Il
modello del successo individuale basato sul talento e sull'impegno può avere
implicazioni negative per tutti. Il rischio di associare il valore ai guadagni
ottenuti
Se
si instilla nei 'perdenti' la convinzione di essere la causa unica del proprio
fallimento, ciò può far crescere la frustrazione e la rabbia degli 'esclusi',
la quale a sua volta alimenta fenomeni populistici. La riflessione di Michael
J. Sandel in «La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di
vincitori e di perdenti»
-
Le analisi penetranti e controcorrente di Luigino Bruni e Paolo Santori (qui:tinyurl.com/merito1), e
di Vittorio Pelligra ( qui: tinyurl.com/merito2), pubblicate
su queste colonne sono già andate al cuore della questione, ma altri aspetti
possono essere utilmente illuminati. Ne offre l’opportunità il recente libro,
appena tradotto in italiano, di Michael J. Sandel, La tirannia del
merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti (Feltrinelli).
L’autore è un celebre filosofo morale e politico, i cui corsi all’Università di
Harvard (a Boston) sono letteralmente presi d’assalto dagli studenti e le cui
riflessioni sugli assetti della società attuale si distanziano dal mainstream
economicista, venate come sono da un approccio comunitario e cristiano.
Come
si diceva, la promessa del merito, il 'sogno americano', come fu descritto nel
1931 da James Truslow Adams nel suo The Epic of America, è
quella di «una terra in cui la vita sia migliore e più ricca e più piena per
ogni uomo, con un’opportunità per ciascuno secondo la sua capacità e il suo
risultato». L’opera è oggi dimenticata, ma il suo messaggio distintivo ha
animato la meritocrazia negli Stati Uniti: «Il sogno di un ordine sociale in
cui ogni uomo e ogni donna siano in grado di ergersi al massimo status di cui
sono intrinsecamente capaci e di essere riconosciuti dagli altri per
quello che sono, indipendentemente dalle circostanze fortuite della nascita e
della posizione ». Un ideale che a quell’epoca, se preso alla lettera e in
tutte le sue implicazioni, suonava rivoluzionario e rivestito di un indubbio
afflato morale di giustizia. Non si può infatti dimenticare che la segregazione
razziale era ancora in vigore in molti Stati e che le donne e tante minoranze
era virtualmente escluse dalle posizioni di vertice.
Gli
Stati Uniti di oggi, spiega bene Sandel, si vantano di essere
ancora la patria dell’uguaglianza di opportunità, ma non si può
che constatare come ciò sia negato dai fatti. Il fenomeno
più rilevante, in questo senso, è il 'credenzialismo', la
sproporzionata importanza attribuita alla laurea quadriennale
ottenuta nelle migliori università del Paese. Questo titolo di
studio, cui si può accedere tramite una serratissima competizione
accademica alla fine delle scuole superiori, garantisce reddito
e status sociale alti e quasi irraggiungibili per tutti coloro che
non riescono a ottenere l’ammissione.
E
questi ultimi sono i due terzi degli americani. Il punto non è che vi sia una
dura selezione, aperta ai migliori. Piuttosto, emerge dalle statistiche che gli
ambìti posti nei college vanno per una grandissima percentuale a figli di
famiglie ric- che della classe dirigente. Così, paradossalmente, il famoso
'ascensore sociale' che dovrebbe permettere l’ascesa di chiunque sia meritevole
parte in realtà – tranne alcuni casi ben reclamizzati – dall’attico di
sontuosi palazzi. I l valore dell’analisi di Sandel non sta solo
nella denuncia delle ingiustizie che di fatto violano l’uguaglianza di
opportunità e l’apertura di tutte le posizioni a chi ha titolo per occuparle.
Il filosofo di Harvard evidenzia magistralmente, intrecciando il trionfo della
meritocrazia con la recente avanzata del populismo, come il modello del
successo individuale basato sul talento e sull’impegno abbia implicazioni
negative per l’intera società. In primo luogo, svilisce e implicitamente
denigra coloro che non ce la fanno. Chi non entra nelle università che
garantiscono una carriera soddisfa- cente e retribuzioni sopra la media
finisce con lo svolgere impieghi che per tali circostanze sono svalutati come
meno rilevanti. Ciò provoca, argomenta Sandel, due effetti. Da una parte, si tende
a pensare che siano più importanti le professioni che producono ingenti
guadagni (a motivo del risultato raggiunto da chi le compie). E ciò crea
distorsioni evidenti, come quella di credere che un proprietario di casinò o
uno spericolato operatore della finanza diano un contributo maggiore alla
società di un insegnante, di un’infermiera o di un impiegato delle poste.
