La scuola é stata la prima vittima del virus, con i giovani ridotti ad animali domestici.
A chi, se non a loro, affidare il passaggio da questa apocalisse alla genesi?
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di IVANO DIONIGI*
Fuoriuscita dalla pandemia, resilienza, transizione
ecologica, competenze digitali, tecnologiche e ambientali. Tutti
appassionatamente proseliti, anche se non altrettanto consapevoli, di questo
lessico. Ma chi è il soggetto, l’interprete, il destinatario, di tali processi
e scenari? Ha senso parlare di futuro senza mettere al centro i giovani e la
loro formazione? E questa educazione dovrà essere “informata” o “formata”,
settoriale o integrale, finalizzata o libera? Pensiamo davvero che un
incremento della tecnica garantisca nel lungo periodo l’effettiva ripresa
economica e assicuri una vera classe dirigente? Vogliamo avere, come ammoniva
Montaigne, teste ben piene o teste ben fatte? E finalità della scuola è formare
utili impiegati oppure, come ricordava Nietzsche, cittadini a pieno titolo?
Resto convinto che qualità e destino di un Paese dipendano dalla sua scuola, la prima vittima della pandemia: l’abbiamo messa in coda all’agenda politica, anteponendole perfino le messe in piega, e abbiamo ridotto i nostri ragazzi a spettatori e animali domestici, non considerati soggetti consapevoli e protagonisti della tragedia in atto. Abbiamo tolto loro il respiro. A chi, se non a loro, affidare il passaggio da questa apocalisse alla genesi? I tempi avversi impongono responsabilità e offrono anche opportunità.
La prima riflessione riguarda gli adulti. Noi professori (dal latino profiteri, “professare”) siamo all’altezza del nostro nome? A noi spetta professare l’etica della competenza, praticare risposte intellettualmente oneste, pretendere il massimo impegno dai ragazzi al riparo da ogni pedagogia facilitatrice, e soprattutto essere generosi e credibili. Mi chiedo quale sia stato in questo anno il nostro contributo di universitari, che godiamo di indubbi privilegi, nei confronti delle scuole, che hanno scontato difficoltà di ogni tipo nella didattica a distanza e nei confronti dell’opinione pubblica disorientata e bisognosa di speranza. Tutti afoni; eppure, come ha ricordato il Nobel per la Chimica Richard Ernst, a differenza dei capitani di industria, condizionati da bilanci e profitti, e a differenza dei politici, ricattati dai voti e dalla mancanza di un mestiere, noi professori possiamo proclamare il vero e il giusto senza mettere a repentaglio la nostra posizione. Mi chiedo anche dove siano finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune, che abbiano nel sangue il destino dei giovani. Spariti, sostituiti da intrattenitori, portavoce, comunicatori i quali si avvicendano da un canale televisivo all’altro per presentare a turno il loro ultimo instant book. Blaterano, direbbe sant’Agostino, ma sono muti. Eppure, proprio ai nostri giorni, c’è un grande bisogno di incontro, una grande occasione di saldatura tra adulti e giovani. La mia generazione voleva “uccidere” il padre, il padrone, il maestro; loro, i nostri ragazzi, li cercano, e non li trovano. Tutti pronti a dire loro cosa devono o non devono fare, ma chi se ne prende cura, chi li ascolta, chi li promuove? Spesso non trovano interlocutori nella famiglia, nella Chiesa, né tanto meno nei partiti, tutte realtà in affanno. E così, di fronte alla nostra indifferenza e al nostro cinismo, fanno parte per loro stessi, in una lenta secessione, interiore ed esteriore. Il nostro male è quello che Eliot chiamava “il provincialismo di tempo”, il credere che il mondo sia proprietà esclusiva degli adulti e dei vivi, una proprietà di cui i morti non possiedono azioni. Nei confronti di questi giovani abbiamo commesso un delitto, abbiamo staccato loro la spina della storia, e questa signoria del presente è per loro un gas nervino: “l’inferno dell’uguale”, lo ha chiamato Byungchul Han. Con i nostri giovani dobbiamo comunicare, vale a dire condividere ( cum) la nostra funzione ( munus), cioè il nostro ruolo, la nostra vita.
Sono loro che fanno l’unità, la bellezza e la speranza del
nostro Paese provvidenzialmente ricco di talenti e maledettamente incurante di
essi. Il mondo sarà migliore il giorno in cui non diremo più di un ragazzo o di
una ragazza che è tutto suo padre, tutta sua madre, ma di un genitore diremo
che è tutto suo figlio, tutto sua figlia.
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