Lia Tagliacozzo: «L’Italia faccia i conti con il suo passato».
Camillo Brezzi: «Più attenzione ai documenti».
Saul Meghnagi: «Un metodo per l’educazione civica»
Non è di questa opinione Camillo Brezzi, che in L’ultimo
viaggio (il Mulino, pagine 176, euro 15,00), ricostruisce le fasi
iniziali della deportazione, servendosi delle testimonianze di figure
significative come Liliana Segre, Sami Modiano, lo stesso Primo Levi e altri
ancora. «Affermare che la memoria non è di per sé la storia – dice lo studioso–
non significa negare che la memoria sia utile, e spesso addirittura
indispensabile, alla storia». Sono prospettive diverse, quelle indicate dai
libri che abbiamo appena elencato, ma niente affatto in contraddizione tra
loro. «L’elemento irrinunciabile – sottolinea Lia Tagliacozzo – è
rappresentato dal valore del Giorno della Memoria, che permette di parlare
pubblicamente della Shoah. In precedenza non era così, anche all’interno di
famiglie che, come la mia, avevano vissuto il dramma della persecuzione. Nei
sopravvissuti prevaleva il desiderio di andare oltre, senza voltarsi a guardare
indietro. Era un atteggiamento a suo modo generoso nei confronti delle nuove
generazioni, ma nel quale giocava un ruolo non irrilevante anche il timore di
non essere creduti o ascoltati. Ma la difficoltà degli scampati non può in
alcun modo essere trasformata in alibi per quanti, invece, preferirebbero
trincerarsi in un silenzio colpevole. La mia convinzione è che in Italia non si
sia ancora sviluppata una coscienza storica e civile di quello che il fascismo
ha rappresentato. So bene che è un discorso complesso, che coinvolge la
cosiddetta “zona grigia” della quale ho cercato di dare conto anche nel mio
libro. Ma questa mancata consapevolezza resta un fatto pericoloso, che ha molto
in comune con le esplosioni di intolleranza che negli ultimi tempi si sono
fatte solamente più rumorose rispetto a qualche tempo fa. Non ci si può
illudere che l’antisemitismo sia un problema di oggi. Anche in Italia è sempre
esistito, ora però ha conseguito una sorta di legittimità, che troppo spesso
viene confusa con la libertà di espressione».
«Purtroppo – conferma Camillo Brezzi, storico di
professione con una solida esperienza di assessore alla Cultura per la
Provincia e il Comune di Arezzo – fin dal principio le celebrazioni del Giorno
della Memoria sono state funestate da atti di vandalismo, intimidazioni,
oltraggi. Qualcuno ha addirittura preteso che esi- stesse un rapporto di
causa-effetto, come se l’intolleranza fosse l’esito di un eccesso di memoria.
Non è affatto così e non solo perché l’antisemitismo è sempre esistito,
appunto, ma anche perché è mutato e continua a mutare nel tempo, sollecitato da
fattori diversi, di natura politica e sociale. Proprio per questo occorre
soffermarsi ancora ad ascoltare la voce dei testimoni, i cui racconti
costituiscono una risorsa irrinunciabile per la ricerca storiografica. Penso al
patrimonio della Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo
Stefano, nel quale sono conservati più di novemila tra diari, memoriali, autobiografie,
epistolari. Nessuno di questi documenti, preso isolatamente, permette di
ricostruire il periodo al quale fa riferimento, ma in ciascuno di essi sono
presenti informazioni preziose, che rivelano episodi sconosciuti,
contestualizzano dettagli, forniscono un punto di vista personale su vicende
che altrimenti rischieremmo di valutare solo dall’esterno. La persecuzioni
degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale è molto studiata, è vero, ma a
un certo punto mi sono resto conto che i momenti cruciali dell’arresto, del
viaggio nei treni blindati e dell’arrivo nei lager non erano ancora stati
approfonditi. E per capire che cosa accadesse in quelle giornate terribili non
si può fare altro che affidarsi alle testimonianze dei sopravvissuti».
«Il ricorso alla memoria corrisponde alla stessa esigenza di
concretezza dalla quale ci siamo fatti guidare per L’ebreo inventato –
spiega Saul Meghnagi –. Anziché partire da affermazioni astratte,
abbiamo isolato una serie di casi esemplari, li abbiamo analizzati in modo
sistematico e da lì siamo risaliti ai princìpi generali sanciti dalla
Costituzione. Si tratta di un percorso molto articolato, che passa per snodi
spesso delicati e che richiede un concorso di competenze diverse, di tipo sia
storiografico sia sociologico. Sono convinto che sia un modello di educazione
civica che può essere applicato con efficacia anche ad altre forme di
discriminazione e pregiudizio, come quelle derivanti dai cambiamenti
demografici in atto nel nostro Paese. Oggi l’intolleranza rischia di essere più
accettata rispetto al passato, lo sappiamo, e l’affiorare di nuove forme di
rivendicazione identitaria va di pari passo con il permanere, nella memoria
collettiva, di zone d’ombra che pochi sembrano disposti a esplorare. Prendere
in esame un caso per volta, così come prestare ascolto a una singola
testimonianza, aiuta a uscire dalla vaghezza di una versione troppo
semplificata della storia. Senza trascurare il fatto che, per fortuna, dal
passato si può anche imparare qualcosa di buono. Pregiudizi che un tempo
sembravano insuperabili, come l’accusa di deicidio che attribuiva all’intero
popolo ebraico la colpa dell’uccisione di Gesù, è venuta a cadere grazie al
cammino compiuto dalle Chiese dopo la Shoah, anche attraverso la riflessione
del Concilio Vaticano II. Anche a questo serve l’alleanza tra storia e
memoria».
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