-Letture della Pentecoste.
Commento di p. Fernando Armellini
-I
fenomeni naturali che più impressionano la fantasia dell’uomo – il fuoco, la
folgore, l’uragano, il terremoto, i tuoni (Es 19,16-19) – sono impiegati nella
Bibbia per raccontare le manifestazioni di Dio.
Anche
per presentare l’effusione dello Spirito del Signore gli autori sacri sono
ricorsi ad immagini. Hanno detto che lo Spirito è soffio di vita (Gn 2,7),
pioggia che irrora la terra e trasforma il deserto in un giardino (Is 32,15;
44,3), forza che ridona vita (Ez 37,1-14), rombo dal cielo, vento che si
abbatte gagliardo, fragore, lingue come di fuoco (At 2,1-3). Tutte immagini
vigorose che suggeriscono l’idea di un’incontenibile esplosione di forza.
Dove
giunge lo Spirito avvengono sempre sconvolgimenti e trasformazioni radicali:
cadono barriere, si spalancano porte, tremano tutte le torri costruite dalle
mani dell’uomo e progettate dalla “sapienza di questo mondo”, scompare la
paura, la passività, il quietismo, si sviluppano iniziative e si fanno scelte
coraggiose. Chi è insoddisfatto e aspira al rinnovamento del mondo e dell’uomo
può contare sullo Spirito: nulla resiste alla sua forza.
Un
giorno il profeta Geremia si è chiesto sfiduciato: “Cambia forse un Etiope la
sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura? Allo stesso modo, potrete fare
il bene voi abituati a fare il male?” (Ger 13,23). Sì – gli si può rispondere –
ogni prodigio è possibile là dove irrompe lo Spirito di Dio.
Prima
Lettura (At 2,1-11)
1 Mentre il
giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo. 2 Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di
vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. 3 Apparvero
loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di
loro; 4 ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere
d’esprimersi.
5 Si trovavano allora in Gerusalemme giudei osservanti di ogni
nazione che è sotto il cielo. 6 Venuto quel fragore, la
folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la
propria lingua. 7 Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore
dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti galilei? 8 E
com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? 9 Siamo
Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della
Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della
Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di
Roma, 11 ebrei e prosèliti, Cretesi e arabi e li udiamo
annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”.
Gesù
ha promesso ai suoi discepoli che non li avrebbe lasciati soli e che avrebbe
inviato lo Spirito (Gv 14,16.26). Oggi celebriamo la festa di questo dono del
Risorto.
Leggendo
il brano degli Atti rimaniamo stupiti di fronte ai numerosi “prodigi” accaduti
nel giorno di Pentecoste: tuoni e vento impetuoso, fiamme che scendono dal
cielo, gli apostoli che parlano tutte le lingue. Ci domandiamo anche per quale
ragione Dio ha atteso cinquanta giorni prima di mandare sui discepoli il suo
Spirito. Per comprendere questa pagina di teologia (non di cronaca) dobbiamo
addentrarci un poco nel linguaggio simbolico impiegato dall’autore.
Luca
colloca la discesa dello Spirito nel giorno di Pentecoste. Eppure, proprio nel
vangelo di oggi, Giovanni racconta che Gesù ha comunicato lo Spirito il giorno
stesso della risurrezione (Gv 20,22). Come si spiega questo mancato accordo
sulla data?
Diciamo
subito con chiarezza: il mistero pasquale è unico. Morte,
risurrezione, Ascensione e dono dello Spirito sono avvenuti nel medesimo
istante, nel momento della morte di Gesù. Raccontando ciò che è accaduto sul
Calvario in quel venerdì santo, Giovanni dice che, chinato il capo, Gesù diede
lo Spirito (Gv 19,30).
Perché
allora quest’unico, sublime, ineffabile mistero pasquale è stato presentato da
Luca come se fosse accaduto in tre momenti successivi? Lo ha fatto per aiutare
a comprenderne i molteplici aspetti.
Giovanni
ha posto l’effusione dello Spirito nel giorno di Pasqua per mostrare che lo
Spirito è dono del Risorto. Ora vediamo per quale ragione Luca la colloca
nel contesto della festa di Pentecoste.
La
Pentecoste era una festa ebraica molto antica,
celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua: commemorava l’arrivo del popolo di
Israele al monte Sinai. Tutti ricordiamo cosa è accaduto in quel luogo: Mosè è
salito sul monte, ha incontrato Dio ed ha ricevuto la Legge da
trasmettere al suo popolo.
