

 Eppure, il papa resta la più autorevole, forse l’unica voce che si leva in favore della pace.

Certo, del papa profeta del mondo ho la massima stima. Il suo messaggio è potente e autorevole. In “politica estera”, quindi, gli do il massimo dei voti. È in quanto capo della Chiesa, e quindi nella politica interna, che papa Francesco non raggiunge la sufficienza.

 
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giovedì 8 settembre 2022

FAR FUORI L'IO

La scuola, tra routine e antologie, persegue l’obiettivo di separare il vissuto e la passione degli studenti dai testi. Va fatto l’opposto

 

- di Nicola Campagnoli

 

Mi colpisce la paura di dire io, sempre più evidente, nella scuola.

Quando si studiano i poeti, Leopardi, Ungaretti… è incredibile – e innaturale – la cesura che si opera tra l’autore dei versi e la sua esistenza, tra l’opera e la vita, come se la scrittura avesse un proprio essere (in parte certamente è così) rispetto alla quotidianità della persona che scrive.

A scuola si insegna la struttura della poesia bloccandola dentro una gabbia di note a piè di pagina e di analisi retoriche, si strappa la poesia dal tessuto vitale rendendola quasi un mostro, costruzione cerebral-intellettuale di accademici dediti alla compilazione di antologie in cui i testi sono divisi per genere, contesto, figure retoriche, tematiche, parole chiave, argomenti….

La conseguenza è lo staccarsi della passione dello studente dai testi stessi (su questo rimando a Davide Rondoni, Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una strage quotidiana a scuola).

A scuola si studiano L’infinito, La ginestra, Soldati, Veglia, come se queste liriche sorgessero dal nulla, da un imprecisato humus fatto di metro, misure, rime, figure, insomma come se in realtà non le avesse scritte nessuno.

Tutti conosciamo i versi dell’ermo colle o dell’illuminarsi d’immenso.

Ma nessuno conosce – o racconta – del Giacomo che fa di tutto per diventare famoso e celebre, che – una volta “scappato” finalmente a Roma dalla dipinta gabbia di Recanati – scrive al fratello Carlo che anche lì, nella città eterna proprio come nel natio borgo selvaggio, le ragazze non te la danno. Nessuno dice di Ungaretti che a ottant’anni perse la testa per una poco più che ventenne poetessa brasiliana, Bruna Bianco.

In tutte le antologie leggiamo il Pasolini dei Ragazzi di vita. Ma dei suoi amori contrastati e della sua diversità nelle aule non si parla. Perché?

Si ha paura dell’umano, dell’io. L’io è contraddizione, terreno infuocato, sabbie mobili. Per parlarne ai ragazzi, occorre vivere il proprio fino in fondo. Una familiarità, una non reticenza a guardare come si è veramente. A considerare le proprie domande e le proprie esigenze fondamentali, il percorso della propria ricerca, delle evidenze raggiunte. La possibilità di un’apertura continua ad imparare.

La poesia nasce proprio da questa lava infuocata, sempre in movimento. Da questo terreno di contraddizione. Non è un algoritmo derivante da studi esatti, coerenti e analitici della versificazione e dei suoni.

 Togliendo di mezzo il caos dell’umano cosa resta della poesia? Come si può illuminare un verso, una strofa, uno scritto? Resterebbero – come in effetti accade nelle scuole – soltanto le larve, gli scheletri, i detriti delle ultime conseguenze di un procedimento che resterà sconosciuto e privo di vitalità. Soprattutto privo di un perché esistenziale.

 Un esempio: le novità dell’esame di Stato negli ultimi anni.

Gli studenti devono scegliere le domande da tre buste (come nel famoso quiz di Mike Bongiorno, la 1, la 2 o la 3?). Si fa così per essere neutrali, imparziali, nell’interrogazione. Si evitano altre domande da parte del prof esaminatore.

Praticamente viene fatto fuori il dialogo, l’interazione, la possibilità di approfondire.

Di dire, in tal modo, chi si è. Cosa si pensa. Cosa si vive.

Si fa fuori l’io.

