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sabato 11 dicembre 2021

UNA NUOVA INQUISIZIONE ?


 Minacce di morte per l’autrice di Harry Potter

 

-         di Giuseppe Savagnone*

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Può sorprendere che, nel nostro tempo, ci siano ancora dei dogmi di cui è molto pericoloso mettere in discussione la verità e che esista una nuova versione dell’Inquisizione, impegnata a perseguitare chi li contraddice.

Ancora più sorprendente può apparire il fatto che queste esplosioni di fondamentalismo si stiano verificando non nell’Afghanistan dei talebani, di cui sulla nostra stampa si è giustamente denunciata l’intolleranza, ma nel Paese occidentale tradizionalmente all’avanguardia nella lotta per i diritti di libertà, il Regno Unito. Proprio questa collocazione, peraltro, rende il fenomeno un inquietante sintomo di tendenze che da tempo affiorano in varie parti d’Europa e di cui abbiamo le avvisaglie anche in Italia.

Mi riferisco alla vicenda – per la verità non molto evidenziata sui nostri quotidiani – che coinvolge la notissima scrittrice Joanne Rowling, meglio conosciuta con lo pseudonimo di J. K. Rowling.  Ormai da circa tre anni la creatrice della saga di Harry Potter è oggetto di un vero e proprio linciaggio morale per le sue posizioni sul tema del gender. Ora sembra si stia passando a un livello più alto di aggressività, che comporta anche una minaccia fisica.

Proprio in questi giorni tre attivisti per i diritti dei transgender hanno pubblicato sui social la fotografia della villa dove la Rowling abita con il marito e i figli, additandola evidentemente come bersaglio per azioni “punitive”. La Rowling ha risposto ribadendo la sua risoluta volontà di resistere anche a questo tipo di pressioni: «Dovrebbero riflettere», ha dichiarato, «sul fatto che ho ricevuto così tante minacce di morte che potrei tappezzare la casa, ma non ho smesso di parlare».

Da parte sua, il premier britannico Boris Johnson ha espresso, tramite un suo portavoce, la propria solidarietà alla scrittrice: «Nessun individuo dovrebbe essere preso di mira in quel modo. Tutti hanno il diritto di essere trattati con dignità e rispetto e le persone devono essere in grado di condividere le proprie opinioni allo stesso modo».

Si ha il diritto di dire che le donne sono donne?

L’episodio in questione è solo l’ultimo capitolo di una vicenda che si svolge ormai da quasi tre anni e che vede coinvolti non soltanto degli isolati fanatici, ma l’opinione pubblica inglese.

Tutto è cominciato alla fine del 2019, quando Maya Forstater, una ricercatrice del Center for Global Development, si era espressa su Twitter contro alcune proposte di riforma (poi in realtà respinte) del “Gender Recognition Act”, che prevedevano il cosiddetto self-id o autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal proprio sesso biologico e senza alcuna diagnosi, perizia o sentenza.

«Gli uomini non possono trasformarsi in donne», aveva scritto senza mezzi termini, in quell’occasione, la Forstater. Quando, per questo suo intervento, non le era stato rinnovato il contratto, la ricercatrice aveva fatto ricorso al tribunale, che però aveva confermato il licenziamento giustificandolo con la sua visione «assolutistica» e con le sue idee non «degne di rispetto in una società democratica».  

A proposito di questa vicenda la Rowling era intervenuta su Twitter: «Vestitevi come volete», aveva scritto. «Chiamatevi come volete. Andate a letto con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro a una donna per aver dichiarato che il sesso è una cosa reale?».  Le comunità Lgbt sono insorte contro questa presa di posizione e l’avevano aspramente criticata.

Ma era solo l’inizio di un contrasto destinato ad acuirsi sempre di più. Perché pochi mesi dopo, nel giugno 2020, la Rowling, sempre su Twitter, è di nuovo intervenuta, ironizzando sul titolo di un articolo dove si auspicava un mondo più equo «per le persone che hanno le mestruazioni»: «Sono sicura» – scriveva – «che ci fosse una parola per definire quelle persone. Qualcuno mi aiuti. Wumben? Wimpund? Woomud?»: ma sì, il termine censurato era “Women”, “donne”.

Di nuovo pioggia di critiche per questa sottolineatura della dimensione sessuale dell’identità femminile. Il giorno dopo, la scrittrice ha provato a fare chiarezza twittando: «Conosco e amo le persone trans, ma cancellare il concetto di sesso significa rimuovere la capacità di molti di discutere in modo significativo delle loro vite. Dire la verità non vuol dire odiare». Ma il suo sforzo di dialogo non ha avuto successo.

Neppure quando ha ribadito che il suo intento non era di mettere in discussione «il diritto di ogni persona transgender di vivere nel modo che ritenga più autentico e adeguato.». A questo proposito, anzi, precisava: «Marcerei con voi se foste discriminati per il fatto di essere trans. Allo stesso tempo, la mia vita è stata modellata sull’essere donna. Non credo che questo sia deprecabile dirlo».

A nulla è valso neanche il riferimento autobiografico, pubblicato sul suo sito, in cui raccontava alcune traumatiche esperienze vissute da ragazza per spiegare la sua convinzione che sia necessario mantenere spazi dedicati alle donne. «Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è la semplice verità».

Una vicenda italiana

È esattamente la stessa difficoltà sollevata in Italia da 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica, a proposito della definizione, contenuta nell’art. 1 del ddl Zan, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Le associazioni femministe avevano obiettato che una simile visione non rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. E citavano un caso di attualità verificatosi negli Stati Uniti: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili». Con grande allarme delle donne in senso biologico detenute in queste carceri.

Ma si potrebbe pensare anche al problema delle gare sportive e a tutti gli altri casi in cui un maschio potrebbe rivendicare il diritto di essere considerato “donna” perché “si sente” tale, senza alcuna ulteriore verifica di ordine medico. Nel documento delle associazioni femministe si osserva: «Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».

Tra isolamento e solidarietà

Sta di fatto che la polemica contro la Rowling è montata sempre di più. Anche gli attori che avevano recitato nei film ispirati alla saga creata dalla scrittrice l’hanno attaccata. «Le donne transgender sono donne», ha ribadito Daniel Radcliffe, alias Harry Potter. E l’attrice Emma Watson, Hermione nelle pellicole sul maghetto: «I trans meritano di vivere la loro vita senza che siano altri a definirli».

