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mercoledì 27 settembre 2023

SCUOLA, LAVORO E NEET

«Ecco come una scuola più autonoma 

può sconfiggere il fenomeno dei Neet»

 Una ricerca di Gi Group evidenzia che in Germania e Olanda, dove c’è un forte sistema duale, i giovani che non studiano e non lavorano sono il 10% e il 4,6%. Da noi il 27,1%

 

- di PAOLO FERRARIO

 Più autonomia scolastica per avvicinare istruzione e mondo del lavoro e contrastare efficacemente il fenomeno dei Neet, di cui l’Italia detiene il pesante primato in Europa. È la “ricetta” contenuta nello studio internazionale “Insieme per un futuro sostenibile: giovani e lavoro”, promosso da Gi Group Holding e Fondazione Gi Group. Il nostro Paese, dicono i dati della ricerca - che ha messo a confronto la condizione dei giovani in sette Stati rappresentativi del 70% del Pil dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia, Spagna e Svezia) e nel Regno Unito dovrebbe guardare a ciò che avviene nel resto del continente, soprattutto in Olanda e Germania, organizzando il sistema d’istruzione in modo meno centralizzato, lasciando maggiore autonomia e libertà d’azione alle scuole. E non si tratta soltanto di “quantità” di risorse investite, ma anche della “qualità” della formazione erogata agli studenti. «Per ottenere effetti positivi – si legge nella ricerca di Gi Group – gli investimenti in formazione devono essere indirizzati verso quei campi di studio che sono più legati al mondo del lavoro (come le materie Stem) e attraverso il coinvolgimento diretto delle aziende».

 Il modello di riferimento per la formazione professionale è il sistema duale attivo in Germania e Olanda, Paesi che, nella fascia d’età 18-24 anni, hanno il minor numero di Neet in Europa, rispettivamente il 10% e il 4,6%, contro il 27,1% dell’Italia. Dove quasi un giovane su tre non studia e non lavora. La differenza sostanziale - che è poi anche il principale fattore di successo o di fallimento - tra il sistema italiano e quello degli altri due Stati nordeuropei, non è tanto nel numero di diplomati in percorsi professionali (in Italia sono il 35% del totale, in Germania il 46% e in Olanda il 30%), ma nel fatto che, da noi, come in Francia e Polonia, «la formazione professionale avviene nelle scuole, senza il sostanziale coinvolgimento delle aziende, il che porta ad ampi mismatch con le competenze richieste poi dalle aziende», prosegue il rapporto sulla condizione dei giovani. Da qui il preoccupante dato emerso dall’ultimo Rapporto Excelsior di Unioncamere-Anpal: « Per il solo 2022 Unioncamere ha stimato una perdita di valore aggiunto, causata dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro, pari a circa 38 miliardi di euro». Una montagna di soldi che potrebbe, invece, essere utilmente impiegata, se solo avessimo un sistema di formazione professionale più efficace. Per un’evoluzione in positivo del quadro italiano anche l’età rappresenta un fattore da considerare, prosegue l’analisi di Gi Group.

 Se nel nostro Paese la scelta del percorso scolastico degli alunni avviene a 14 anni, in Germania e Paesi Bassi è tra i 10 e i 12 anni e avviene sulla base dei risultati scolastici e delle valutazioni degli insegnanti, con il rilascio di un consiglio di orientamento scolastico “vincolante”.

 «Ritengo positivo il fatto che il governo abbia messo mano a una riforma degli istituti tecnici e professionali – commenta Stefano Colli-Lanzi, Ceo e Founder di Gi Group Holding – che denota la volontà di lavorare per ridurre quello scollamento tra scuola e lavoro che nel nostro Paese ha raggiunto livelli drammatici. Se guardiamo ai Paesi esteri che prima e meglio di noi sono riusciti nell’intento, scopriamo – aggiunge Colli-Lanzi - che esiste una correlazione diretta tra l’organizzazione del sistema formativo e il sostegno all’occupazione giovanile».

 Per Chiara Violini, presidente di Fondazione Gi Group, «la limitata partecipazione dei giovani al mondo del lavoro è un problema serio e complesso, che in particolare nel caso dei Neet, può generare ricadute molto negative e portare fino alla disaffezione al lavoro e a fenomeni di esclusione sociale e perdita di identità».