Il Sussidiario

sabato 15 gennaio 2022

IO, TU, L'ALTRO


- LA SFIDA DELLA FEDE 

E' DIVENTARE 

IL TU DELL'ALTRO -

- di Johnny Dotti

- Darsi il tu è impegnativo, noi facciamo come gli americani ma sbagliamo.

Il tu è una cosa seria.

La tradizione non era stupida nell’arrivare gradualmente al tu. La riduzione che c’è stata a causa dell’individualismo negli ultimi 80 anni è proprio una riduzione della ricchezza dei pronomi personali. Ogni persona è sei pronomi, ciascuno di noi è sei pronomi. Invece noi finiamo per giocare tutto tra l’io e il tu, peraltro immaginando che il tu è sempre l’altro. 

Mentre la sfida della fede è diventare il tu dell’altro.  Per me il Vangelo è tutto qui, in questa scommessa.

E va notato un altro elemento. Immaginiamo che la parte plurale – il noi, il voi, il loro – siano ‘persone’ e invece no: sono ‘persona’.  In lingua italiana, ma anche in quella tedesca, quella francese, inglese, cinese, eccetera, i pronomi personali sono ‘persona’.

Persona

La nostra persona è declinata in sei pronomi e questo, a ben vedere, è già scritto anche nella nostra biografia: abbiamo un nome e un cognome, il cognome è un ‘noi’, è un plurale.

Più vado avanti con gli anni più ho dei dubbi sull’io, perché l’esperienza concreta che facciamo nella vita è quella di essere il tu di qualcuno, o il ‘lei’ di qualcuno, o il ‘noi’ di qualcuno. L’individualismo ha ribaltato tutto e l’identificazione dell’uomo e della donna con l’individuo è una ferita mortale per l’umanità.

Noi abbiamo un’individualità, non siamo individui. E per questo la parola che io dono come gemma è tre. Tre è la struttura fondamentale della realtà.  Non è né uno né due, la realtà è uno e tre. La realtà della persona, la realtà della natura, la realtà di Dio è tre, cioè relazione radicale. Un papà e una mamma si danno già per un figlio, che ci sia o non ci sia biologicamente.

L’immaginario di un uomo e di una donna è quello di un figlio.  L’uomo senza il cosmo e senza Dio non esiste.  Oppure, antropologicamente, noi siamo intelletto, sentimento e spirito.

Torna il tre.

Questa è la tradizione cristiana e noi la stiamo completamente dimenticando. Viviamo in un tempo gnostico-manicheo, un tempo binario. Gli algoritmi, che hanno questa straordinaria potenza, sono binari. Sono 0 e 1.

La grande sfida per il cristiano è stare dentro questo mondo gnostico-manicheo, che è binario, che è bene e male, che è buono e cattivo, che è bianco e nero. E la nostra scelta deve sempre essere «o … o…». Scommettere sul tre è l’opposto, vuol dire «e… e…».

La Trinità è un «e…e…», la tensione tra il Padre e il Figlio genera lo Spirito.  È ciò che poi chiamiamo amore. La tensione tra un uomo e una donna genera un figlio.

Nella Genesi la tensione tra Dio e il cosmo genera l’uomo: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente».

Questa grandissima tradizione cristiana oggi è muta e oggi siamo finiti a immaginare che noi siamo il nostro io.  No! Un uomo non è il suo io.

Se fosse così non starebbe in piedi la Resurrezione, ad esempio. Chiediamocelo: ma noi forse resusciteremo con il corpo di quando avevamo 2 anni o 16 o 40? Quello che resuscita è il mistero di te.

Ciascuno è un mistero relazionale.

Infatti nel Vangelo nessuno riconosce Gesù ‘fisicamente’ dopo la Resurrezione.

I quadri del Rinascimento ci hanno ingannato rappresentando il Gesù Risorto simile al Gesù Crocifisso, questo ha cambiato il nostro immaginario. Nel Vangelo non accade così: la Maddalena non lo riconosce, Pietro non lo riconosce e neanche Giovanni.

Gesù Risorto viene riconosciuto solo nel momento relazionale, quando parla.