A difendere la Rowling, tra questi interpreti, è rimasto solo Ralph Fiennes, che nella saga cinematografica su Harry Potter ha rivestito il ruolo del “cattivo”, Lord Voldemort: «Trovo questa epoca di accuse e il continuo bisogno di condannare semplicemente irrazionali. Trovo inquietante il livello di odio che le persone esprimono nei confronti di chi ha opinioni diverse dalle loro, e la violenza del linguaggio verso gli altri».

In questo clima fortemente critico, la scrittrice è stata però anche supportata nell’opposizione a politically correct e cancel culture da 150 intellettuali – tra cui Noam Chomsky, Salman Rushdie, Margaret Atwood (autrice femminista, ma a sua volta accusata aspramente di non esserlo abbastanza) e la stessa J.K. Rowling, – che, in una lettera aperta pubblicata su «Harper’s Magazine» nel luglio 2020, hanno denunciato il pericolo di una nuova intolleranza che finisce per reprimere la libertà di pensiero e parola.

Quello della Rowling non è un caso isolato

Il problema, infatti, non riguarda solo Joanne Rowling. Si è già accennato prima al fatto che lei stessa è entrata nel vortice degli attacchi per aver difeso una ricercatrice, Maya Forstater, licenziata per aver contraddetto pubblicamente le tesi del movimento Lgbt. Ma si possono fare altri nomi.

Il più noto, forse, è quello di Kathleen Stock, docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

La Stock qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, e alle persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Le intimidazioni nei suoi confronti erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché darle un numero di emergenza da chiamare in caso di pericolo. Da qui le forzate dimissioni.

È solo un esempio e non certo isolato, se nel febbraio 2021 il ministro dell’Istruzione Gavin Williamson si è detto preoccupato perché «sempre più spesso, negli atenei britannici, i docenti vengono zittiti o censurati». Si noti, peraltro, che questa intolleranza, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne impegnate in una professione intellettuale, specie se femministe.

Non si accetta che proprio loro, pur nel pieno rispetto di tutte le possibili variabili, ribadiscano il sussistere delle identità sessuali e della differenza tra quella maschile e quella femminile. Il caso del Regno Unito è emblematico di un pericolo con cui oggi anche in Italia siamo chiamati a confrontarci.

È giusto riprendere i problemi reali a cui il ddl Zan voleva far fronte, problemi che non possono essere considerati certo superati per il suo affossamento. Ma nel farlo bisognerà tenere presente il contesto culturale in cui ci muoviamo, per evitare che il giusto rispetto per alcune categorie di persone si traduca in una minaccia alla libertà di pensiero e di espressione di tutti gli altri.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

lunedì 12 luglio 2021

GENDER, PERSONA, EDUCAZIONE

        È in gioco una visione 

della sessualità e delle persone

La discussione sul ddl Zan si è prevalentemente sviluppata sul tema della libertà di opinione e sul rischio di una censura nei confronti di chi non condivide la concezione della sessualità adottata nel testo. Lasciando spesso in secondo piano il contenuto di questa concezione. Che invece vale la pena di esaminare attentamente. Perché il testo non si riduce – come dicono i suoi sostenitori – alla tutela di soggetti emarginati e perseguitati per la loro diversità sessuale. A questo sarebbe bastato il ddl Scalfarotto (che il testo dell’on. Zan ha assorbito e sostituito), in cui ci si limitava a rendere più pesanti le pene per i reati «fondati sull’omofobia o sulla transfobia», senza tirare in ballo le definizioni generali oggi contestate, inevitabilmente legate a una visione complessiva (e dunque filosofica) della persona. Ed è proprio tale visione, non la tutela in sé stessa (su cui tutti, almeno a parole, dicono di essere d’accordo), a suscitare le divergenze nei confronti del ddl che il Senato si accinge a discutere e probabilmente ad approvare, riconoscendo e rendendo vincolanti nel nostro ordinamento giuridico delle categorie concettuali proprie delle gender theories, contenuti nel testo Zan.

L’«identità di genere»

Ma quali sono questi contenuti “teorici”? Uno, in particolare, ha determinato una decisa opposizione anche da parte di 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica. Si tratta della definizione, contenuta nell’art. 1, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Mentre il sesso è costituito da quell’insieme di caratteri biologici e morfologici, inscritto nella corporeità di una persona fin dalla sua nascita, per cui si è maschio oppure femmina, ed è dunque un dato oggettivo, l’«identità di genere» dipende dalla percezione che il soggetto ha di sé anche se questa non corrisponde al sesso. E ciò anche se non ha già «concluso un percorso di transizione», in altri termini, anche se non ha ancora “cambiato sesso” con l’aiuto di interventi chimici o chirurgici. Ora, che si possa distinguere tra il sesso biologico e la percezione soggettiva della propria «identità di genere» (nella stragrande maggioranza dei casi, peraltro, corrispondente al sesso), è un dato di fatto. Non si nasce uomo, come non si nasce donna. Il dato anagrafico trova la sua piena realizzazione quando il maschio e la femmina se ne appropriano attraverso la loro crescita complessiva.

Ma fissare come normativa, in un testo legislativo, questa «identità di genere», a prescindere dal sesso, significa mettere in secondo piano, in linea di principio, la dimensione fisica, biologica, corporea, di una persona, e privilegiare unilateralmente la sua percezione soggettiva. E questo non è più un dato ma, per quanto molti si accaniscano a negarlo, una teoria – o, per chi preferisce, una ideologia –, una concezione della sessualità, che, se fatta propria dall’ordinamento, non può non creare dei problemi, anche al di fuori delle questioni specifiche affrontate nel ddl Zan.

Il rispetto delle donne

Un esempio lo hanno portato, in un loro documento, le associazioni femministe che hanno protestato contro di esso: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili». Con grande allarme delle donne in senso biologico detenute in queste carceri.

