Gli esseri umani sono irrimediabilmente cattivi?
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di Giuseppe Savagnone*
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Il
disastro della funivia Stresa-Mottarone, causato dall’avidità di guadagno dei
responsabili della gestione, viene a rafforzare nell’immaginario collettivo
l’idea che gli esseri umani sono irrimediabilmente egoisti e protesi
esclusivamente a fare i propri interessi, anche quando questo comporta un
danno, o almeno un rischio sproporzionato, per gli altri.
Ed
è vero che, guardando alle logiche della nostra società, in cui si assiste
quotidianamente ad una competizione selvaggia, alla ricerca del successo, del
potere e del guadagno, è molto difficile dare torto a chi sostiene questa
visione pessimistica e ne prende spunto, magari, per bollare come ingenuamente
illusorie le proposte etiche e religiose – prima fra tutte quella cristiana –
fondate sull’amore del prossimo. Il grido di papa Francesco, che denunzia il
predominio, nei nostri Paesi “civili” di una “cultura dello scarto”, che
abbandona al loro destino i più poveri e i più deboli, non può non apparire, in
questa prospettiva, come una nobile, ma utopistica protesta contro
l’inesorabile legge della vita e della convivenza.
Le
stesse vicende della pandemia ci parlano di persone che si sono arricchite – a
volte anche sfruttando cinicamente le urgenze crete dal Covid – e altre (la
grande maggioranza) che sono state messe sul lastrico o che almeno si sono
ritrovate più povere di prima.
Eppure…
Eppure,
proprio ripensando l’esperienza della pandemia, è possibile rendersi conto che
una visione univocamente negativa dell’essere umano è altrettanto unilaterale,
e in sostanza falsa, di quella che vede in esso solo gli aspetti positivi.
Un
esempio che mi sembra molto significativo, in questa direzione, è quello
fornito dal personale sanitario – medici, infermieri, operatori che a vario
titolo si sono impegnati e si impegnano quotidianamente nell’assistenza a chi
soffre e, in modo particolare, ai malati di Covid.
Non
è una scoperta che facciamo solo adesso. Da tempo i giornali mettono in luce lo
spirito di dedizione e di sacrificio di questa categoria di persone, a cui le
circostanze hanno richiesto, al di là del loro ordinario impegno professionale,
di combattere in prima linea, di fronte a un nemico nuovo e sconosciuto, e per
ciò stesso straordinariamente pericoloso, pagando sulla propria pelle il
rischio di questa sfida.
Alla
data del 18 marzo 2021 risultano morti per Covid 240 medici – di cui 68 in
pensione, ma rientrati in servizio volontariamente, per “dare una mano” – e 83
infermieri. Molto maggiore il numero dei contagiati, alcuni dei quali sono a
stento sono riusciti a farcela e sono sopravvissuti. È un bilancio
pesantissimo, che però non dice ancora nulla circa la qualità umana
dell’impegno profuso dal personale medico e paramedico per contrastare la
pandemia.
E
anch’io non sarei andato oltre i nudi dati statistici – e probabilmente non
avrei scritto questo “chiaroscuro” – se, nel marzo scorso, non mi fossi
ammalato di Covid. È stata questa esperienza che oggi mi spinge a parlare dello
stile non soltanto professionale, ma anche semplicemente umano, di cui sono
stato personalmente testimone nei quaranta giorni in cui sono stato ricoverato
nell’ospedale di Partinico, nei pressi di Palermo, interamente dedicato alla
cura del coronavirus. Uno stile che, da quanto mi viene riferito, non è esclusivo
di questa struttura e può dunque essere menzionato come tipico dell’intera
categoria del personale sanitario impegnato nella lotta contro la pandemia.
Se
dovessi dire che cosa più mi ha colpito, durante questa lunga permanenza
forzata, è stata la generosità e la gratuità dell’impegno di medici,
infermieri, oss (operatori socio-sanitari), nella cura dei degenti. Il
contrario della “cultura dello scarto” vigente nella società. Ho visto
vecchietti, vistosamente segnati dalle conseguenze della malattia e con ogni
probabilità desinati a una prossima fine, accuditi con una dedizione, perfino
con una tenerezza (ne ricordo uno che gli infermieri vezzeggiavano, chiamandolo
“nonnino”, imboccandolo quando non voleva mangiare), che è raro trovare perfino
nelle nostre famiglie. Pazienti che a volte suscitavano in me, compagno di
stanza, moti di stizza, per la loro ostinazione nel rifiutare e nel togliersi
ad ogni occasione la mascherina dell’ossigeno, assediati dal personale, che non
si stancava di insistere cercando tutti gli argomenti per convincerli a
collaborare. Nessuno veniva abbandonato.
