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mercoledì 3 aprile 2024

CRISI DEL CRISTIANESIMO ???


Un'occasione da non sprecare»

L'intervista al saggista e teologo Brunetto Salvarani di Cristina Uguccioni

 La crisi del cristianesimo occidentale e le questioni che, al riguardo, è prioritario affrontare: sono questi i temi della riflessione proposta in questo dialogo con catt.ch e Catholica dal professor Brunetto Salvarani, teologo, scrittore, docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e gli Istituti di scienze religiose di Modena, Bologna e Rimini. La sua ultima pubblicazione si intitola «Senza Chiesa e senza Dio» (Laterza).

 Come descriverebbe la stagione che sta attualmente vivendo il cristianesimo?

 «Come ripete papa Francesco, non stiamo vivendo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca. E ciò coinvolge anche il cristianesimo che, in Europa e più in generale in Occidente, sta attraversando una stagione di crisi; lo documentano alcuni indicatori: il calo del numero di fedeli e delle vocazioni religiose, il crescente disinteresse verso liturgia e sacramenti, la crisi dell’editoria cattolica, gli scandali finanziari e sessuali. Ma la questione che rende il quadro davvero problematico è la fatica della trasmissione della fede da una generazione all’altra. Certo, la fede resta un dono, ma oggi sembra diventato molto arduo accendere interesse verso le cose di Dio e disporre i cuori all’accoglienza di questo dono. Si badi: la crisi non è una questione di numeri. Tanti giovani sono diventati indifferenti a Dio e pensano che la Chiesa non abbia niente di interessante da comunicare. Indubbiamente esiste anche un problema di linguaggio: quello della Chiesa viene giudicato poco comprensibile. Ma il problema reale è un altro: i giovani hanno bisogno di testimonianze autentiche, di adulti che si sforzino di essere coerenti con quanto professano, di esperienze appassionanti che facciano cogliere la bellezza profonda dell’appartenenza a Cristo. Invece purtroppo i giovani spesso non incontrano testimonianze persuasive. Ciò che conta è l’autenticità dell’esperienza cristiana vissuta dai fedeli, non il loro numero».

 Nella nostra epoca, in Europa, il Signore ha assegnato al popolo di Dio un compito che non è mai stato assegnato prima nella storia: l’annuncio del Suo Regno a società istituzionalmente non religiose. A suo giudizio, fra i cristiani questo compito sta suscitando prevalentemente lamenti o entusiasmo?

 «Il teologo Christoph Theobald afferma che in quest’epoca stiamo assistendo alla esculturazione del cristianesimo dal paesaggio sociale e culturale europeo. È un’immagine veritiera. Purtroppo il compito affidatoci dal Signore mi pare non susciti né particolari lamenti né significativi entusiasmi. A prevalere, direi, è una sorta di tiepidezza, che non genera intraprendenza ma lascia la situazione così com’è: stagnante. Molti si limitano a lamentarsi della crisi in atto e coltivano una visione catastrofista circa il futuro del cristianesimo. Ma la fiamma del cristianesimo continua ad ardere nel mondo! Io conservo ottimismo, non però un ottimismo giulivo; ci sono decisioni da prendere e bisogna agire con intelligenza e passione: questa crisi è un’occasione, non va sprecata».

 Nel suo ultimo libro lei individua alcuni temi che è prioritario affrontare in ordine a questa crisi. Vuole illustrarli?

 «1) Abbiamo un tesoro prezioso: la Bibbia, che il Concilio Vaticano II ha esortato a conoscere, studiare, pregare. Dopo una stagione appassionante, oggi si notano stanchezza e disaffezione verso una frequentazione assidua e non occasionale della Parola di Dio, anche se esistono alcune benedette eccezioni. Diciamo però che queste eccezioni non riescono a fare massa critica. È necessario che la Chiesa torni a stare sulla Parola di Dio, che costituisce il timone che guida il nostro navigare nel mondo.

 2) La Parola di Dio ci consegna un Gesù, del quale, a mio avviso, in questa nostra epoca sarebbe indispensabile evidenziare, in particolare, due aspetti storicamente sottovalutati: la sua dimensione ebraica e la sua dimensione umana.