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. Che succederebbe se un individuo caratterizzato biologicamente come maschio dicesse di “sentirsi” donna e pretendesse, perciò, di essere ammesso nel bagno o nello spogliatoio femminile? Negarglielo non significherebbe discriminarlo, misconoscendo la sua «identità di genere»…?

E, nelle discipline sportive in cui è fondamentale la distinzione tra le gare femminili e quelle maschili, basata sulla differenza di sviluppo muscolare, potrebbe essere ammesso alle prime, come concorrente, un maschio che “si sentisse” donna?

Insomma, una simile visione, secondo molti, non rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. Nel documento delle associazioni femministe si osserva: «Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».

Tutto questo merita un ulteriore approfondimento, ma è sufficiente a evidenziare che, sullo sfondo del rapporto tra “sesso” e “identità di genere”, si pongono dei problemi reali e che far diventare legge dello Stato un testo che non sembra prenderli in considerazione – ma a cui ci si potrà appellare per altre possibili e imprevedibili applicazioni – è quanto meno un’imprudenza.

L’applicazione educativa della «identità di genere»

Ci sono poi perplessità che riguardano più in generale la corrispondenza della teoria dell’«identità di genere» alla struttura dell’essere umano, per il quale la corporeità – di cui la caratterizzazione sessuale è elemento essenziale – non rappresenta un involucro esteriore secondario, rispetto alla sua identità, ma entra a costituirla. Noi non “abbiamo” un corpo, “siamo” il nostro corpo. Ed esso non è un frammento di materia amorfa, indifferente per il nostro destino, ma esprime in ogni sua manifestazione la nostra personalità.

Questa considerazione assume un particolare rilievo in ambito educativo. Il ddl Zan istituisce una «Giornata contro l’omofobia», che prevede interventi nelle scuole di ogni ordine e grado e sulla cui scia si moltiplicheranno probabilmente analoghe iniziative. L’idea è in sé in linea con la necessità di superare un clima diffuso di discriminazione nei confronti dei “diversi”. Il punto critico semmai riguarda le modalità della sua realizzazione. Non è irragionevole supporre che gli istituti scolastici facciano tesoro del materiale già elaborato appositamente per la formazione degli insegnanti in questo campo.

E questo materiale già esiste. Alcuni anni fa, su commissione di un ufficio governativo, l’UNAR, l’Istituto Beck ha elaborato, con la collaborazione delle associazioni LGBT, tre opuscoli – uno per ogni diverso livello di scuola – con l’unico titolo Educare alla diversità nella scuola, destinati ad essere distribuiti a tutti gli insegnanti (in realtà la distribuzione fu poi bloccata nell’aprile del 2014, da una decisione del Miur, dopo che il quotidiano dei vescovi «Avvenire» aveva denunciato la problematicità del loro contenuto). Lo scopo era di combattere ogni forma di discriminazione dei “diversi”, con particolare riferimento all’aspetto sessuale.

Proprio in questa polarità veniva infatti individuata la matrice della violenza. Da qui la necessità di superarla: «Nella società occidentale si dà per scontato che l’orientamento sessuale sia eterosessuale.  La famiglia, la scuola, le principali istituzioni della società, gli amici si aspettano, incoraggiano e facilitano in mille modi, diretti e indiretti, un orientamento eterosessuale. A un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa e, se è femmina, di un principe. Non gli sono permesse fiabe con identificazioni diverse» (Istituto Beck, Educare alla diversità a scuola. Scuola primaria, p.3).

Per rimediare a questa situazione, negli opuscoli in questione si raccomandava agli insegnanti, fin dalla scuola primaria,  di «non assegnare attività diverse a seconda del sesso biologico, di «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assuma che l’eterosessualità sia l’orientamento “normale”, invece che uno dei possibili orientamenti sessuali)» di far capire ai bambini/ragazzi/adolescenti che  «i rapporti sessuali omosessuali sono naturali», equiparandoli sistematicamente a quelli etero: «Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”» (ivi, p.23). Si chiedeva inoltre di far sempre riferimento, nell’attività didattica, alla famiglia gay, perfino nel proporre di problemi di matematica. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”» (ivi, p.6).

Si tratta di una linea che per superare l’innegabile proliferare della violenza nei confronti dei “diversi”, piuttosto che educare al rispetto della diversità, punta sulla sua neutralizzazione, promuovendo l’idea che la polarità sessuale maschio-femmina è irrilevante. Da qui l’impegno sistematico, sul piano educativo, a sganciare l’«identità di genere» dalla corporeità, affidandola unicamente all’ esperienza soggettiva di singoli.

Dal punto di vista pedagogico ci si potrebbe chiedere se sia opportuno caricare di un simile problema personalità ancora molto acerbe (si comincerebbe fin dalla scuola primaria), in una fase della vita in cui l’identità sessuale ha ancora bisogno di definirsi e il riferimento alla propria caratterizzazione sessuale in senso biologico è molto importante.

Ma, più in generale, si tratterebbe di una “rivoluzione culturale”, a cui la codificazione giuridica della «identità di genere» contenuta nel ddl Zan darebbe la sua copertura, senza che questo concetto sia stato mai veramente discusso e accettato democraticamente. Giusta o sbagliata che sia questa concezione della persona e della sessualità, non si rischia di introdurre, così, surrettiziamente, ed un’ideologia di Stato, contro le logiche di una società veramente pluralista?   Sono domande che meritano quanto meno una riflessione. Per non affidare una scelta così gravida di conseguenze all’onda emotiva dell’opinione pubblica e alle pressioni degli influencer.

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

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domenica 11 luglio 2021

DDL ZAN. VISIONE ANTROPOLOGICA E LEGGI DELLO STATO

 

 Ddl Zan, democrazia,

     questione  (anche teologica) 

               della persona

-         di GIUSEPPE LORIZIO*

        

Nel dibattito profondo e appassionato circa la legge contro l’omo-transfobia per chi cerca di pensare e far pensare si pongono delle questioni fondamentali, che superano il livello politico- partitico e giuridico-legislativo. E il teologo non le può accantonare assistendo dalla finestra al susseguirsi degli eventi. Tanto più che egli è, e non può non essere, cittadino consapevole della propria appartenenza alla città di Dio e a quella degli uomini, senza confusione, ma anche senza separazione, come recita il Concilio di Calcedonia.