 A questo proposito, in autunno, anticipa Violini, Gi Group lancerà « DestinationWork - il progetto di Gruppo dedicato a orientamento, formazione e lavoro - specificatamente rivolto agli studenti del triennio superiore per accompagnarli nel delicato ma fondamentale passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. A loro – conclude la presidente di Fondazione Gi Group – ma anche ai genitori e ai docenti che sono al loro fianco in questo percorso, dedicheremo attività, momenti di confronto e iniziative di orientamento personalizzate».

 www.avvenire.it

 

 

giovedì 7 luglio 2022

PENSARE CON LE MANI


Un fenomeno che caratterizza il nostro Paese è lo “skill mismatch”, il divario esistente tra le competenze richieste dalle imprese e quelle di cui sono in possesso i lavoratori

 

-         di  Giorgio Vittadini

 

Tra i tanti profondi cambiamenti di questa epoca c’è senz’altro un diverso rapporto tra lavori manuali e lavori intellettuali. Nella società industriale del Novecento la distinzione tra i due era netta. Studio, remunerazione, potere erano associati ai secondi; fatica, subordinazione, basso salario riguardavano i primi, che ancora oggi sono considerati lavori “di serie B”, o comunque, un ripiego quando non si riesce a trovare un lavoro intellettuale di qualità.

In realtà, oggi tante mansioni considerate intellettuali sono sostituite dalla tecnologia o automatizzate, riducendo l’apporto cognitivo del lavoratore che pure ha studiato anni. E d’altra parte emerge con sempre maggior chiarezza che creatività, capacità decisionale e relazione, oltre che fantasia e conoscenza, sono necessarie a una serie crescente di lavori manuali. Pensiamo a un artigiano, a un disegnatore, a un cuoco, a un sarto, ma anche a tutte quelle mansioni che richiedono un rapporto e un feed-back costante con un cliente, un partner o un fornitore.

Un fenomeno che caratterizza il nostro Paese è lo “skill mismatch”, il divario esistente tra le competenze richieste dalle imprese e quelle di cui sono in possesso i lavoratori. Si tratta di posti di lavoro che non si riescono a riempire o che si coprono con persone inadeguate e quindi in breve tempo portano a probabili licenziamenti o comunque a bassa produttività. Il fenomeno è di tipo mondiale (1miliardo e 300 milioni di casi), ma in Italia è particolarmente rilevante, giungendo al 38,2 per cento, con 10 milioni di lavoratori che non corrispondono ai profili professionali ricercati dalle imprese. Il fatto è che tutte le professioni stanno evolvendo sulla base dell’aggiunta di “nuove” skill e maggiore rilevanza delle skill di base.

In Italia il tasso di occupazione dei giovani 15-39 anni è decisamente sotto la media Ue (nel 2019 in Italia 54,3 per cento e Ue 70,3 per cento); il tasso di occupazione femminile è nettamente più basso della media Ue per tutte le fasce di età (nel 2019 in Italia 52,2 per cento, 14 punti in meno della media Ue); il tasso di occupazione fra 15 e 74 anni oscilla intorno al 58 per cento e pone il nostro Paese al penultimo posto nell’Unione europea a 27, ben lontano dai Paesi Bassi (77,8 per cento).

Nel convegno “Pensare con le mani” svoltosi alla sala Zuccari del Senato il 21 giugno promosso da Elis, il centro di formazione professionale fondato da san Paolo VI e san Juan de Balaguer è stato presentato il manifesto del “lavorobuono”. Tale documento sviluppa una roadmap virtuosa di policy sulla promozione del lavoro manuale. I temi trattati: come cambia il lavoro manuale, qual è il lavoro che mi corrisponde, rapporto tra lavoro umano e lavoro artificiale, la svolta del lavoro sostenibile, il lavoro per l’uomo.

Si potrebbe pensare che sia almeno facile risolvere i problemi per i lavori manuali meno complessi: ma allora come giustificare che nel nostro Paese i Neet, quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni non occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione, sono in Italia oltre 2 milioni (22,1 per cento del totale dei giovani di quell’età) a fronte di una media del 15,3 per cento dell’Unione europea (solo Bulgaria e Lettonia sono peggio di noi)?

Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, i lavori più umili devono essere pagati in modo decente come non avviene nel nostro Paese: come fa a lamentarsi un ristoratore di non trovare un lavapiatti se lo paga 800 euro per 40 (pesanti) ore settimanali con un contratto totalmente precario?

Inoltre, anche le professioni manuali cambiano: tra i 40 lavori a più alto indice di cambiamento ci sono il disegnatore elettrico, il capocuoco, l’elettricista navale, persino il cassiere che deve sapere usare gli strumenti di comunicazione online, i nuovi strumenti digitali per l’ufficio, intendersi di customer service, lavorare in team, adattarsi al cambiamento continuo.

