«Il problema dei social è la caduta dei valori che noi adulti
trasmettiamo ai giovani»
«Non possiamo pensare a un’educazione basata soltanto sulla
spontaneità e sul piacere», dice il vescovo Erio Castellucci
La solitudine di un cellulare, un sito, una sfida estrema
dettata da un social: così è andata incontro alla morte una ragazzina di dieci
anni trovata senza vita nel bagno di casa. Davanti a questi fatti occorre
innanzitutto fare una riflessione che ha profonde implicazioni economiche, visti
i numeri e il giro d’affari sempre più consistente che ruota intorno ai social
network. Inoltre come afferma Elisabetta Aldrovandi, presidente
dell’Osservatorio nazionale sostegno vittime e Garante per la tutela delle
vittime di reato «come mai una bambina di dieci anni ha un profilo o accesso ad
un social che, in base alle sue regole, consente l’iscrizione a partire dai 13
anni? ». Le regole non sono soggette a controlli particolari, e così basta
“mentire” sull’età e ci si iscrive. I social non sono giocattoli per
bambini, ma mondi virtuali in cui, spesso, senza i dovuti controlli, vengono
caricati video e immagini assolutamente non idonei a menti acerbe che non
possono capire né i contenuti né le conseguenze cui vanno incontro partecipando
a certe assurde sfide. L’Agesc, da sempre attenta ai problemi dei più indifesi
si è interrogata a lungo su questo fatto drammatico.
Parlando con monsignor Erio Castellucci presidente della
Commissione episcopale per la dottrina della fede. «Credo che il problema sia legato
agli adulti – dice il vescovo – però ho l’impressione che ci sia un retroterra
di “caduta di valori” che trasmettiamo noi adulti ai ragazzi. In questi giorni,
anche a seguito di questo fatto che non è isolato purtroppo, si moltiplicano
gli appelli alle famiglie, agli educatori (insegnanti, catechisti…) perché
vigilino sull’uso dei social. La vigilanza e la repressione sono
importanti perché non possiamo pensare ad un’educazione basata solo sulla
spontaneità: l’autoeducazione. Se vogliamo andare alle cause queste si trovano
nel mondo degli adulti che vuole rendere tutto lecito. Oramai è molto difficile
discutere di ciò che è buono e semplice e di ciò che è cattivo e malvagio.
Ciascuno vorrebbe che i propri atteggiamenti e le proprie
decisioni fossero messe sempre nel campo del “legittimo” (mi piace, lo
voglio, l’ho deciso), credo che questo sia un modello che mostra parecchie
crepe. Risponde ad una precisa linea pedagogica che era già suggerita nel
’700 da Rousseau: l’essere umano è buono e va lasciato esprimere. Poi sappiamo
che alcune scuole di pensiero si sono sviluppate su questo arrivando al
“vietato vietare” caro al sessantotto. Dobbiamo ripensare non a dei modelli
autoritari, bensì a modelli autorevoli. Noi pensiamo che abbiamo inventato
recentemente la “categoria dei giovani” perché ne abbiamo fatto l’oggetto di
studio degli ultimi decenni e ci chiediamo anche il perché. Semplicemente
perché l’abbiamo mitizzata ed aggredita noi adulti che facciamo di tutto per
sembrare e rimanere giovani mentre i giovani, che avevano gli adulti come
punto di riferimento, sapevano che dovevano diventare grandi, prendersi delle
responsabilità, e persino invecchiare, oggi non hanno più una zona dove poter
crescere (esagerando i toni). A me sembra che il fenomeno vada cercato in
questa direzione, non basta “stracciarci le vesti” condividendo questi fatti,
ma dobbiamo pensare alle cause facendo anche un “mea culpa” per non essere
farisaici».
Intanto, mercoledì si è “celebrata” la giornata della
memoria. L’anno scorso l’Agesc era presente assieme a scolaresche, a visitare
in Polonia i luoghi dell’orrore. Non dobbiamo trattare la pandemia come se
fosse l’unico problema, perché quest’ultima svela e non solo causa dei mali
presenti. Uno di questi mali - come afferma Castellucci - «è proprio
l’odio fratricida presente già ai tempi di Caino. La Shoah è considerata la
tragedia più grande della storia non solo per il numero dei morti (oltre sei
milioni) ma proprio per l’odio e la violenza la barbarie che si sono
convogliate in quegli anni. Noi siamo in una crisi sanitaria, ma dobbiamo
ricordare che ci sono state crisi anche più tragiche e presenti in un certo
senso anche già nel terzo millennio. 2001: scoppio del terrorismo, 2008: crisi
economica, 2011: primavere arabe che hanno determinato il quintuplicarsi dei
profughi e dei rifugiati, 2015: presa di conoscenza del problema ecologico,
2020: la pandemia. Dobbiamo imparare “ad abitare le crisi” non assuefarci
perché sono tutte connesse».
www.avvenire.it
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