È illusione di un mondo giusto
la trappola della meritocrazia
La formula “talento
e impegno” dimentica che anche la capacità di attivarsi è spesso ereditata. Il
rischio è che le vittime si sentano colpevoli e meritevoli di sventure.
L’idea di una
società futura basata interamente sulla capacità di premiare in virtù del quoziente
intellettivo e dello sforzo profuso nasceva in virtù di una visione distopica,
poi trasformata in positiva. La credenza secondo cui le persone
generalmente ottengono ciò che si meritano si fonda in realtà su basi
irrazionali.
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di Vittorio Pellagra
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Eppure, oggi, qualcosa inizia a muoversi. La dimensione ideologica, forse, inizia a venire a galla e la retorica è soggetta sempre più frequentemente a efficaci esercizi di decostruzione. Ne hanno dato conto, anche in queste pagine, Luigino Bruni e Paolo Santori («La meritocrazia? Un’illusione che giustifica le diseguaglianze», 5 maggio 2021) illustrando i contenuti di un convegno organizzato dall’associazione Heirs ( Happiness and Relationships in Economics) e dall’Università di Cardiff, sull’«Illusione del merito» e sollecitando un dibattito plurale e aperto. La mia posizione è decisamente critica non tanto sulla meritocrazia in sé – è un principio così vago che si fatica anche a criticarlo – ma, piuttosto, sulla retorica che circonda il principio. Enunciando la tradizionale formula “talento + impegno”, per esempio, retoricamente, viene nascosto il fatto che anche la capacità di impegnarsi, oltre che il talento, è molto spesso, ereditata, è cioè, qualcosa di cui non abbiamo merito. La perseveranza, la determinazione, la capacità di darsi degli obiettivi e di perseguirli con costanza, tutti elementi che facciamo ricadere nella categoria dell’“impegno”, fanno parte di quelle che i neuroscienziati definiscono “funzioni esecutive”. Quello che gli studi mostrano è che queste abilità si formano in età estremamente precoce e poi si fissano e perdono plasticità. L’ambiente familiare, quindi, da questo punto di vista, è fondamentale. È c’è davvero poco merito, se il nostro carattere determinato e perseverante, si è formato così com’è perché, magari, siamo nati in una famiglia che ci ha amato e stimolato, in una nazione avanzata, in una città a misura d’uomo e in un quartiere residenziale tranquillo e non in uno slum di Nairobi. Il fatto che anche la capacità di impegnarsi deriva, in parte da, fattori fuori dal nostro controllo, non significa che chi si impegna e ottiene risultati non debba essere apprezzato e riconosciuto. Vuol dire, piuttosto, che chi non ha ottenuto gli stessi risultati, molto spesso, non li ha ottenuti non certo perché non si è impegnato abbastanza, per pigrizia o “menefreghismo”, ma più semplicemente, perché la vita gli ha messo addosso una zavorra insopportabile, con la quale neanche i più “meritevoli” sarebbero stati in grado di raggiungere i loro traguardi. È questa «simmetria delle valutazioni» tra successo e insuccesso e, quindi, tra merito e demerito che alimenta la retorica meritocratica e la giustificazione morale delle disuguaglianze. Gli psicologi sociali definiscono «ipotesi del mondo giusto» la credenza diffusa secondo cui le persone generalmente ottengono ciò che si meritano. È un atteggiamento infantile e irrazionale che risponde, però, a un bisogno profondo e ci fa percepire il nostro ambiente sociale come se fosse stabile e ordinato. Senza una tale convinzione sareb- be molto più difficile darsi obiettivi di lungo periodo e gestire, per esempio, l’insensatezza del dolore innocente.
Poiché
la convinzione che il mondo sia giusto serve una funzione così importante,
d’altro canto, le persone sono riluttanti a rinunciare a questa convinzione
anche davanti all’evidenza contraria. Se da una parte, dunque, abbiamo uno
scudo psicologico che ci protegge dalla durezza del mondo e alimenta il senso
di controllo sul nostro destino, dall’altra, lo stesso scudo diventa un’arma
contro gli altri: capita spesso, per esempio, che in virtù della credenza in un
mondo giusto si tenda a colpevolizzare le vittime di un crimine: pensate a
quante volte in un caso di stupro sentiamo qualcuno affermare che la vittima se
l’era cercata; o nei casi di bullismo, quante volte si pensa che forse la
vittima avrebbe dovuto imparare a difendersi e a farsi valere. O, ancora,
quante volte abbiamo sentito, a proposito dei migranti morti in mare che, che
se fossero rimasti a casa loro ora sarebbero ancora vivi. Ma l’«ipotesi del
mondo giusto» fa qualcosa di più, di peggio: spinge le stesse vittime a
sentirsi in colpa e a pensare che in fondo, quella disgrazia o quell’altra
sventura se la sono meritata. Alcune ricerche condotte recentemente negli USA
hanno messo in luce che le fasce della popolazione più contrarie alle politiche
redistributive sono quelle che da tali politiche potrebbero trarre maggiore
sollievo. Pensano di non meritarsi di essere aiutati dallo
Stato. uesto è il meccanismo psicologico che alimenta la retorica della
meritocrazia. Un lato oscuro che non dovrebbe mai essere sottovalutato,
minimizzato o rimosso. Bisognerebbe, anzi, iniziare a riconoscerlo
esplicitamente se vogliamo condurre un dibattito senza preclusioni ideologiche
e con un atteggiamento di costruttiva Q distanza.
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