Gli
israeliti erano molto orgogliosi di questo dono: dicevano che, prima che a
loro, Dio aveva offerto la Legge ad altri popoli, ma questi l’avevano
rifiutato, preferendo continuare con i loro vizi e sregolatezze. Per
ringraziare Dio di questa predilezione, gli israeliti avevano istituito una festa:
la Pentecoste.
Dicendo
che lo Spirito era sceso sui discepoli proprio nel giorno di Pentecoste, Luca
vuole insegnare che lo Spirito ha sostituito l’antica legge ed
è divenuto la nuova legge per il cristiano. Per spiegare cosa
intende dire ricorriamo a un paragone. Un giorno Gesù ha detto: “Si raccoglie
forse uva dalle spine o fichi dai rovi?” (Mt 7,16). Sarebbe insensato
immaginare che circondando di premure un rovo, potandolo, creandogli attorno un
clima più mite potrebbe arrivare a produrre uva. Tuttavia, se – con un prodigio
d’ingegneria genetica – si riuscisse a trasformarlo in una vite, allora non
sarebbe più necessario alcun intervento esterno. Il rovo produrrebbe
spontaneamente uva. Prima di ricevere l’effusione dello Spirito, il mondo era
come un grande rovo. Dio aveva dato agli uomini ottime indicazioni – un
decalogo, dei precetti, tanti consigli – e si aspettava frutti, opere di
giustizia e di amore (Mt 21,18-19), ma questi non sono arrivati perché l’albero
rimaneva cattivo e “nessun albero cattivo dà frutti buoni… l’uomo cattivo dal
suo cattivo tesoro trae fuori il male” (Lc 6,43.45).
Che
cosa ha fatto allora Dio? Ha deciso di cambiare il cuore degli
uomini. Con un cuore nuovo – ha pensato – essi non avrebbero più avuto bisogno
di alcuna legge esterna, avrebbero compiuto il bene seguendo gli impulsi venuti
dal loro intimo.
Ecco
cos’è la legge dello Spirito: è il cuore nuovo, è la
vita di Dio che, quando entra nell’uomo, lo trasforma e da rovo lo fa divenire
un albero fecondo, capace di produrre spontaneamente le opere di Dio. Quando
l’uomo è riempito dello Spirito, in lui accade qualcosa di inaudito: ama con
l’amore stesso di Dio. Da quel momento “non ha più bisogno che alcuno lo
ammaestri” (1 Gv 2,27), non gli occorre altra legge. Giovanni arriva a dire che
l’uomo animato dallo Spirito diviene addirittura incapace di peccare: “Chiunque
è nato da Dio non commette peccato, perché in lui dimora un germe divino, e non
può peccare perché è nato da Dio” (1 Gv 3,9).
E
i tuoni, il vento, il fuoco? Ma è chiaro:
andiamo a vedere nel libro dell’Esodo quali fenomeni hanno accompagnato il dono
dell’antica legge: “Al mattino presto ci furono tuoni, lampi, una nube densa
sopra il monte e un suono fortissimo di tromba e tutto il popolo ebbe paura”
(Es 19,16). “Tutto il popolo vedeva le voci, i tuoni, il suono della tromba e
vedeva il monte che fumava” (Es 20,18).
I
rabbini dicevano che sul Sinai, nel giorno di Pentecoste, quando Dio aveva dato
la Legge, le sue parole avevano preso la forma di settanta lingue di fuoco, per
indicare che la Torah era destinata a tutti i popoli (che in
quel tempo si pensava fossero appunto settanta).
Se
l’antica legge era stata data in mezzo a tuoni, lampi, fiamme di fuoco… come
avrebbe potuto Luca presentare in modo diverso il dono dello Spirito – nuova
legge? Se avesse voluto farsi capire avrebbe dovuto impiegare le medesime
immagini.
E
le molte lingue parlate dagli apostoli?
Probabilmente
Luca si richiama ad un fenomeno molto comune nella chiesa primitiva: dopo aver
ricevuto lo Spirito, i credenti cominciavano a lodare Dio in uno stato di
esaltazione e, come in estasi, pronunciavano parole strane in altre lingue.
Luca
ha utilizzato questo fenomeno in un senso simbolico per insegnare
l’universalismo della chiesa. Lo Spirito è un dono destinato a tutti gli uomini
e a tutti i popoli. Di fronte a questo dono di Dio crollano tutte le barriere
di lingua, razza e tribù. Nel giorno di Pentecoste succede il contrario di
quanto è accaduto a Babele (Gn 11,1-9).
Là
gli uomini hanno cominciato a non capirsi e ad allontanarsi gli uni dagli
altri; qui lo Spirito mette in atto un movimento opposto: riunisce coloro che
si sono dispersi.