Una recente intervista a Stefano Fassina, intellettuale e parlamentare di sinistra, ha messo in luce un nodo teorico decisivo: «La questione fondamentale è che l’articolo 1 [dell’attuale disegno di legge] contiene una visione antropologica. E una visione antropologica non può essere legge dello Stato. Il rafforzamento necessario e urgente della normativa antidiscriminatoria non può essere legato, mi ripeto ancora per essere più chiaro possibile, a una visione antropologica» ('Avvenire' 7 luglio 2021). 

Che cosa è in gioco, se non l’umano, che si caratterizza per il passaggio (in questa terra) di un 'io' in una corporeità, fisica e determinata, il cui realismo non può essere facilmente eluso a favore di un soggettivismo indiscriminato? Viene dunque alla ribalta la discussione sulla 'persona', sui suoi inalienabili diritti e doveri, ma anche sulla visione che la società e lo Stato sono chiamati a esprimere di questa singolarità inviolabile, di cui la legge dovrebbe garantire in primo luogo la sussistenza, condannando ogni forma di violenza nei suoi confronti. Tuttavia, all’argomentazione del deputato, si potrebbe obiettare il fatto che in ogni caso una legge ha alle sue spalle una visione antropologica, persino le leggi più curvate sull’economico. E di questo abbiamo tutti, da intellettuali e da credenti, il dovere di continuare a discutere.

Questa sottolineatura mi conduce al nocciolo della riflessione. Proprio perché dell’umano si tratta, e dell’uomo in quanto persona, ogni volta che ci si accinge a formare una legge, come cittadino non della città celeste, ma di questa stupenda nazione che è l’Italia, mi sento garantito dalla Costituzione repubblicana, che agli articoli 55 e 70 afferma il bicameralismo e l’«esercizio collettivo» (art. 70) del potere legislativo. E questo perché rispettosa della complessità delle questioni e dei risvolti antropologici che esse mettono in campo di volta in volta. Problematiche che hanno bisogno di tempo di riflessione, di dialogo e di dibattito.

La sapienza dei padri della Repubblica tende a mettere in guardia dalla fretta e dal prendere decisioni istantanee (tutto e subito!), quando invece si richiede tempo e matura riflessione. Nella fattispecie, come direbbero i giuristi, alla cui categoria non appartengo affatto, ma che mi interpella come cittadino, blindare un testo legislativo nel passaggio da una camera all’altra non è per nulla rispettoso della Costituzione. Se ciò può accadere (per esempio, nel caso della fiducia posta dall’esecutivo), non è questo il caso, in quanto il premier ha detto che la questione è del Parlamento (ossia delle due Camere), non del Governo in carica e neppure della sola Camera che l’ha già votata.

Tirare la giacca al Senato o blindare il testo con il diktat: 'o prendere o lasciare!', significa non aver compreso né la posta in gioco, né l’ordinamento della nostra Repubblica. Cerchiamo pertanto di essere democratici nella vita e non solo nell’etichetta partitica.

 

*Pontificia Università Lateranense

 

www.avvenire.it

 

 

sabato 26 giugno 2021

DDL ZAN. CHE LA RAGIONE PREVALGA!


 -        di Giuseppe Savagnone


«Concordo pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota Verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali». Così è intervenuto il card. Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, nel dibattito sul rapporto tra il Vaticano e lo Stato italiano.

Un intervento che in cui si manifesta l’evidente intento del Vaticano di abbassare i toni della polemica – e forse la presa di coscienza di avere fatto un passo controproducente, almeno davanti all’opinione pubblica –, come conferma anche la precisazione del “ministro degli Esteri” del papa, secondo cui la Nota era destinata a rimanere «un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica. Un testo scritto e pensato per comunicare alcune preoccupazioni e non certo per essere pubblicato».

Peraltro, il cardinale ha ribadito ciò che già si sapeva: «Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare il ddl Zan. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è».

Un problema reale da discutere laicamente

Quale che sia la valutazione della opportunità o meno dell’intervento della Santa Sede, c’è almeno un punto su cui sarebbe bene riflettere, si sia o meno d’accordo con esso nel suo insieme. Discuterlo con equilibrio, al di là del coro di proteste che la Nota ha suscitato – alcune, per la verità, evocanti un laicismo vecchio stampo, come nel caso di Fedez – non è una rinuncia alla laicità, ma il rispetto della sua essenza, che è la disponibilità a confrontarsi razionalmente con chi la pensa in modo diverso.

Nel ddl Zan si prevede un aggravio di pena per chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione» nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Ora, come ha fatto notare Parolin, «il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo».

Basta cercare nel vocabolario «Treccani»: il significato di “discriminare” è «distinguere, separare, fare una differenza». Ora, è chiaro che chi – come la Chiesa cattolica, ma non solo – non condivide l’equiparazione piena tra i rapporti eterosessuali e quelli omosessuali, sta ponendo per ciò stesso una differenza, una discriminazione tra i primi e i secondi. Rientra per questo nella fattispecie criminale prevista dal ddl Zan?

È vero che, per rispondere alle preoccupazioni di chi accusava il ddl Zan di impedire ogni forma di dissenso rispetto alla dibattuta questione del gender, è stato inserito appositamente nel testo l’articolo 4, che esclude dalla punibilità «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte». Ma anche questa precisazione contiene, alla fine, una postilla non insignificante: «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Mettendo da parte l’ipotesi estrema della violenza, un giudice non potrebbe considerare una omelia, una catechesi – o anche semplicemente una presa di posizione da parte di chiunque sostenga che quello tra uomo e donna è l’unico “vero” matrimonio – come manifestazioni di pensiero «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori», nella misura in cui destinate a convincere gli ascoltatori a fare una netta differenza, e quindi una discriminazione,  tra l’unione eterosessuale e quella gay?

Quand’è che la discriminazione – il “fare la differenza” – tra eterosessualità e omosessualità è l’implicazione di una visione dell’essere umano, del corpo, della sessualità, pur nel pieno rispetto delle persone, e quando invece comporta il proseguimento di una secolare, triste tendenza, ancora molto diffusa, a insultare, umiliare, perseguitare, emarginare chi è “diverso”? Questo il ddl Zan non lo precisa.

