e pedagogico
- di Giuseppe Savagnone*
Il
disegno di legge Zan è stato oggetto di innumerevoli commenti, favorevoli o
negativi, concentrati, nella stragrande maggioranza, sugli effetti giuridici –
opportunità dell’inasprimento delle pene nelle fattispecie indicate, rischio di
censura delle opinioni divergenti – che esso avrà dopo la sua ormai probabile
approvazione anche in Senato. E, su questo terreno, i difensori del
provvedimento hanno abbondato nel fornire spiegazioni e garanzie a prima vista
inoppugnabili.
Pochi,
invece, per quanto ne so, hanno evidenziato il fatto che la vera posta in
gioco, qui, non sono gli anni in più o in meno che un eventuale omofobo
violento dovrebbe scontare, e neppure il diritto di chi non è d’accordo di
dirlo apertamente, ma il carattere fortemente simbolico e pedagogico che la
nuova legge avrà.
La
legislazione di un Paese non mira solo a regolamentare singole situazioni,
bensì a influenzare la mentalità e il costume, plasmando così il volto di una
società e delle persone che vivono in essa. Le norme giuridiche, insomma, in
quanto rendono lecito o illecito un certo comportamento, additandolo
pubblicamente come espressione di un valore o di un di-valore, hanno anche una
funzione educativa. Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando
scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro
determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).
I veri effetti del
disegno di legge
Per
questo, a quanti fanno notare che già nel nostro codice penale è ampiamente
assicurata una tutela dei diritti delle persone – inclusi, ovviamente, gli
omosessuali –, e che questa nuova normativa è dunque superflua, i sostenitori
della legge Zan replicano che manca però una specifica menzione – con relativo
aggravamento di pena – dei reati legati all’omofobia, che è presente nella
legislazione di molti altri Paesi , e che è in gioco un problema di “civiltà”.
Non
basta, insomma, che gli individui siano tutelati come persone: sono la loro
«identità sessuale» e i loro «orientamenti sessuali» che devono esserlo,
additandoli come valori riconosciuti dalla collettività e ormai indiscutibili.
Il
problema della censura molto probabilmente non si porrà nemmeno. Che si levino
ancora le voci scandalizzate dei reazionari e dei bigotti non potrà sminuire il
salto di qualità che la figura di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali
acquisterà, con una legge in cui se ne sancisce solennemente la perfetta
“normalità” e la piena equiparazione dei loro comportamenti a quelli
eterosessuali.
Con
una immediata, evidente ricaduta sull’immagine condivisa della famiglia, prima
ancora che sul suo regime giuridico, a cominciare dal diritto morale, proprio
di ogni coppia, di avere dei figli. Con tutti i mezzi a disposizione, come si
ritiene legittimo per gli sposi etero, e quindi, in linea di principio, anche
ricorrendo a quello, già ampiamente usato in altri Paesi “civili”, dell’utero
in affitto (nel nostro ancora escluso dalla legge).
Se
si guarda alla legge Zan sotto questo profilo, cogliendone il significato
“educativo”, si capisce che i suoi effetti non si manifesteranno nelle aule dei
tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa.
Nelle scuole (elementari
incluse), a tappeto
Acquista
allora il suo pieno significato l’art. 6, che istituisce la Giornata nazionale
contro l’omofobia – che sarà celebrata il 17 maggio – in cui saranno sono
organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte
delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».
Quale
messaggio sarà proposto in questa occasione e in tutte le alte che
indubbiamente, all’ombra di quella, si moltiplicheranno? È abbastanza ovvio.
Che è una questione di “civiltà” riconoscere la perfetta equiparazione etica e
giuridica tra omosessualità ed eterosessualità. E poiché espressamente si è
voluto che questo messaggio giungesse non solo agli studenti della scuola
secondaria, maggiormente in grado di valutarlo criticamente, ma a quelli di
ogni orine e grado, fin dalle elementari, gli effetti, in termini di
condizionamento, sono garantiti. Né sarà possibile sottrarre i propri figli più
piccoli a questa campagna “civilizzatrice”, perché in Parlamento è stato
espressamente respinto un emendamento che chiedeva fosse introdotta la
condizione del consenso dei genitori.