Dall’altra parte, se in qualche modo la meritocrazia instilla nei 'perdenti' la
convinzione di essere la causa unica del proprio fallimento, ciò può anche fare
crescere la frustrazione e la rabbia degli 'esclusi', la quale a sua volta
alimenta fenomeni populistici di rivolta contro le élite (in qualche misura
giustificati) e di aggressività e rivalsa verso nuove minoranze, come gli
immigrati e coloro che beneficiano di misure di sostegno (reazioni
comunque da contrastare). I noltre, l’ideale meritocratico fa sì
che a poco a poco si affievolisca la spinta politica verso aiuti pubblici ai
meno abbienti e meno fortunati. Quando si radica la convinzione che ciascuno è
artefice del proprio destino e che «se la competizione è veramente equa, il
successo si allineerà alle virtù», allora il welfare state diventa un premio
immeritato ai fannulloni e ai deboli di carattere, ai poco ambiziosi e agli
includenti. Ecco la motivazione, fortemente consolidata nel contesto
statunitense, per cui le riforme dell’assistenza sanitaria in senso
universalistico sono state sempre avversate in un modo abbastanza
incomprensibile per noi europei. L’ auspicio di Sandel è per una
società buona che non sia fondata soltanto «sulla promessa di una fuga», perché
concentrarsi esclusivamente sull’ascesa dei talentuosi o degli 'sgobboni'
trascura «legami sociali e attaccamenti civici che la democrazia richiede». In
sostanza, si devono «trovare dei modi per permettere a quanti non emergono di
fiorire lì dove si trovano e di considerarsi membri di un progetto comune ».
Infatti, è la conclusione, l’idea che le persone meritino qualsiasi ricchezza
il mercato assicuri loro «rende la solidarietà un progetto quasi
impossibile». Solo se ammettiamo, come Bruni, Santori e Pelligra hanno
spiegato, che i nostri risultati sono frutti contingenti di una serie di
fattori che ci è capitato di intercettare possiamo creare una società più
giusta e inclusiva.
Questa
prospettiva è sostenuta anche da un numero crescente di pensatori che partono
non tanto da premesse etiche o sociali, ma giungono a esse in base ad
argomentazioni filosofiche e a dati sperimentali circa il libero arbitrio. In
sintesi, anche sulla scorta di un dibattito secolare, si afferma che stante il
determinismo del mondo fisico, gli esseri umani non possono essere davvero
liberi come di solito pensiamo: a un attento esame, infatti, tutto ciò che
accade sarebbe al di fuori del nostro controllo. E se non siamo liberi, non
siamo nemmeno responsabili delle nostre azioni (un caposaldo della morale,
condiviso per esempio da Tommaso d’Aquino). Ne consegue che non meritiamo
né premi per i nostri successi (ecco la contestazione alla meritocrazia a livello
politico) né punizioni per i nostri errori (di qui la critica al sistema
penale: non abbiamo giustificazione per sanzionare i colpevoli di reati;
dobbiamo invece cercare di rieducarli e, nel frattempo, evitare che si rendano
pericolosi per gli altri).
In
passato, negare la libertà era unanimemente concepito come il primo passo verso
il crollo del nostro sistema di relazioni. Oggi studiosi quali Derk Pereboom,
Gregg Caruso e Bruce Waller – solo per citarne alcuni – ritengono invece che
rinunciare all’idea di libertà ci consegnerebbe una convivenza più serena, meno
acquisitiva e punitiva, priva della competizione esasperata e dello stress e
della rabbia che essa può suscitare. Ma realmente non godiamo del libero
arbitrio? La teologia cattolica ci dice il contrario e per questo (ma anche per
altri solide ragioni) un po’ di meritocrazia potremmo mantenerla.
Ad
esempio, una linea di difesa è quella che considera i sacrifici che le persone
sono disposte a fare per raggiungere un obiettivo. Chi è molto dotato può
diventare un premio Nobel senza molta fatica; chi parte con meno doni dovrà
rinunciare a molti piaceri per dedicarsi intensamente allo studio. E così
accade in ogni ambito. Un successo che ci è costato in termini di altre
opportunità mancate sembra in effetti più meritevole dei traguardi tagliati con
facilità e può fungere pure da incentivo a un’etica non edonistica, un’etica
dell’impegno e della dedizione. Sempre con la consapevolezza che non siamo
isole, e che nessuno prospera realmente senza l’aiuto diretto o indiretto di
tante persone che vivono intorno a lui.
J. Sandel, «La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti»
- EAN: 9788807173943
Nessun commento:
Posta un commento