 3) Ritengo inoltre necessario da parte della Chiesa ripensare le virtù teologali alla luce del passaggio storico che stiamo vivendo, riflettere su come tradurre oggi, nella quotidianità, fede, speranza e carità».

 E poi c’è il tema dell’escatologia.

 «Sì: esso suscita profondo interesse anche in quanti non credono. Purtroppo mi pare che la Chiesa non lo proponga con la convinzione e la passione che sarebbero necessarie. Il cristianesimo ha una parola decisiva sulla vita dopo la morte: bisogna ricominciare a pronunciarla. Infine, bisogna ricominciare a pensare, a produrre pensiero alto, capace di incidere sulla cultura contemporanea rispondendo alle sfide della nostra epoca. In ogni fase della sua storia il cristianesimo si è sempre misurato con la cultura del tempo ed è sempre stato all’altezza di questo dialogo, di questo confronto. È necessario tornare a esserlo».

 Che cosa vorrebbe dire al singolo fedele che, preso dalle molte incombenze della vita (lavoro, figli da crescere, genitori da accudire, problemi quotidiani da risolvere, amicizie da curare), pensando alla crisi del cristianesimo poc’anzi descritta, si domanda cosa fare?

 «A costui direi ciò che dico anzitutto a me stesso: cerca di stare aggrappato a Gesù e sforzati di essere coerente con quanto professi, cerca di offrire una testimonianza il più possibile limpida. E cerca di farlo insieme agli altri, riscoprendo la fraternità e l’appartenenza alla Chiesa. In un’epoca di forte individualismo, nella quale tutti sembrano voler giocare la partita della vita da soli, bisogna riscoprire questa appartenenza, il noi ecclesiale, evitando partigianerie e faziosità, divisioni, mormorazioni e maldicenze».

 

alzogliocchiversoilcielo



lunedì 4 dicembre 2023

L'IMPREVISTO DI PERIFERIA


L'ITALIA, 

LE PAURE, 

IL 2050

-         di Marina Corradi

 

Si direbbe che abbiamo paura. La parola torna insistentemente nel rapporto Censis sull’Italia del 2023. Abbiamo paura di un sacco di cose: dei cambiamenti climatici, di una guerra, dei flussi migratori, di un default dello Stato. Sembriamo una famiglia invecchiata che rimpiange una stabilità e un benessere perduti. La sola paura non apertamente espressa dagli intervistati è quella del declino demografico, di tutte, però, la più oggettiva. Anno 2050, saremo in 4,5 milioni di meno. Già oggi i 18-34enni, quelli che entrano nel lavoro e hanno figli, sono poco più di 10 milioni, mentre nel 2003 superavano i 13 milioni. In vent’anni abbiamo perso tre milioni di giovani.

 Tre milioni di figli non pensati e attesi, o cancellati, perché si temeva di non poterli mantenere. Perché non c’erano più i nonni vicino a casa, ma nemmeno ancora i nidi. Figli che non sono nati nel mito di una autorealizzazione individualistica, nel fallimento dei matrimoni, figli che spaventavano giovani coppie dal lavoro precario. Tre milioni di meno. Dunque, una riduzione netta della popolazione attiva, e l’aumento verticale, in parallelo, degli ultrasessantacinquenni. Il declino segnalato dai cattolici per primi, trent’anni fa, va concretizzandosi.