Il valore della differenza

Qualcuno dirà che già ammettere una diversità è una forma di emarginazione. Non è vero. È proprio questo l’equivoco delle gender theories, quando puntano a “decostruire”, o comunque a minimizzare, la differenza sessuale inscritta nella biologia e nella morfologia dei nostri corpi, considerandola automaticamente fonte di ingiustizia e di violenza. Non è vero che si può rispettare l’altro solo se si elimina la sua diversità. Al contrario, il vero rispetto nasce proprio dall’accettazione delle differenze. La reazione contro l’“omofobia” non può giustificare un’altrettanta disastrosa tendenza all’omologazione indiscriminata, peraltro già presente nella nostra società.

E finché non si faranno queste precisazioni, anche il messaggio culturale ed educativo che il ddl Zan vuole indirizzare alla società, e in particolare alle scuole, con l’istituzione di una “Giornata nazionale contro l’omofobia”, rischia di essere estremamente ambiguo e di trasformarsi, in molti casi – pur col lodevolissimo intento di combattere il bullismo e altre forme di cattiva discriminazione –, in un’ esaltazione della in-differenza tra maschile e femminile, tra omo ed eterosessualità, tra famiglie etero e famiglie gay, tra la generazione fondata sull’amore tra uomo e donna e quella che fa ricorso all’utero in affitto.

Particolarmente allarmante è che la prospettiva di questa propaganda capillare gravi su tutte le nostre scuole, di ogni ordine e grado, incluse le elementari. Un emendamento, che prevedeva l’introduzione nel ddl Zan del consenso dei genitori per i bambini della scuola primaria, è stato respinto. Come non vedere il pericolo di una ideologia di Stato, che scavalca la Chiesa, ma anche la famiglia?

Il pasticcio

Detto tutto ciò, bisogna prendere atto che la gestione “politica” di queste legittime esigenze, da entrambe le parti oggi in conflitto, ha lasciato molto a desiderare e ha impedito di affrontare i problemi reali. A lungo la posizione della Cei è stata del tutto negativa verso il ddl Zan, bollato in blocco come suerfluo e liberticida. Non si sono colte le esigenze in sé giuste che esso rappresentava e non si è fatto lo sforzo per distinguerle dalle formulazioni sbagliate. Solo in extremis – quando ormai era chiaro che il testo stava per diventare legge – in una battuta con i giornalisti il card. Bassetti ha precisato che l’intento dei vescovi non era di affossare il testo, ma di modificarlo. Come del resto oggi ribadisce la Santa Sede, che però è intervenuta troppo tardi per avviare un dialogo costruttivo e si è attirata, con il suo passo, accuse di ingerenza del tutto infondate (qui si tratta del rispetto di un accordo tra due Stati e del legittimo confronto tra essi quando nascono dei problemi), ma accolte in blocco da un’opinione pubblica poco abituata (ancora una volta) a fare distinzioni.

Dal lato del Parlamento si è lasciato che gli equivoci del ddl Zan permanessero, dando spazio alle fazioni che vedono nella battaglia sulle questioni etiche un modo per smantellare la tradizione etica del nostro Paese. Particolarmente assordante il silenzio dei deputati e senatori cattolici disseminati sia a destra che a sinistra, con la sola eccezione – purtroppo sospetta – di quelli che da tempo cercano di accaparrarsi l’elettorato cattolico, ostentando una ispirazione evangelica di cui il loro programma complessivo è una evidente smentita. E questa confusione (ancora una volta, si misconoscono le differenze) tra laicità e laicismo non poteva che portare allo scontro.

Il risultato è sotto i nostri occhi. Difficile dire come finirà. Ma non possiamo rinunziare alla speranza che la ragione – non la fede – prevalga, per migliorare il ddl Zan e far sì che le giuste esigenze che esso rappresenta si concilino con il rispetto di un pluralismo esaltato da tutti a parole, ma minacciato nei fatti.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

giovedì 24 giugno 2021

UNA SANA LAICITA'

 


Ddl Zan, la sana laicità 

che assicura le giuste libertà della Chiesa e di tutti

Caro direttore, ci risiamo: l’assenza di laici responsabili e maturi nella scena politica del Paese, fa sì che debbano intervenire le gerarchie ecclesiastiche su temi particolarmente sensibili. Prima i vertici della Cei poi la Segreteria di Stato vaticana hanno di fatto suonato un campanello di allarme, indicando i rischi connessi all’attuale formulazione della proposta di legge Zan contro l’omotransfobia. Purtroppo, come sembra, tali interventi vengono anche fraintesi e, per dirla tutta, si espongono al fraintendimento, il che non accadrebbe se a metterli in campo fossero dei laici credenti ( christifideles laici, secondo la dicitura cara a Giovanni Paolo II). Con i suoi campanelli di allarme, la Chiesa esercita il suo ruolo profetico di fronte alla società e al pensiero in essa dominante.

Sul piano diplomatico, l’intervento mi sembra decisamente legittimo. Come con la diplomazia interveniamo su regimi che negano la libertà delle persone, i quali a loro volta ritengono 'ingerenza' la difesa dei diritti umani, così, la Segreteria di Stato vaticana ha tutto il diritto di rivolgersi ai propri interlocutori diplomatici a livello istituzionale. Chi ritiene che l’occasione possa essere propizia per recedere dal Concordato, considerato clerico- fascista, si pone in opposizione a una realpolitik, che magari viene invocata in altri ambiti geopolitici.