Non lo riconoscono in quanto individuo, ma in quanto persona. Gesù era radicalmente il tu dell’altro, e questa esperienza la si fa attraverso la parola, cioè attraverso l’amore.

Quando Gesù si manifesta come tu, lo riconoscono. Non sto parlando in astratto, questo discorso è «concreto», parola che è l’analogia di cattolico. In senso etimologico «concreto» è cum-crescere, far crescere insieme le cose.

Le dimensioni della realtà crescono insieme, in relazione.

La preghiera e il discernimento sono ciò che ci aiuta a sfuggire alla trappola della logica binaria. Possiamo anche definirla “esperienza radicale della propria fragilità”, questo è il discernimento quotidiano ed è ciò che fa dire a San Paolo: Quando sono debole è allora che sono forte. (2 Cor, 12,10). Fuori da una dinamica relazionale queste parole non hanno senso. Sono da matti, come anche felix culpa.

Cosa significano allora?  San Paolo dice che è esattamente il limite dell’io (debole) che dà la possibilità di accedere alla libertà del tu (forte).

Noi siamo il tu di Dio, questo è il punto di forza.

Anche Dante è uno che ha fatto questa esperienza spirituale e poi gli ha dato una forma incastonata nel tre: ha scritto tre cantiche, ciascuna composta di canti in terzine.

La tensione amorosa con Beatrice non era binaria, era un «e…e..». È l’essere capaci di stare dentro una relazione senza consumarla. Dovremmo impararlo anche nel matrimonio, a non ridurre tutto a un «o…o…».  C’è l’idea che il matrimonio sia l’incontro di due io, ma è una svista clamorosa perché due io si uccidono a vicenda.

Le tre tentazioni che Gesù vive nel deserto mettono alla prova proprio questo aspetto radicale. Sono le tentazioni fondamentali del figlio.

Il male non è da superare come prova di resistenza o di forza, ma proprio come tentazione che cerca di riportarti solo e soltanto al tuo io.  Lo scopo del male è mettere in discussione la figliolanza con Dio, che è relazione. Il male tenta di riportati solo e soltanto al tuo io.

Noi siamo un tu e siamo la libertà di essere il tu di Dio, il tu dei nostri fratelli, il tu di tua moglie, il tu dei tuoi figli, il tu degli amici e anche il tu del nemico.

Gesù è stato anche il tu del nemico. Vivere così è un pellegrinaggio spirituale bellissimo. Nel mondo binario, gnostico e manicheo, questo non è previsto. 

Anche rispetto a questo, insisto sul fatto che questa scommessa non è astratta, ma esperienziale.

Io vivo in una piccola comunità di famiglie da 35 anni e non abbiamo chiavi in casa.

Non è una scelta ideologica e neppure para-religiosa.  L’idea è che l’altro ti possa raggiungere in qualsiasi momento, perché l’altro ti salva.  È l’ospitalità.

L’ospite

Pensiamo a quello che accade nella Bibbia, Sara resta incinta quando Abramo ospita.  Quando usciamo da noi stessi, ci salviamo.  E non è un atto moralistico, è un atto di vita.

Se non ti apri all’altro, diventi rigido e immagini di essere l’artefice di te stesso.

L’ospite è il portatore dell’invisibile. Per il cristiano l’invisibile è addirittura più reale del visibile. Oggi nessuno ci crede più, perché ci limitiamo ad assorbire lo sguardo scientifico che osserva solo il visibile e ne dà informazioni basate su quantità e proporzioni. L’ospite invece porta l’imprevisto, l’impossibile, il non controllabile, la novità.

Siamo in relazione con questo mistero al punto che nella lingua italiana “ospite” si riferisce sia a chi ospita sia a chi è ospitato.  E qui ritorno alla persona che non è solo io-tu-egli, la nostra persona è anche noi-voi-essi.