 «Ciechi davanti ai presagi, passivi come sonnambuli», ci descrive il Censis. C’è del vero: a livello popolare la coscienza delle crisi c’è, ma come accompagnata da un senso di impotenza, soprattutto nei giovani; di rassegnazione, nei più anziani. Non appena sui media si allontanano le vertigini del Covid, della guerra in Ucraina e ora in Israele e a Gaza, sui tg un’onda di cronaca nera. Per non pensare? Poi come sempre conti pubblici al limite, multe dalla Ue, scontri, liti, e fra poco Sanremo, di nuovo. Mai uno sguardo a lunga distanza, uno sguardo più in là. Sarà perché di certe previsioni cupe non giova dire, nei programmi elettorali. Difficilmente una prospettiva più ampia su ciò che attende il Paese porterebbe dei consensi, e siamo nella politica dei “mi piace” sui social, dell’incasso immediato. Che faranno dunque gli italiani del 2050? Chi lo sa, mancano 26 anni, nel frattempo noi speriamo che ce la caviamo. Ma quegli italiani sono i nostri figli, e saremo noi, magari ottuagenari. Bisognosi di cure, e a volte con nessuno accanto. Di tutte le paure degli italiani, quel 70 per cento che teme per Sanità e assistenza ne ha buone ragioni. E si comprende anche il gran favore per l’eutanasia, che altro non è che tangibile paura. Triste destino per i baby boomers, gli italiani più vaccinati, nutriti e istruiti di sempre. Il posto super garantito, la pensione a sessant’anni. Una generazione che non ha visto la guerra e ha perso la spinta dei suoi vecchi, che ricostruirono il Paese.

 Inevitabile declino dunque? Le scienze statistiche si basano quanto è accaduto, e quindi sul ragionevole andamento di ciò che è prossimo. Tuttavia, mancano di una categoria fondamentale: non contemplano l’imprevisto. Il Covid, cinque anni fa, sarebbe sembrato fantascienza. I tank russi in Europa anche.

 Non necessariamente nella storia l’imprevisto è un disastro. Imprevisto era anche che un polacco sul soglio di Pietro scuotesse il Muro di Berlino. Sono gli uomini che fanno la storia, ma bisogna farli nascere e educarli. Un orto oscuro e paziente, nessun risultato per trent’anni. Poi, magari, nascono figli nuovi.

 Ci occorrono dei padri e delle madri, dei maestri e dei professori. Non solo “bravi” ma buoni, capaci di dare loro le ragioni del vivere. Maestre come quelle di una volta ci servono, che alle famiglie povere dicevano: questo, fatelo studiare.

 Ora, tutto ciò richiederebbe una tensione al bene comune. L’abbiamo ancora? Gli immigrati detti “invasori” vengono da guerra o miseria, e portano con sé, almeno in molti, la gran voglia di vivere di chi ha visto la morte. Chissà chi c’è, nella moltitudine di ragazzini che imparano ora l’italiano. Quanta voglia di ricostruzione e di pace potrebbero insegnare a noi, se noi da cristiani sapessimo dimostrare loro che la vita è buona, e ha un senso.

 «Un imprevisto è la sola speranza», scriveva Eugenio Montale, all’ultimo verso di una poesia su un viaggio totalmente programmato e scontato. L’imprevisto abita forse in aule di periferia, fra i ragazzi dei nostri oratori, nelle Maternità italiane piene di neonati cinesi o africani. Il 2050 sta già cominciando. Accogliere, volere bene, insegnare l’italiano, fare studiare i migliori. Un popolo si fabbrica così, è accaduto sempre: in quell’imprevisto tenace che è la vita, troppo grande per le statistiche.

 www.avvenire.it

 

lunedì 1 agosto 2022

RITROVARE CIO' CHE UNISCE


CEI. DICHIARAZIONE 

DEL PRESIDENTE 

Mi sembra doveroso esprimere un sentito ringraziamento al Presidente Draghi e a tutto il governo da lui presieduto per lo sforzo di questi mesi così difficili e per il metodo di lavoro che lo ha distinto. Comporre visioni discordanti in un unico interesse unitario credo resti metodo indispensabile anche per il futuro. In questo momento così decisivo e pieno di rischi per l’Italia e l’Europa, desidero rinnovare il forte appello alla responsabilità individuale e collettiva per affrontare la prossima scadenza elettorale. L’indispensabile interesse superiore impone di mettere da parte quelli personali o individuali, per affrancare la politica da tatticismi ormai, peraltro, incomprensibili e rischiosi per tutti. Dobbiamo pensare alla sofferenza delle persone e garantire risposte serie, non ideologiche o ingannevoli, che indichino anche, se necessario, sacrifici, ma diano sicurezza e motivi di speranza. Il fondamentale confronto politico non deve mancare di rispetto e deve essere improntato alla conoscenza dei problemi, a visioni comuni senza furbizie, con passione per la cosa pubblica e senza agonismi approssimativi che tendono solo a piccoli posizionamenti personalistici e non a risolvere le questioni.