Il vero problema sta altrove. I laici cristiani politicamente impegnati dovrebbero far riflettere sul fatto che, oltre il Parlamento, in Italia, esiste una Corte costituzionale, la quale sarebbe comunque chiamata a esprimersi, qualora rispetto a una legge si insinuasse il dubbio della incostituzionalità. E ciò prima ancora di intraprendere guerre di religione o battaglie 'ideologiche'. Per quel che posso comprendere da profano, ma comunque cittadino e credente, il contenzioso si può ridurre a due motivi fondamentali. Il primo e più eclatante riguarda il reato di opinione e l’eventuale attentato che il dettato della legge porrebbe di fronte alla libertà di pensiero. Non dimentichiamo che l’illuminismo intollerante ha prodotto martiri proprio in nome di tale libertà, che non è stato capace di rispettare e riflettere fino in fondo. Se davvero fossimo in tale situazione, la Corte costituzionale dovrebbe fare il suo dovere per richiamare i diritti fondamentali delle persone e dei gruppi. Ma ciò potrà avvenire solo a legge approvata. Nel frattempo, il miglior modo di suscitare il dibattito è quello di dialogare con i soggetti della politica, evitando anche che la posizione dell’autorità ecclesiastica venga strumentalizzata da forze che, in altri contesti, negano diritti umani fondamentali.

Il secondo ambito riguarda la 'giornata' contro l’omotransfobia nelle scuole, cui dovrebbero aderire anche quelle di ispirazione cattolica. Est modus in rebus, perché qui sono chiamati in causa gli organi collegiali delle istituzioni scolastiche, che possono organizzare tale esperienza nei modi che ritengono più opportuni in relazione al progetto educativo della comunità educante stessa. Ed anche qui il ruolo dei laici è determinante.

Proprio chi si scaglia contro il Concordato in una circostanza come questa rischia, suo malgrado, di fomentare quella 'guerra di religione', di cui, oggi come oggi, nessuno sente il bisogno.

*Giuseppe Lorizio, Università Lateranense

RISPOSTA DEL DIRETTORE DI AVVENIRE, MARCO TARQUINIO:

Le riflessioni di un gran teologo come te, caro don Pino, anche su materie delle quali ti dichiari 'profano', sono sempre straordinariamente utili e profonde. Te ne sono grato. E le accompagno con tre considerazioni ulteriori, che danno per lette le molte altre sviluppate sulle nostre pagine in questo lungo anno di civile dibattito sul cosiddetto ddl Zan, purtroppo prevalentemente extraparlamentare e, su tanti altri media, piuttosto asfittico o pregiudizialmente condiscendente con i più allarmanti contenuti di quel testo.

La prima considerazione è che non sono mancati 'solo' laici credenti responsabili e maturi, ma statisti o almeno politici decentemente lungimiranti. Capaci, cioè, di capire quali meccanismi e percorsi stessero mettendo o mantenendo in moto e quali delicatissimi problemi riuscissero a creare con un testo che – lungi dall’essere al 100 per cento contro l’omotransfobia e pienamente rispettoso della sana (e altrettanto rispettosa) libertà di pensiero tutelata dalla Costituzione – si è trasformato in un carrozzone sul quale si è caricato di tutto, anche i reati contro le donne e le persone disabili, pur di introdurre nel nostro sistema normativo un concetto di 'identità di genere' vago e cangiante e diverso dalle nozioni di 'sesso' e di 'genere'.

La seconda considerazione è che in questi mesi, fuori dal Parlamento, si è creato non soltanto un fronte del sì a ogni costo anche in Senato al ddl Zan così com’era stato approvato dalla Camera, ma anche una... libera coalizione di idee tra giuristi, ecclesiastici, accademici, intellettuali, docenti, giornalisti, persone di ogni estrazione e occupazione, credenti e non credenti, cattolici e femministe, di diversa tradizione politica e culturale, ma ugualmente impegnati per fare in

modo che una legge che desse anche emblematicamente nome all’aggravante per i reati di omotransfobia ci fosse epperò non perseguisse altri obliqui e preoccupanti fini. Impegno pochissimo amato, ostentatamente ignorato e riconosciuto o contestato solo in chiavetta tattica da chi puntava, invece, alla radicalizzazione dello scontro.

Ora, a vedere il bicchiere mezzo pieno, s’è aperta una fase diversa. C’è un 'tavolo' in Senato, attorno al quale ci si è ripromessi di lavorare per rendere accettabile da tanti, e se possibile da tutti, una norma che dovrebbe essere motivo di unione contro reati odiosi e non di veemente contrapposizione e di rischiosi scivolamenti illiberali. Potrebbe aiutare a percorrere questa strada virtuosa proprio la notizia – trapelata ieri e non confermata ufficialmente dalla Santa Sede, ma di fatto dallo stesso premier Draghi (che oggi parlerà del tema in Parlamento) – della nota della Segreteria di Stato vaticana che segnala al Governo italiano le lesioni che alcune norme previste dal cosiddetto ddl Zan minacciano di portare alle libertà che l’Italia, con i patti conosciuti come Concordato, assicura anche alla Chiesa. La mia terza e ultima considerazione è questa. Le libertà tutelate dal Concordato Stato-Chiesa sono una preziosa e specifica applicazione di laiche libertà che sono fondamentali per tutti nell’espressione di legittime visioni e opinioni, nell’insegnamento, nell’organizzazione di reti associative e, nel caso di comunità religiose, di riti. Hai perciò perfettamente ragione, illustre e caro don Pino, non ci sono da indire 'guerre di religione' (anche se più di qualcuno si sta già dando da fare per riattizzarle), ma c’è una pace da consolidare. Ognuno faccia la sua parte con senso politico (e non solo partitico), onestà intellettuale e sana laicità.

www.avvenire.it

sabato 15 maggio 2021

L'AMBIGUA PEDAGOGIA DELLA LEGGE ZAN

 Un testo simbolico 

e pedagogico

- di Giuseppe Savagnone*

Il disegno di legge Zan è stato oggetto di innumerevoli commenti, favorevoli o negativi, concentrati, nella stragrande maggioranza, sugli effetti giuridici – opportunità dell’inasprimento delle pene nelle fattispecie indicate, rischio di censura delle opinioni divergenti – che esso avrà dopo la sua ormai probabile approvazione anche in Senato. E, su questo terreno, i difensori del provvedimento hanno abbondato nel fornire spiegazioni e garanzie a prima vista inoppugnabili.

Pochi, invece, per quanto ne so, hanno evidenziato il fatto che la vera posta in gioco, qui, non sono gli anni in più o in meno che un eventuale omofobo violento dovrebbe scontare, e neppure il diritto di chi non è d’accordo di dirlo apertamente, ma il carattere fortemente simbolico e pedagogico che la nuova legge avrà.