Noi siamo una relazione radicale di pronomi, cioè di qualcosa che costituisce il nostro nome. La nostra libertà non è la libertà di scegliere, questo è un altro imbroglio del periodo post cartesiano. La libertà è essere ciò che si è chiamati a essere, è vocazione, è sentire che stai aiutando a venire al mondo il mistero di te. Libertà è mettersi nella condizione affinché Dio possa metterti al mondo.

È bellissimo!

Vivere, quindi, è nascere continuamente e quindi anche morire continuamente, cioè lasciar andare. Nella nostra tradizione il percorso esistenziale di tutte le preghiere è quella del pellegrinaggio.

Attorno abbiamo un sistema di pensiero che ci spinge alla consistenza, mentre invece la vita è esistenza, è un pellegrinaggio. C’illudiamo di consistere, e abbiamo rimosso il pensiero della morte. In questo senso la pandemia è un’apocalisse, cioè può essere una rivelazione. Dalle mie parti a Bergamo abbiamo visto migliaia di morti, non abbiamo potuto eludere l’incontro con sorella morte.  Noi crediamo che la morte vada combattuta, non è vero. Va combattuta la sofferenza, la miseria. Ma la morte è una compagnia, perché non c’è altra via per resuscitare.

Noi siamo vita, morte, resurrezione, eccoci di nuovo alla sfida cristiana del tre.

 

 

venerdì 20 agosto 2021

EDUCARE ALLA LIBERTA'

Dall’io al confronto

 per educare alla libertà

 Lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati sarà all’incontro conclusivo del Meeting: «Nel momento in cui ci si esprime, si sceglie e si rinuncia a qualcos’altro. Questo è il processo educativo nella sua formulazione più classica: guidare alla conquista dell’autonomia attraverso una continua assunzione di responsabilità che permette di rapportarsi agli altri conoscendo prima se stessi» 

 - di ALESSANDRO ZACCURI 

- Anche gli scrittori, come gli insegnanti, dovrebbero essere anzitutto 'esperti in umanità'. Eraldo Affinati si richiama alla celebre definizione che Paolo VI diede della Chiesa per anticipare una parte della riflessione che si prepara a presentare al Meeting. Un appuntamento molto atteso, quello di cui il narratore romano sarà protagonista insieme con Susanna Tamaro e il filosofo Costantino Esposito alle ore 21 di mercoledì 25 agosto. «È l’incontro conclusivo – sottolinea Affinati –, quello in cui tradizionalmente si annuncia il tema che il Meeting affronterà l’anno successivo. Ed è un incontro sul tema dell’educazione». Sull’importanza di Educare alla libertà, per la precisione. Si può dire che, nella sua veste duplice e spesso convergente di scrittore e di insegnante, Affinati non si sia mai occupato d’altro. Lo ha fatto lavorando alle biografie di Dietrich Bonhoeffer ( Un teologo contro Hitler, 2002) e di don Lorenzo Milani ( L’uomo del futuro, 2016) e avviando la rete delle Scuole Penny Wirton, che in tutto il Paese offrono corsi gratuiti di italiano per stranieri. All’indomani del Meeting, il 26 agosto, sarà in libreria il suo romanzo, Il Vangelo degli Angeli, edito da HarperCollins. Per il momento, però, parliamo di libertà, parliamo di educazione. «Da quando abbiamo cominciato a misurarci con la pandemia – osserva Affinati –, la scuola ha lavorato a ingranaggi scoperti, entrando nelle case e rientrando nel dibattito pubblico. Molti genitori hanno seguito le lezioni a distanza a fianco dei figli e si sono resi conto di quanto sia delicato questo processo educativo. Veniamo da una stagione di fragilità e incertezze, è vero, ma questa coscienza rinnovata rappresenta un elemento positivo, che non va sprecato». 

Come riassumerebbe il valore di questa esperienza? Nel modo più semplice: adesso sappiamo veramente di essere fragili e di poterci salvare soltanto se restiamo insieme, facendoci forza gli uni con gli altri. 

Vale anche per la letteratura? La letteratura è di per sé è un’ammissione di finitudine e, nel contempo, il tentativo di andare oltre questo limite. Mi capita spesso di dire che un immortale non comporrebbe poesie, perché non ne avrebbe bisogno. Non ci sarebbero ferite da risanare, né integrità da ristabilire. Per noi, invece, non è così. Scriviamo per segnare una presenza, per lasciare una traccia della nostra avventura sulla terra. Se possibile, per passare il testimone a qualcun altro. 