La crisi, insomma, può, anzi, deve essere una grande opportunità per ritrovare quello che unisce, per rafforzare il senso di una comunità di destino e la passione per rendere il nostro Paese e il mondo migliori. Le pandemie ci hanno reso tutti consapevoli della vulnerabilità, di come può essere messo in discussione quello che appariva sicuro, come tragicamente vediamo con la guerra e le sue pericolose conseguenze internazionali. Dal dopoguerra non abbiamo mai vissuto una congiuntura così complessa, a causa dell’inflazione e delle diseguaglianze in aumento, del debito pubblico che ha raggiunto una dimensione enorme, del ritorno a un confronto tra blocchi che assorbe enormi energie e impedisce lo sviluppo, dell’emergenza climatica e ambientale, della difficoltà del mondo del lavoro con la condanna al precariato con il suo carico di fluidità.

Le fragilità emerse con la pandemia del COVID, ad iniziare dagli anziani non autosufficienti, i disabili, i tanti malati psichici, la tanta e atroce solitudine, richiedono una protezione della persona efficace che solo uno straordinario impegno può permettere. È quello che Papa Francesco chiama amore politico. Non possiamo costruire il futuro delle prossime generazioni avendo come unico orizzonte il presente, perché gli interessi di corto respiro diventano inevitabilmente interessi di parte, individuali. Si presenta, inevitabile, l’ora dei doveri e delle responsabilità per cui la politica dovrà trovare il più virtuoso punto d’incontro tra ciò che è buono e ciò che è realmente possibile perché le risorse esistenti non vadano sprecate ma collocate al servizio del bene comune e dell’intera popolazione. È un tempo nel quale dobbiamo ricostruire il senso di comunità, in cui, come ha ricordato il presidente Mattarella, occorre un “contributo costruttivo” da parte di tutti, specialmente di chi sceglie di impegnarsi nella vita politica. E ci auguriamo siano tanti e con tanta e profonda motivazione per il bene comune.

Il prossimo 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, la Conferenza Episcopale Italiana è stata invitata a compiere il gesto dell’offerta dell’olio per la lampada votiva sulla tomba del Santo. Sarà un momento di gratitudine per quanti stanno aiutando il popolo italiano a far fronte agli effetti della pandemia. Sarà anche occasione per una preghiera speciale per l’Italia e per la pace.

 CEI

 

sabato 30 gennaio 2021

SOCIAL E CADUTA DEI VALORI


 «Il problema dei social è la caduta dei valori che noi adulti trasmettiamo ai giovani»

 «Non possiamo pensare a un’educazione basata soltanto sulla spontaneità e sul piacere», dice il vescovo Erio Castellucci

      La solitudine di un cellulare, un sito, una sfida estrema dettata da un social: così è andata incontro alla morte una ragazzina di dieci anni trovata senza vita nel bagno di casa. Davanti a questi fatti occorre innanzitutto fare una riflessione che ha profonde implicazioni economiche, visti i numeri e il giro d’affari sempre più consistente che ruota intorno ai social network. Inoltre come afferma Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio nazionale sostegno vittime e Garante per la tutela delle vittime di reato «come mai una bambina di dieci anni ha un profilo o accesso ad un social che, in base alle sue regole, consente l’iscrizione a partire dai 13 anni? ». Le regole non sono soggette a controlli particolari, e così basta “mentire” sull’età e ci si iscrive. I social non sono giocattoli per bambini, ma mondi virtuali in cui, spesso, senza i dovuti controlli, vengono caricati video e immagini assolutamente non idonei a menti acerbe che non possono capire né i contenuti né le conseguenze cui vanno incontro partecipando a certe assurde sfide. L’Agesc, da sempre attenta ai problemi dei più indifesi si è interrogata a lungo su questo fatto drammatico.