La legislazione di un Paese non mira solo a regolamentare singole situazioni, bensì a influenzare la mentalità e il costume, plasmando così il volto di una società e delle persone che vivono in essa. Le norme giuridiche, insomma, in quanto rendono lecito o illecito un certo comportamento, additandolo pubblicamente come espressione di un valore o di un di-valore, hanno anche una funzione educativa. Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).

I veri effetti del disegno di legge

Per questo, a quanti fanno notare che già nel nostro codice penale è ampiamente assicurata una tutela dei diritti delle persone – inclusi, ovviamente, gli omosessuali –, e che questa nuova normativa è dunque superflua, i sostenitori della legge Zan replicano che manca però una specifica menzione – con relativo aggravamento di pena – dei reati legati all’omofobia, che è presente nella legislazione di molti altri Paesi , e che è in gioco un problema di “civiltà”.

Non basta, insomma, che gli individui siano tutelati come persone: sono la loro «identità sessuale» e i loro «orientamenti sessuali» che devono esserlo, additandoli come valori riconosciuti dalla collettività e ormai indiscutibili.

Il problema della censura molto probabilmente non si porrà nemmeno. Che si levino ancora le voci scandalizzate dei reazionari e dei bigotti non potrà sminuire il salto di qualità che la figura di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali acquisterà, con una legge in cui se ne sancisce solennemente la perfetta “normalità” e la piena equiparazione dei loro comportamenti a quelli eterosessuali.

Con una immediata, evidente ricaduta sull’immagine condivisa della famiglia, prima ancora che sul suo regime giuridico, a cominciare dal diritto morale, proprio di ogni coppia, di avere dei figli. Con tutti i mezzi a disposizione, come si ritiene legittimo per gli sposi etero, e quindi, in linea di principio, anche ricorrendo a quello, già ampiamente usato in altri Paesi “civili”, dell’utero in affitto (nel nostro ancora escluso dalla legge).

Se si guarda alla legge Zan sotto questo profilo, cogliendone il significato “educativo”, si capisce che i suoi effetti non si manifesteranno nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa.

Nelle scuole (elementari incluse), a tappeto

Acquista allora il suo pieno significato l’art. 6, che istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia – che sarà celebrata il 17 maggio – in cui saranno sono organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».

Quale messaggio sarà proposto in questa occasione e in tutte le alte che indubbiamente, all’ombra di quella, si moltiplicheranno? È abbastanza ovvio. Che è una questione di “civiltà” riconoscere la perfetta equiparazione etica e giuridica tra omosessualità ed eterosessualità. E poiché espressamente si è voluto che questo messaggio giungesse non solo agli studenti della scuola secondaria, maggiormente in grado di valutarlo criticamente, ma a quelli di ogni orine e grado, fin dalle elementari, gli effetti, in termini di condizionamento, sono garantiti. Né sarà possibile sottrarre i propri figli più piccoli a questa campagna “civilizzatrice”, perché in Parlamento è stato espressamente respinto un emendamento che chiedeva fosse introdotta la condizione del consenso dei genitori.

Dal rispetto per le persone omosessuali alla cultura dell’indifferenza sessuale

Si può capire l’impegno dei sostenitori del disegno di legge. La nostra storia passata e presente è piena di «pregiudizi, discriminazioni, violenze» nei confronti di gay, lesbiche, transessuali. Le persone omosessuali sono state – e spesso sono ancora – derise, umiliate, emarginate, a volte anche perseguitate. Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privati del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente come gli etero, portatori come loro dell’immagine di Dio impressa nei loro volti.

Si capisce allora che alla base del disegno di legge ci sia non solo e non tanto la volontà di combattere, assumendoli come reati formali, comportamenti spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa, ma quella di rivendicare la dignità umana di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Su questo nessuno, tanto meno i credenti, potrebbe e dovrebbero avere nulla da obiettare.

Il guaio è che, nel difendere i diritti degli omosessuali, il disegno di legge – come abbiamo appena visto – pone le basi per una educazione capillare e totalitaria alla cultura dell’indifferenza sessuale. Che non è soltanto in contrasto con le tradizioni morali degli italiani, ma porta in sé delle intrinseche ombre su cui sarebbe meglio riflettere.

L’«identità di genere» in discussione

Lo hanno denunziato ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica, inaspettatamente contrarie all’approvazione della legge, che hanno sottolineato i pericoli insiti in un concetto cardine del testo (ma anche, in realtà, di tutta la teoria del gender), che è quello di «identità di genere».

«Per “identità di genere”», spiega il disegno di legge ««si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso». Ma, sganciando l’identità di genere da quella, biologica del sesso – dice un documento di queste associazioni – «si vuole che la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta sparire. È la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del genere a cui si intende appartenere», rendendo insignificante il ruolo dei sesso biologico ed esponendosi ad ogni sorta di confusione.

«In California» – si legge nella stessa nota delle associazioni femministe – «261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili. Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene quindi il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».

Il racconto dei corpi

È in realtà un problema che i critici delle concezioni centrate unilateralmente sul “genere” hanno da sempre sollevato e che risorge ogni volta che, dal rispetto per le presone omosessuali, si passa alla teorizzazione dell’omosessualità come equivalente alla eterosessualità. I corpi, con la loro struttura biologica morfologica, hanno un loro racconto che deve essere ascoltato e non può essere messo tra parentesi, affidandosi solo a una esperienza soggettiva come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».

Forse su questo potrebbero trovare un punto d’incontro le associazioni femministe e la Conferenza Episcopale Italiana, se provassero a dialogare invece di ignorarsi (o peggio) a vicenda. Entrambi pensano che i corpi – quello delle donne come quello degli uomini – non possono essere liquidati come puri meccanismi biologici. Essi meritano di essere rispettati e valorizzati, nella consapevolezza che l’identità sessuale completa di una persona non dipende solo dalla sua struttura corporea, ma anche nella certezza che non può prescindere da essa.