Ma le ragioni del crollo dei lavori manuali non sono solo legate a bassi salari e a difficoltà di formazione: vi sono anche questioni di tipo culturale.

Il boom industriale in Italia è stato reso possibile dal fatto che il nostro Paese disponeva di istituti tecnici e professionali tra i migliori al mondo. Insegnarono a tanti giovani un “mestiere”, fatto di conoscenze e abilità manuali e permise loro di diventare anche piccoli e grandi imprenditori. Molto dipendeva da una tradizione cristiana per cui la dignità del lavoro non dipende dal tipo di mansione, ma dalla coscienza di partecipare all’azione di Dio “eterno lavoratore”.

Continuare a pensare che lavoro dignitoso sia solo quello intellettuale, e trattare gli istituti tecnici e professionali come una scelta di “serie B”, significa anche non avere rispetto della diversità dei ragazzi, del fatto che tanti crescono e imparano meglio attraverso attività pratiche. E così si contribuisce al degrado e alla marginalizzazione degli istituti tecnici e professionali e al mostruoso conseguente aumento di abbandoni scolastici (13,1 per cento degli studenti, vale a dire 543.000 all’anno!).

Ma c’è un ultimo aspetto che riguarda il tipo di formazione professionale che deve colmare questi enormi gap. Di fronte alla Chernobyl dell’umano che vive nel cuore di molti giovani, come ebbe a dire Luigi Giussani, non bastano investimenti e progetti europei. Ci vogliono realtà come Elis che hanno il coraggio di tener presente la ferita dei ragazzi facendo la fatica di ascoltarli a uno a uno, guardando in faccia lo scetticismo e il cinismo che li dominano, ridando voglia di studiare a chi pensava di essere perduto.

Per tanti di fronte alla proposta dell’avventura di un mestiere (fare il parrucchiere, l’idraulico, l’elettricista, il perito nautico) a un certo punto è riscattata, come una scintilla, il desiderio di essere se stessi, la riscoperta del desiderio di costruire, generare, darsi un futuro. Deve avvenire molto di più: è l’auspicio che lancia questo importante manifesto.

 

Il Sussidiario

sabato 8 agosto 2020

TUTTI COLLEGATI, GIOVANI E ANZIANI PIÙ SOLI. ALLARME HIKIKOMORI


Giovani e anziani sono più soli.  Il paradosso del «tutti collegati»
La solitudine come patologia della modernità. 
Per i vecchi si attenuerà con la scomparsa della generazione «adigitale». 
Preoccupa la crescita degli «Hikikomori»
L’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotti per arginare la pandemia da coronavirus hanno incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale 
L’impegno del Gruppo Abele anche su questo fronte giovanile premiato dall’Accademia dei Lincei con il premio Antonio Feltrinelli 2020