Parlando con monsignor Erio Castellucci presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede. «Credo che il problema sia legato agli adulti – dice il vescovo – però ho l’impressione che ci sia un retroterra di “caduta di valori” che trasmettiamo noi adulti ai ragazzi. In questi giorni, anche a seguito di questo fatto che non è isolato purtroppo, si moltiplicano gli appelli alle famiglie, agli educatori (insegnanti, catechisti…) perché vigilino sull’uso dei social. La vigilanza e la repressione sono importanti perché non possiamo pensare ad un’educazione basata solo sulla spontaneità: l’autoeducazione. Se vogliamo andare alle cause queste si trovano nel mondo degli adulti che vuole rendere tutto lecito. Oramai è molto difficile discutere di ciò che è buono e semplice e di ciò che è cattivo e malvagio.

Ciascuno vorrebbe che i propri atteggiamenti e le proprie decisioni fossero messe sempre nel campo del “legittimo” (mi piace, lo voglio, l’ho deciso), credo che questo sia un modello che mostra parecchie crepe. Risponde ad una precisa linea pedagogica che era già suggerita nel ’700 da Rousseau: l’essere umano è buono e va lasciato esprimere. Poi sappiamo che alcune scuole di pensiero si sono sviluppate su questo arrivando al “vietato vietare” caro al sessantotto. Dobbiamo ripensare non a dei modelli autoritari, bensì a modelli autorevoli. Noi pensiamo che abbiamo inventato recentemente la “categoria dei giovani” perché ne abbiamo fatto l’oggetto di studio degli ultimi decenni e ci chiediamo anche il perché. Semplicemente perché l’abbiamo mitizzata ed aggredita noi adulti che facciamo di tutto per sembrare e rimanere giovani mentre i giovani, che avevano gli adulti come punto di riferimento, sapevano che dovevano diventare grandi, prendersi delle responsabilità, e persino invecchiare, oggi non hanno più una zona dove poter crescere (esagerando i toni). A me sembra che il fenomeno vada cercato in questa direzione, non basta “stracciarci le vesti” condividendo questi fatti, ma dobbiamo pensare alle cause facendo anche un “mea culpa” per non essere farisaici».

 Intanto, mercoledì si è “celebrata” la giornata della memoria. L’anno scorso l’Agesc era presente assieme a scolaresche, a visitare in Polonia i luoghi dell’orrore. Non dobbiamo trattare la pandemia come se fosse l’unico problema, perché quest’ultima svela e non solo causa dei mali presenti. Uno di questi mali - come afferma Castellucci - «è proprio l’odio fratricida presente già ai tempi di Caino. La Shoah è considerata la tragedia più grande della storia non solo per il numero dei morti (oltre sei milioni) ma proprio per l’odio e la violenza la barbarie che si sono convogliate in quegli anni. Noi siamo in una crisi sanitaria, ma dobbiamo ricordare che ci sono state crisi anche più tragiche e presenti in un certo senso anche già nel terzo millennio. 2001: scoppio del terrorismo, 2008: crisi economica, 2011: primavere arabe che hanno determinato il quintuplicarsi dei profughi e dei rifugiati, 2015: presa di conoscenza del problema ecologico, 2020: la pandemia. Dobbiamo imparare “ad abitare le crisi” non assuefarci perché sono tutte connesse».

 www.avvenire.it



 

 



 