È forse troppo tardi per fermare la campagna a favore dell’approvazione della legge Zan. Ora che Fedez si è pronunciato… Ma non lo è per riprendere, in un dialogo costruttivo – anche se affrontato con la chiara coscienza dei differenti punti vista – il punto centrale evidenziato nel documento delle associazioni femministe. Sarebbe un modo per i cattolici di uscire da un isolamento culturale che le apocalittiche denunzie, da parte di alcuni di loro, non fanno che evidenziare, e per chi ha a cuore l’identità della donna di confrontarsi con una tradizione di pensiero che forse, se si è capaci di superare radicati pregiudizi, ha qualcosa da dire anche a loro.

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

mercoledì 21 aprile 2021

IDENTITA' DI GENERE, OLTRE L'IDEOLOGIA


 Il ddl Zan sappia tener conto della complessità. 

NON SI PUÒ SCHERZARE CON L’«IDENTITÀ DI GENERE»

 

 -di LUCIANO MOIA

 Ci sono circa 7mila persone in Italia per cui la legge Zan potrebbe diventare un involucro rassicurante con un contenuto amaro. L’involucro è rappresentato dalla vulgata ideologica che accompagna la legge e dal lessico scelto per le definizioni di genere, orientamento sessuale e identità di genere: se quello sarà davvero il riferimento culturale, i rischi di fraintendimento e di letture banalizzanti sono dietro l’angolo. Il contenuto è invece rappresentato dai frutti che deriveranno da tale impostazione. Stiamo stretti, qui, su questo punto. Siamo certi che quelle 7mila persone che soffrono di disforia di genere – che affigge chi deve confrontarsi con un’identità di genere irrisolta – trarranno benefici autentici dall’ondata di strumentalizzazioni e di superficialità che si sta alzando per via mediatica e potenzialmente ope legis?

La questione è stata lasciata un po’ sottotraccia dalla battaglia politico-mediatica e da un confronto comprensibilmente concentrato su pur serissime questioni giuridiche, eppure è il caso di parlarne. L’articolo 1, comma d, della legge licenziata dalla Camera recita: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione ». È uno dei passaggi più discussi di un testo che, al Senato, si dovrà 'unificare' con altre quattro proposte di legge. C’è l’occasione per riconsiderare in modo meno affrettato, tra gli altri punti contestati, anche le definizioni che fanno riferimento all’ambito antropologico. Soprattutto quella di identità di genere.

Sarebbe tutto più agevole se il testo che si propone di introdurre misure di prevenzione e contrasto contro omofobia,

misoginia e abilismo, parlasse in modo più esplicito di transessualità? Forse, ma anche qui occorre distinguere, con serenità e spirito propositivo, allontanando qualsiasi retropensiero ideologico. È indubbio che dietro il concetto di identità di genere si intrecciano diverse sfumature... Se il riferimento va a certa antropologia culturale che si richiama al sex gender system – la cosiddetta 'teoria del gender' – la contraddizione è dietro l’angolo. Ma esistono ancora lobby gender che puntano a sgominare il paradigma eterosessuale normativo e a favorire la dissoluzione della famiglia? Oggi anche la sociologa americana Judith Butler, considerata a lungo la 'profetessa del gender', è andata oltre questi schemi – forse perché ne ha intuito la fragilità – e si dedica a studiare temi come inclusione e violenza. Certo, introdurre come fa il comma d dell’articolo 1 la specificazione «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione» complica ancor di più le cose. Al di là delle pretese gridate da alcune frange dei gruppi Lbgtq, il fatto di aver avviato un 'percorso di transizione', non basta affatto a definirsi uomo o donna. Né per la legge, nonostante alcune sentenze contraddittorie, né per l’equilibrio e il benessere delle stesse persone coinvolte. Forse basterebbe ricordare che nel nostro Paese la «rettificazione anagrafica del sesso» è ancora regolata dalla legge 164 del 1982, tra le più rigorose, giustamente, nell’indicare tempi e modalità di un percorso che non è mai senza inciampi e senza sofferenze. Qui entriamo nell’ambito della sessuologia clinica dove l’«identità di genere» ha, invece, un significato ben preciso. Si mettono da parte finalmente le ambiguità dei riferimenti 'gender' – o dell’archeologia ideologica residua – per approdare, con tanta fatica e tanta sofferenza, all’evidenza scientifica. Per la sessuologia l’«identità di genere», quando non s’identifica né con il sesso biologico né con l’orientamento sessuale, finisce per richiamare condizioni che, appunto, hanno un nome preciso: disforia di genere. Essa, detto in modo semplice, riguarda persone, che si sentono ingabbiate in un’identità diversa rispetto al proprio sesso biologico. Parliamo di circa 7mila casi perché le poche statistiche a disposizione stimano un caso su novemila persone. Un dato patologico costante, anche se in quest’ultimo decennio, caduto lo stigma sociale legato all’incertezza dell’identità sessuale, le richieste di 'transizione' si sono moltiplicate. Negare che esista, in questo chiaro senso, il problema dell’«identità di genere » vuol dire negare le sofferenze di persone che, quando il problema è reale e non ammantato di suggestioni ideologiche, finiscono per sperimentare un baratro di sofferenze, attese, delusioni, incertezze. Almeno la metà dei percorsi di transizione si interrompe quando le persone con disforia, o i loro genitori, si accorgono che non è quella la strada per la felicità. Non è mai facile, né banale, né privo di rischi il sogno di colmare la frattura tra il proprio sesso biologico e la percezione dell’identità personale.

Per questo, quando gli estensori della legge giustificano il richiamo all’«identità di genere» con precedenti riferimenti giuridici o alla Convenzione di Istanbul che ne fa cenno, dovrebbero rendersi conto che, né l’una né gli altri, offrono chiavi di lettura adeguate perché, in tutti questi casi, si liquida in poche righe una complessità profonda che implica tante domande, anche contraddittorie e disturbanti, a cui né la scienza né la morale offrono risposte davvero soddisfacenti. Ecco perché deve essere valutata con favore l’occasione di rivedere, approfondire, ricercare senza stancarsi soluzioni più condivise del cosiddetto ddl Zan.

Nel concetto di «identità di genere», fuori e lontano da strumentalizzazioni e semplificazioni improprie, e in un modo che il legislatore non sta cogliendo né rendendo chiaro, c’è un dolore che segna la carne viva delle persone.

 

 www.avvenire.it