Certo,
i rapporti umani erano filtrati dall’anonimato delle tute, tutte uguali, che
proteggevano gli operatori dalla testa ai piedi, lasciando liberi solo gli
occhi (anche quelli, però, protetti da una visiera di plastica). Qualcuno, col
pennarello, aveva scritto sulle spalle il proprio nome o semplicemente la
propria qualifica (medico, infermiere…). Ma in linea di massima era difficile
capire chi si aveva davanti. Si sapeva soltanto che si poteva contare sulla sua
disponibilità e sulla sua pazienza nel venire incontro ai più disparati bisogni
e nello svolgere i servizi anche più ingrati richiesti da persone per lo più
immobilizzate nei loro letti.
In
qualche caso – ma questo dipendeva dal carattere del singolo operatore – era
evidente lo sforzo di sollevare il morale dei malati con scherzi e battute,
senza far pesare la fatica estenuante di un lavoro per cui spesso il personale
era insufficiente.
Al
di là delle motivazioni religiose
Mi
sono chiesto quale fosse la motivazione comune a queste persone nell’offrire
non soltanto l’assistenza richiesta dal loro ruolo, ma qualcosa di più, che non
rientrava nelle regole dello stretto dovere professionale. In alcuni mi è
sembrato di cogliere, da certi accenni, quella religiosa. Ma la mia sensazione
è che alla base di questa stile condiviso ci fosse una interpretazione del
proprio ruolo che andava molto al di là della pura funzionalità e ne
valorizzava l’aspetto umano.
Una
qualità che ho riscontrato, peraltro, anche nel personale della struttura
privata dove, dopo le dimissioni dall’ospedale, ho trascorso altri venti giorni
per la riabilitazione. Anche là medici, infermieri, oss, avevano a cuore il
benessere dei pazienti con una generosità che andava molto al di là delle
semplici esigenze de “il cliente ha sempre ragione”.
L’importanza
della gratuità
No,
gli esseri umani non sono condannati ad essere egoisti e “cattivi”. Anche
perché in fondo la gratuità del dono – di questo si tratta, anche quando si fa
un sorriso o si compie senza farlo pesare un servizio dovuto – rientra a pieno
titolo nella realizzazione delle persone. «Niente è più necessario del
superfluo», ha detto qualcuno. Ciò che gli specialisti chiamano “super
erogatorio” rende più felice il destinatario, ma anche il soggetto che lo pone
in essere. Invece, la logica del “do ut des”, la chiusura nel puro
utilitarismo, che non va oltre il proprio stretto interesse, impoverisce
innanzi tutto chi la pratica. Ci si può illudere di essere, così, “realisti”,
ma chiudere gli occhi sulle nostre esigenze più positive è, invece, una assurda
mutilazione del nostro essere.
Il
grano e la zizzania
Tutto
ciò non cancella la dimensione oscura della nostra vita. La verità è che il
bene e il male sono inscindibilmente mescolati in ognuno di noi. L’esempio di
generosità dei medici e degli infermieri dei nostri ospedali nella lotta contro
il Covid non esclude che alcuni di loro possano, sotto altri profili, essere
responsabili di comportamenti sbagliati o addirittura ignobili. È come nella
parabola evangelica del grano e della zizzania, che crescono insieme.
Tocca
a ciascuno di noi decidere cosa far prevalere nella propria vita, senza
illudersi di poter esorcizzare l’altro aspetto. Nessuno sarà mai così “buono”
da eliminare da sé inclinazioni cattive. E nessuno – nemmeno il gestore della
funivia – può essere demonizzato, dimenticando ciò che di buono comunque c’è in
lui. Una persona è sempre di più dei proprio atti, sia quando sono virtuosi,
sia quando sono pessimi. Perciò bisogna diffidare della logica dello «sbatti il
mostro in prima pagina». Non esistono mostri. Esistono esseri umani,
responsabili del loro destino e chiamati a scegliere cosa vogliono diventare
attraverso i loro atti.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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