sabato 1 agosto 2020

LA CHIESA DOPO IL CORONAVIRUS



Un invito che nasce da una comprensibile inquietudine

-         Giuseppe Savagnone
-          
La lettera nella quale, in questi giorni, la Presidenza della CEI ha invitato i vescovi italiani a «porre le condizioni con cui aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale», in vista della ripartenza autunnale, non è casuale. Essa nasce da una preoccupazione, neppure troppo velata, di fronte alla constatazione che, dopo il lockdown, il ritorno alla celebrazione dell’Eucaristia con il popolo è stato «segnato anche da un certo smarrimento (in particolare, una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi), che richiede di essere ascoltato».
Dopo le accese proteste, soprattutto di quella parte del mondo cattolico più attaccata ai riti e alle devozioni, contro la sospensione della celebrazione delle liturgie eucaristiche; dopo che la stessa Presidenza della CEI aveva reagito con durezza contro il protrarsi di questa sospensione, arrivando a prospettare una violazione del diritto di libertà religiosa; dopo che si erano studiate minuziosamente le misure per conciliare la tutela della salute e il corretto svolgimento delle funzioni – dopo tutto questo, sembra che le chiese, ora che sono state riaperte, restino mezze vuote, perché molti – soprattutto i giovani – continuano a disertarle.
I limiti del virtuale
Possibile che una interruzione di poche settimane abbia sviato i fedeli dalla frequenza domenicale, ancora così radicata nel costume? O forse, più sottilmente, sono stati i vantaggi di una partecipazione virtuale a indurre molti a continuare a seguire la messa in Tv? Solo che in questo modo l’assemblea liturgica perderebbe istituzionalmente – e non solo per l’emergenza del lockdown – la sua ricchezza umana integrale, che comporta anche la dimensione fisica, e soprattutto il riferimento al banchetto eucaristico, in cui i fedeli si nutrono, del corpo e del sangue di Cristo, «vero cibo e vera bevanda».
Si capisce l’inquietudine della Presidenza della CEI, anche in riferimento a una ripresa che, in autunno, dovrebbe confrontarsi col problema della presenza fisica dei ragazzi nelle classi di catechismo e negli oratori.
L’urgenza dell’ascolto
È significativo, tuttavia, che la lettera accenni quasi di sfuggita alle difficoltà, insistendo piuttosto sulla necessità, da parte delle nostre comunità, di «aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale». Segno di una consapevolezza che il problema è più profondo del mancato ritorno in chiesa ed esige non tanto delle sterili recriminazioni, quanto un «ascolto» intelligente di ciò che sta accadendo nella nostra società.
La crisi c’era già prima del lockdown
In verità, dei germi di crisi erano già abbastanza evidenti anche prima del coronavirus. I giovani di cui oggi viene notata l’assenza erano a loro volta i superstiti di generazioni che da tempo, ormai, avevano abbandonato la pratica religiosa. Dalle più recenti inchieste risulta che oggi, in Italia, quasi metà dei giovani dai 18 ai 29 anni non credono in Dio, o perché pensano che non esista, o perché sono del tutto indifferenti al problema, o perché ci credono a intermittenza, qualche volta sì qualche volta no, o perché, pur ammettendo l’esistenza di una forza superiore, escludono che sia Dio. Colpisce l’accelerazione impressionante del fenomeno se si pensa che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli atei erano tra il 10 e il 15% della popolazione giovanile.
Qualcosa deve cambiare
Fa riflettere il fatto che l’80% dei giovani «non credenti» è passato per il battesimo e la prima comunione, circa i due terzi per la cresima. I tre quarti hanno frequentato il catechismo. Sono perciò giovani che hanno abbandonato dopo l’iniziazione cristiana. È il fallimento del catechismo come viene praticato quasi ovunque. La grande fuga dei ragazzi si verifica di solito a conclusione di esso, come se i sacramenti che dovrebbero introdurli nella pienezza della vita cristiana fossero invece quelli del congedo da essa e dalla Chiesa.
I segni di un tramonto, ma anche la prospettiva di un nuovo inizio
Il tempo del coronavirus ha dunque solo evidenziato una crisi su cui forse si erano troppo a lungo chiusi gli occhi. Ma, se è vero che esso mette in risalto i segni di un tramonto, c’è da chiedersi se non mostri, al tempo stesso, alcuni elementi che potrebbero favorire un nuovo inizio, consentendo il superamento di alcuni schemi che ingabbiavano la pastorale, soprattutto giovanile.
Oltre i muri