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-          di LAMBERTO MAFFEI*
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La globalizzazione è stata indubbiamente un evento epocale, avvenuto in tempi relativamente rapidi e indotto o certamente facilitato da uno sviluppo altrettanto epocale della tecnologia delle comunicazioni. Essa è stata salutata, almeno all’inizio come un evento favorevole per le popolazioni, mirante a una migliore socialità e collaborazione in quanto ha levato molti limiti agli spostamenti tra Paesi e continenti diversi, promuovendo l’idea che anche gli altri sono buoni e cattivi come noi, con gli stessi pregi e difetti. C ome scrive José Saramago, ci si aspettava che la globalizzazione significasse prima di tutto globalizzazione del pane, la fine della fame nel mondo, ma questo non è avvenuto; ed era possibile, perché è noto che tanto pane è buttato via, o in pance già piene accumula grasso e talvolta patologia come il diabete di secondo tipo. È accaduto invece, come questo giornale continua a documentare, che le disuguaglianze sono aumentate e i ricchi sono diventati ricchissimi e i poveri poverissimi. Mi domando se la globalizzazione abbia significato solo un apparente diverso costume di comportamento, un vestito di un altro colore che copre un corpo con la stessa vecchia anima egoista e con occhi che, per parafrasare ancora Saramago, vedono le disuguaglianze e le ingiustizie, le cui immagini impietosamente si depositano sulla retina, senza però smuovere il cervello della solidarietà.
La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di comunicare, la parola ha perso la sua musica, che porta con sé tutti quei messaggi che è difficile dire, ed è diventata messaggio scritto, quindi visivo, su uno smartphone, volutamente e inevitabilmente sintetico e apatico. Ascoltare, che è comprensione del-l’altro, è ormai considerato perdita di tempo in una forma di egoismo individuale e di una fisiologia dell’indifferenza. 
La globalizzazione e la digitalizzazione dell’individuo hanno fatto emergere, a mio avviso, tra gli effetti collaterali, il paradosso della solitudine: negli anziani, rimasti indietro nella cultura digitale sia tecnicamente che nel nuovo linguaggio che l’accompagna impedendo loro di conversare perfino con i figli; e anche nei giovani, i ragazzi Neet (not in education, employment or training), ragazzi o giovani adulti che non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione e che purtroppo in Italia superano i 2 milioni, e i ragazzi Hikikomori (che vivono fisicamente appartati, autoisolati nella dimensione digitale).
L’effetto di isolamento degli anziani era in gran parte prevedibile, a causa della difficoltà nell’acquisizione delle nuove tecniche; ma, benché terribilmente triste e cinico a dirsi, tale fenomeno è economicamente e anche socialmente trascurabile perché i tecnologi, fautori di queste innovazioni dicono o sperano che esso scomparirà con la generazione vivente 'adigitale'. Il fenomeno degli Hikikomori invece non era affatto prevedibile e va considerato nella sua gravità, nei suoi aspetti sociali, medici e anche politici. Questo fenomeno può essere interpretato non tanto o non solo come una sorta di ribellione giovanile contro la società del consumismo e l’assenza di valori morali e culturali, quanto come una malattia indotta da un cambiamento violento di paradigma culturale, che basato su tradizioni e leggi divenuti memi che passano di generazione in generazione, è stato sconvolto dalla rivoluzione digitale. 
Non è un caso che il fenomeno si sia manifestato prima e più intensamente in Giappone dove le tradizioni sono state e sono guida assai rigida di comportamento e dove l’innovazione tecnologica è stata particolarmente attiva; né è un caso che il fenomeno sia particolarmente presente in famiglie borghesi dove le tradizioni sono più conservate. Il lockdown, il confinamento in casa dovuto al Covid-19, ha certamente aggravato il fenomeno e lo ha reso più evidente alle famiglie costrette anch’esse al confinamento. Nel valutare il fenomeno, bisogna anche considerare che il giovane cerca “fisiologicamente” il nuovo, valori e scopi diversi per vivere e allo stesso tempo è in fuga dai suoi bisogni vegetativi. 
I ragazzi Hikikomori sono giovani, di età compresa tra 11-12 anni e 27-28 anni, che si rinchiudono nella propria stanza, isolandosi dal contatto con altre persone e vivono utilizzando unicamente la connessione telematica, spesso anche con l’inversione degli orari sonno-veglia. Questo comportamento si insinua progressivamente e comporta la rarefazione o più spesso l’abbandono della frequenza scolastica e dei rapporti sociali, fino a un completo isolamento anche rispetto alla famiglia. Il mondo virtuale finisce per sostituire del tutto quello reale. Il fenomeno è iniziato in Giappone dove il numero di questi ragazzi supera già i 2 milioni ed è in espansione. 
In Italia il numero dei ragazzi Hikikomori è intorno ai centomila e in espansione particolarmente nelle regioni del Centro Nord a più alto sviluppo tecnologico. Vi sono osservazioni che suggeriscono che l’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotte per arginare la pandemia da coronavirus abbiano incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale. Sembra che ci sia una relazione (ancora non statisticamente quantificata) tra Paesi o città ad alto sviluppo tecnologico e numero dei ragazzi Hikikomori, come se lo sviluppo tecnologico agisse da attrattore verso una realtà diversa. In Giappone si è sviluppato, ad aiuto dei genitori, un nuovo tipo di occupazione, quello di studentesse che, dietro pagamento, contattano gli Hikikomori, principalmente maschi, cercando di reintrodurli a maggiore socialità.
In Italia il fenomeno dell’isolamento dei giovani è stato sottovalutato: solo il Gruppo Abele, guidato da don Luigi Ciotti, ha colto con tempestiva sensibilità l’importanza del fenomeno che può minare futuro e salute dei giovani. Nel cuore di Torino è già stato organizzato un “centro diurno” che – con un “laboratorio di espressione corporea” e un “laboratorio sulle tecnologie” – ha il progetto di riportare a una normale vita sociale e occupazionale i soggetti isolatisi, grazie a un intervento personalizzato, non sempre e, comunque non completamente di natura clinica, quanto piuttosto educativo socializzante, con rapporti prevalenti con altri ragazzi. 
Per questo l’Accademia dei Lincei ha assegnato per 2020 al Gruppo Abele il premio Antonio Feltrinelli «per un’impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario » . Mi permetto di aggiungere, con un pizzico di orgoglio, che il collega Aldo Montesano e io siamo stati tra i relatori del progetto e l’abbiamo sostenuto con grande convinzione.