Dal rispetto per le
persone omosessuali alla cultura dell’indifferenza sessuale
Si
può capire l’impegno dei sostenitori del disegno di legge. La nostra storia
passata e presente è piena di «pregiudizi, discriminazioni, violenze» nei
confronti di gay, lesbiche, transessuali. Le persone omosessuali sono state – e
spesso sono ancora – derise, umiliate, emarginate, a volte anche perseguitate.
Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle
libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privati
del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli
altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa
Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente
come gli etero, portatori come loro dell’immagine di Dio impressa nei loro
volti.
Si
capisce allora che alla base del disegno di legge ci sia non solo e non tanto
la volontà di combattere, assumendoli come reati formali, comportamenti
spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa, ma quella di
rivendicare la dignità umana di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Su
questo nessuno, tanto meno i credenti, potrebbe e dovrebbero avere nulla da
obiettare.
Il
guaio è che, nel difendere i diritti degli omosessuali, il disegno di legge –
come abbiamo appena visto – pone le basi per una educazione capillare e
totalitaria alla cultura dell’indifferenza sessuale. Che non è soltanto in
contrasto con le tradizioni morali degli italiani, ma porta in sé delle
intrinseche ombre su cui sarebbe meglio riflettere.
L’«identità di genere» in
discussione
Lo
hanno denunziato ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica,
inaspettatamente contrarie all’approvazione della legge, che hanno sottolineato
i pericoli insiti in un concetto cardine del testo (ma anche, in realtà, di
tutta la teoria del gender), che è quello di «identità di genere».
«Per
“identità di genere”», spiega il disegno di legge ««si intende
l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche
se non corrispondente al sesso». Ma, sganciando l’identità di genere da quella,
biologica del sesso – dice un documento di queste associazioni – «si vuole che
la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta
sparire. È la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del
genere a cui si intende appartenere», rendendo insignificante il ruolo dei
sesso biologico ed esponendosi ad ogni sorta di confusione.
«In
California» – si legge nella stessa nota delle associazioni femministe – «261
detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri
femminili. Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene quindi il luogo in
cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si
identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».
Il racconto dei corpi
È
in realtà un problema che i critici delle concezioni centrate unilateralmente
sul “genere” hanno da sempre sollevato e che risorge ogni volta che, dal
rispetto per le presone omosessuali, si passa alla teorizzazione
dell’omosessualità come equivalente alla eterosessualità. I corpi, con la loro
struttura biologica morfologica, hanno un loro racconto che deve essere
ascoltato e non può essere messo tra parentesi, affidandosi solo a una
esperienza soggettiva come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in
relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».
Forse
su questo potrebbero trovare un punto d’incontro le associazioni femministe e
la Conferenza Episcopale Italiana, se provassero a dialogare invece di
ignorarsi (o peggio) a vicenda. Entrambi pensano che i corpi – quello delle
donne come quello degli uomini – non possono essere liquidati come puri
meccanismi biologici. Essi meritano di essere rispettati e valorizzati, nella
consapevolezza che l’identità sessuale completa di una persona non dipende solo
dalla sua struttura corporea, ma anche nella certezza che non può prescindere
da essa.
È
forse troppo tardi per fermare la campagna a favore dell’approvazione della
legge Zan. Ora che Fedez si è pronunciato… Ma non lo è per riprendere, in un
dialogo costruttivo – anche se affrontato con la chiara coscienza dei
differenti punti vista – il punto centrale evidenziato nel documento delle
associazioni femministe. Sarebbe un modo per i cattolici di uscire da un
isolamento culturale che le apocalittiche denunzie, da parte di alcuni di loro,
non fanno che evidenziare, e per chi ha a cuore l’identità della donna di
confrontarsi con una tradizione di pensiero che forse, se si è capaci di
superare radicati pregiudizi, ha qualcosa da dire anche a loro.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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