Chi
si lascia guidare dalla parola del vangelo e dallo Spirito parla una lingua che
tutti comprendono e che tutti unisce: il linguaggio dell’amore. È lo Spirito
che trasforma l’umanità in un’unica famiglia dove tutti si capiscono e si
amano.
Seconda
Lettura (1 Cor 12,3b-7.12-13)
Fratelli, 3 nessuno può dire “Gesù è
Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo.
4 Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo
Spirito; 5 vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è
il Signore; 6 vi sono diversità di operazioni, ma uno solo
è Dio, che opera tutto in tutti. 7 E a ciascuno è data una
manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune.
12 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e
tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. 13 E
in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un
solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un
solo Spirito.
Da
che cosa hanno origine le divisioni all’interno delle nostre comunità? Dalle
invidie, dalle gelosie reciproche. Coloro che hanno belle qualità (sono
intelligenti, forti, hanno buona salute, hanno studiato…), invece di porre
umilmente le loro doti a servizio dei fratelli, cominciano a pretendere titoli
onorifici, esigono maggior rispetto, sono convinti di avere diritto a
privilegi, vogliono occupare i primi posti. È così che i ministeri della
comunità, da occasioni per servire, divengono opportunità per imporsi, per
affermare se stessi, il proprio potere, il proprio prestigio. Nella comunità di Corinto i cristiani non
erano migliori di quelli di oggi, commettevano gli stessi peccati, avevano gli
stessi difetti. Concretamente, erano divisi a causa dei diversi carismi (cioè
dei diversi doni) che ciascuno aveva ricevuto da Dio.
Paolo
scrive a questi cristiani per ricordare loro che i molti doni, le molte qualità
che ciascuno di loro ha, non sono stati dati per creare divisioni, ma per
favorire l’unità: “A ciascuno, dice Paolo, è data una manifestazione dello
Spirito, per l’utilità comune” (v. 7). E questo perché l’origine di tutti i
doni è unica: lo Spirito. Dice Paolo: “C’è poi diversità di carismi, ma uno
solo è lo Spirito” (v. 4). Per chiarire meglio quest’idea dell’unità e del
servizio reciproco, Paolo utilizza il paragone del corpo.
I
cristiani costituiscono un solo corpo, fatto di molte membra. Ogni parte deve
svolgere la sua funzione per il bene di tutto l’organismo. Così accade con i
diversi doni di cui è arricchito ogni membro della comunità: servono affinché
ognuno possa manifestare agli altri il suo amore, mediante un’umile
disponibilità al servizio.
Vangelo
(Gv 20,19-23)
19 La sera di
quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del
luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò
in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 20 Detto
questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore. 21 Gesù disse
loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. 22 Dopo
aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; 23 a
chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete,
resteranno non rimessi”.
Per
i primi cristiani, è un giorno importante il primo della settimana perché
è il giorno del Signore (Ap 1,10), è quello in cui la comunità
è solita riunirsi per spezzare il pane eucaristico (At 20,7; 1 Cor 16,2).
È
sera.
L’indicazione temporale con cui inizia il brano evangelico è preziosa: forse
indica l’ora tarda in cui i primi cristiani erano soliti ritrovarsi per la loro
celebrazione.
Le
porte sono sbarrate per paura dei giudei (v. 19). Gesù
non aveva certo annunciato trionfi e vita facile ai suoi discepoli; “nel mondo
avrete tribolazione” – aveva detto (Gv 16,33). Tuttavia la ragione principale
per cui si insiste sulle porte chiuse (Gv 20,26) è teologica:
Giovanni vuole far capire che il Risorto è lo stesso Gesù che gli apostoli
hanno visto, conosciuto, ascoltato, toccato, ma si trova in una condizione
diversa. Non è ritornato alla vita di prima (come ha fatto Lazzaro), è entrato
in un’esistenza completamente nuova.
Il
suo corpo non è più fatto di atomi materiali, è impercettibile
alla verifica dei sensi.
La risurrezione
della carne non equivale alla rianimazione di un cadavere. È il
misterioso sbocciare di una vita nuova da un essere che è finito. Paolo spiega
questo fatto mediante l’immagine del seme. Dice che “da un corpo
corruttibile risorge uno incorruttibile”, da “un corpo ignobile risorge un
corpo glorioso”, da “un corpo debole risorge uno potente”, da “un corpo animale
risorge uno spirituale” (1 Cor 15,42-44).