*Presidente emerito Accademia dei Lincei




martedì 15 gennaio 2019

RAPPORTO ISTAT - CRESCE L'ABBANDONO SCOLASTICO



L’ultimo Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat evidenzia che il trend di abbandono scolastico in Italia è in crescita! Nel 2017, infatti, i giovani di 18-24 anni che non sono inclusi nel sistema di istruzione e formazione e possiedono al più la licenza media sono aumentati, arrivando in un anno all’11,3% contro il 10,6% del 2016 (www.istat.it), sono il 21,2% in Sardegna e il 20,9% in Sicilia; in altre regioni, invece, la percentuale di giovani che abbandona è inferiore al valore medio europeo: in Abruzzo (7,4%), provincia di Trento (7,8%), Umbria (9,3%), Emilia-Romagna (9,9%), Marche (10,1%), Friuli-Venezia Giulia (10,3%) e Veneto (10,5%).



martedì 6 marzo 2018

SCUOLA. IO VOTO SOCRATE!

LETTI DA RIFARE
Solo chi ha vocazione provoca vocazioni,
 cioè nuove coraggiose esplorazioni del mondo.

Non riuscirei a fare l'insegnante senza prendere sul serio la vita futura dei ragazzi e credo sia questo il letto da rifare oggi.

 di A. D'Avenia

«Molte volte, conoscere se stessi, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti. Molte volte, invece, assai difficile». Così Alcibiade manifestava al maestro la sua preoccupazione di fronte alla fatica che comporta crescere. Socrate gli rispose: «Alcibiade, che sia facile oppure no, conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere».
Qualsiasi riforma della scuola dovrebbe partire dall'affermazione di Socrate, che pone come fine della conoscenza la cura di se stessi e quindi del mondo. Nei fatti, però, il sapere al servizio della cura dell'uomo è oggi quasi impossibile in una scuola immobilizzata dalla burocrazia, corrosa dal precariato dei docenti giovani e dal cosiddetto burn-out, in italiano «bruciare completamente», dei meno giovani, «bruciati, scoppiati», potremmo dire, non per l'ordinario stress da lavoro, ma a causa di un vero e proprio esaurimento emotivo, figlio della mancanza di senso e riconoscimento per ciò che si fa. La demotivazione degli insegnanti, in un sistema che ne trascura la dignità, genera la corrispondente apatia nei ragazzi, privati così dell'essenza della scuola: l'orientamento, cioè l'aiuto prestato a un giovane in formazione per intercettare la parte di realtà in cui riuscirà a mettere in gioco il meglio di sé. Ed è proprio perché manca l’orientamento che troppi studenti lasciano la scuola, ritirandosi o anche solo arrendendosi mentalmente, incapaci di cogliere il proprio futuro: la formazione, senza orientamento, è sterile, non serve alla vita, alla presa sulla vita. Si sentono oggetti da prestazione e non soggetti di possibilità, atomi isolati e non storie che portano il nuovo nel mondo. E non possiamo stupirci se la naturale tensione al compimento di sé, quando non trova una meta, si corrompe in apatia o in violenza.
«Frequento la quinta superiore e non ho la più pallida idea di cosa voglio fare della mia vita (che cosa hanno fatto fino ad adesso gli insegnanti con me?). Come faccio a capire qual è la mia vocazione? Non mi aspetto una soluzione al problema, però ti chiedo se puoi aiutarmi a capire quali possono essere i criteri e i modi per scoprire ciò a cui sono chiamata». Ricevo da tantissimi studenti lettere come questa, a conferma che l'essere umano si definisce come tale solo se riesce a dar senso, significato e direzione, alla propria vita nel mondo che lo circonda: cioè impara ad abitarlo anziché subirlo. In questo senso i docenti sono mentori, guide per temporanei «non vedenti»: i ragazzi, con la vista ancora un po’ annebbiata, imparano passo passo ad orientarsi arrivando poi a «vedere» davvero.
        Alla fine di 13 anni di scuola sono tantissimi i ragazzi che non sanno molto di sé. Per questo sono paralizzati dalla paura, come mostra il crescente fenomeno dei cosiddetti Neet (acronimo inglese di «not in education, employment or training»), cioè giovani che non studiano né lavorano, in Italia più di 2 milioni, di cui si è occupato Alessandro Rosina nel libro dedicato al nostro potenziale perduto proprio per l'inefficienza nella transizione scuola-lavoro. E questo dipende in gran parte dal fatto che la scuola non aiuta a scovare le proprie attitudini. Molti dopo le medie non sanno che strada ……..