E qui torna in gioco l’educazione? Non soltanto qui, ma in qualsiasi cir- costanza ci si debba pronunciare o, se si preferisce, si debba compiere una scelta. In questo senso, trovo illuminante l’espressione di Kierkegaard che dà il titolo al Meeting di quest’anno. 'Il coraggio di dire io', appunto. Nel momento in cui ci si esprime, si sceglie; nel momento in cui si sceglie qualcosa, si rinuncia a qualcos’altro. Questo è il processo educativo nella sua formulazione più classica: guidare alla conquista dell’autonomia attraverso una continua assunzione di responsabilità. In ultima analisi, l’educazione è questa scienza del limite che, una volta appresa, permette di uscire dall’indifferenza e di uscire in campo aperto. Ma prima di confrontarmi con l’altro, devo conoscere me stesso. Devo imparare a dire io. 

Un’impresa ancora possibile? Senza dubbio difficile, eppure necessaria. Specie per il credente, considerato che l’incontro è il gesto tipico del cristianesimo, direi addirittura il suo fondamento. La bellezza di questa dinamica sta nella sua componente di rischio. L’incontro non è mai solo rassicurante, in un modo o nell’altro ci trascina in quello che il poeta Mario Luzi definiva 'il fuoco della controversia'. Proprio per questa sua impegnativa carica dialettica, il dialogo non si esercita veramente se non tra personalità pienamente emerse e consapevoli. La coralità della convivenza deriva da questa svolta decisiva, grazie alla quale mi rendo conto che la mia libertà può essere messa al servizio degli altri, risolvendosi in un beneficio collettivo del quale, una volta di più, ciascuno di noi si assume la responsabilità. 

Quali consigli darebbe a un educatore? Non dimenticare mai di essere il primo soggetto dell’educazione. Anche l’adulto, infatti, è costantemente richiamato al compito di diventare sé stesso, di scegliere e di mettersi in discussione. Per quanto mi riguarda, cerco di avanzare con una specie di passo doppio. Non è bene rinunciare del tutto al proprio ruolo istituzionale, che conferisce autorevolezza, ma per essere credibile occorre trovare il modo di conquistarsi la fiducia degli adolescenti. Il procedimento è complesso e a sua volta rischioso, ma resto del parere che muoversi tra i banchi non sia meno efficace dell’insegnare dalla cattedra. L’educatore, insomma, deve imparare a essere insieme amico e maestro. 

Gli adulti sono all’altezza della sfida? Non tutti, purtroppo. Troppo spesso vedo genitori che, non accettando la propria fragilità, si sforzano di scimmiottare la condizione dei figli, lasciandoli spaesati. Per crescere un ragazzo ha bisogno di affrontare un ostacolo, senza il quale non proverà mai la vertigine della libertà. 

La pandemia è stata questo ostacolo? Anche questo, sì. Ed è stata un esperimento di libertà. La fase della didattica a distanza va chiusa al più presto, per evitare ulteriori fenomeni di dispersione e abbandono scolastico. Ma proprio con la Dad alla Penny Wirton abbiamo potuto fare cose straordinarie, per esempio mettendo in contatto tra loro un ragazzo disabile di Catania con un giovane egiziano di Torino. Il primo ha insegnato l’italiano all’altro, la sua fragilità fisica è venuta incontro alla fragilità linguistica dell’altro. Allo stesso modo, un profugo sordomuto iracheno ha potuto incontrare una volontaria specializzata nella lingua dei segni, che gli ha dato lezioni di italiano a distanza. 

Occorre ripartire da questi bisogni? L’educazione parte sempre dal basso: la fragilità è il vero punto di ingresso. Come diceva don Milani, la scuola non può essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Oggi le malattie sono tante, diverse l’una dall’altra. Noi per primi dobbiamo imparare a riconoscerle. 

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