Quando
Gesù mostra le mani e il costato, i discepoli gioiscono. Una reazione
sorprendente: dovrebbero rattristarsi vedendo i segni della
sua passione e morte. Si rallegrano invece, non perché si ritrovano davanti il
Gesù che hanno accompagnato lungo le strade della Palestina, ma perché vedono
il Signore (v. 20), si rendono conto che il Risorto che si sta
rivelando loro è lo stesso Gesù, colui che ha donato la vita.
Collocando
le manifestazioni del Risorto nel contesto della sera del primo giorno della
settimana, Giovanni intende dire ai cristiani delle sue comunità che anch’essi
possono incontrare il Signore – non Gesù di Nazareth, con il corpo
materiale che aveva in questo mondo – ma il Risorto, ogni volta che
si ritrovano insieme “nel giorno del Signore”.
Dopo
aver rivolto per la seconda volta l’augurio: Pace a voi! (vv.
19.21) Gesù dona ai discepoli il suo Spirito e conferisce loro il potere
di rimettere i peccati (vv. 21-23).
I
discepoli sono inviati a compiere una missione: “Come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi”.
Quando
era nel mondo, Gesù rendeva presente il volto e l’amore del Padre (Gv 12,45),
ora, lasciato questo mondo, egli continua la sua opera attraverso i discepoli
ai quali consegna il suo Spirito. Accogliere
lui era accogliere il Padre che lo aveva mandato, ora accogliere i suoi
inviati è accogliere lui (Gv 13,20).
Per
comprendere la missione affidata agli apostoli, il perdono dei peccati mediante
l’effusione dello Spirito dobbiamo rifarci alle concezioni religiose del popolo
d’Israele e alle parole dei profeti. Al tempo di Gesù era diffusa l’idea che
gli uomini agivano male, si contaminavano con gli idoli, erano impuri perché
erano mossi da uno spirito cattivo. Ci si chiedeva quando Dio
sarebbe intervenuto per liberarli e per infondere in loro uno spirito buono.
Nella
Lettera ai romani Paolo fa una descrizione drammatica della condizione infelice
dell’uomo che si trova in balia dello spirito del male: “Io non riesco a capire
neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che
detesto. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è
in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non
compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,15-19).
Per
bocca dei profeti Dio promise il dono di uno spirito nuovo, del suo Spirito:
“Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le
vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò
dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò
un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo
i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez
36,25-27).
Questa
effusione dello Spirito del Signore avrebbe rinnovato il mondo. Lo inonderà –
disse il profeta Ezechiele – come un torrente d’acqua impetuoso che, quando
entra nel deserto, lo feconda e lo trasforma in giardino. “Lungo il fiume, su
una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché
le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le
foglie come medicina” (Ez 47,1-12). Sono immagini deliziose che descrivono in
modo mirabile l’opera vivificante dello Spirito.
Nel
giorno di Pasqua si compiono queste profezie. Con un gesto simbolico – Gesù
alitò su di loro – viene consegnato lo Spirito. Questo soffio richiama
il momento della creazione, quando “il Signore Dio formò l’uomo dalla polvere
della terra e respirò dentro le sue narici il respiro della vita” (Gn 2,7). Il
soffio di Gesù crea l’uomo nuovo, l’uomo che non è più vittima delle forze che
lo portano al male, ma è animato da un’energia nuova che lo spinge al bene.
Dove
giunge questo Spirito il male è vinto, il peccato è perdonato – cancellato,
distrutto – e nasce l’uomo nuovo modellato sulla persona di Cristo.
La
missione che il Risorto affida ai suoi discepoli è di rimettere i
peccati, continuando così la sua opera di “Agnello di Dio, venuto per
togliere i peccati del mondo” (Gv 1,29).
Che
significa rimettere i peccati? Queste parole sono state
interpretate – in modo giusto, ma riduttivo – come il conferimento agli
apostoli del potere di assolvere dai peccati. Non è questo però l’unico modo
per rimettere, cioè, per neutralizzare, per sconfiggere il peccato.
La potestà conferita da Gesù è molto più ampia e riguarda
tutti i discepoli che sono animati dal suo Spirito: è quella di purificare
il mondo da ogni forma di male.
I
poteri non sono due – rimettere o ritenere – a discrezione del confessore che
valuta caso per caso. Il potere uno è solo, quello di annientare, in tutti i
modi, il peccato. Ma questo può anche essere non rimesso: se il
discepolo non si impegna a creare le condizioni affinché tutti aprano il cuore
all’azione dello Spirito, il peccato non viene rimesso.
Di
questo fallimento della missione, il discepolo è responsabile.
Nessun commento:
Posta un commento