Proprio la crisi della pratica religiosa tradizionale, quella che si svolge tra le mura dei templi, rimette in discussione uno di questi schemi, secondo cui si consideravano “veri cristiani” solo i cattolici “praticanti”, e “praticanti” solo quelli che andavano in chiesa la domenica. Il confinamento ci ha costretti a relativizzare, insieme al luogo fisico, le mura di divisione che separavano nettamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Nello spazio della rete tutti sono in grado di collegarsi a tutti e di partecipare anche se non l’avevano mai fatto. I confini sono saltati.
La rete come metafora: la “terra di mezzo”
Ma non è questa anche una potente metafora di uno stile ecclesiale diverso, dove “cattolico” torni a significare un’apertura illimitata alla totalità dei valori umani e quindi a tutti coloro che, anche per vie diverse da quelle dell’ortodossia ecclesiale, sono alla ricerca di un senso della vita?
Non per nulla sono i giovani i più capaci di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione. Lo spazio senza barriere della rete esprime bene la loro condizione, che non è quella di chi sta “dentro” la Chiesa , ma neppure quella di chi sta “fuori”. Più che di atei e di credenti bisognerebbe, perciò, parlare di giovani che abitano quella che un sociologo, Alessandro Castegnaro, ha definito una «terra di mezzo» tra credenza e incredulità e che, se non vanno in chiesa, non è perché abbiano definitivamente rifiutato la fede, ma perché non riescono più a riconoscersi nel modo tradizionale di proporla.
La Chiesa che può accogliere i giovani
Certo, guardando questi giovani ci si potrebbe chiedere: «Che cosa cercano? Cercano Dio?». In realtà, come scrive Castegnaro, «cercano innanzi tutto se stessi, cercano di non perdersi, cercano di ritrovarsi (…). Ma cercare se stessi non ha proprio niente a che fare con la ricerca di Dio?».
Ad essi può rispondere solo una Chiesa capace di accoglierli con le loro inquietudini, una Chiesa che apra lo spazio per «portare avanti le proprie esplorazioni, condurre incursioni, fare esperienze a partire dal bisogno di comprendere se stessi e dalla personale ricerca di senso».
Una partecipazione senza appartenenza
Questi giovani hanno bisogno di una partecipazione senza appartenenze rigide, di una proposta fatta in un linguaggio nuovo, non “ecclesiastico”, che, invece di riflettere certezze già precostituite, si sforzi di esprimere la complessità della vita e sia per questo comprensibile a tutti.
Non è il linguaggio che il coronavirus ci ha costretti a usare, in una liturgia del quotidiano che si è svolta tra casa nostra – luogo di condivisione, a volte faticosa, tra diversi, alle prese con le incombenze e le necessità della vita familiare – e le piattaforme del web, aperte senza limiti al mondo? Perché non imparare da questa esperienza un approccio non “sacrale”, meno che mai “clericale”, alla nostra fede, valorizzando la sua portata pienamente umana?
Discepoli della Sapienza
Una nota teologa, Serena Noceti, segnalava a questo proposito l’attualità della tradizione sapienziale, che attraversa tutta la Sacra Scrittura. Mentre la Torah, la Legge, enuncia le richieste di Jahvè al suo popolo e i libri profetici fanno percepire l’irruzione bruciante della Trascendenza nella nostra storia, i libri sapienziali insegnano a leggere la presenza di Dio nelle vicende della vita e della morte.
Sono i libri della riflessione sul quotidiano – Proverbi, Sapienza, Siracide –, ma anche i più drammatici della Bibbia – Qohelet, Giobbe. Qui non si parte dalle certezze, ma dalle domande – non quelle del catechismo, confezionate in vista delle risposte –; non dalla fede, ma dal grido che, come scrive Recalcati, è «il luogo primario della umanizzazione della vita». «Ma cos’è un grido? Nell’umano esprime l’esigenza della vita di entrare nell’ordine del senso, esprime la vita come appello rivolto all’Altro. Il grido cerca nella solitudine della notte una risposta nell’Altro. In questo senso, ancora prima di imparare a pregare e ancora di più nel tempo in cui pregare non è più come respirare, noi siamo una preghiera rivolta all’Altro».
Accogliamo i “gridi perduti nella notte”!
Forse da qui bisogna ripartire, con i giovani ma anche con gli adulti, ricordando che le nostra certezze di fede, se sono autentiche, non sono ereditarie, ma hanno richiesto una conquista: «Siamo stati tutti dei gridi perduti nella notte». Lasciamo entrare nelle nostre riunioni gli abitanti della “terra di mezzo” senza chiedere loro il passaporto. Anzi, rendendo queste riunioni, anche quando potranno essere fatte in presenza, fluide e accessibili come lo sono state le liturgie della rete (alle messe del papa, durante il lockdown, partecipavano tanti che in chiesa non andrebbero mai!).
La promessa che qualcosa di nuovo nascerà
Il coronavirus ci ha messo alla prova e forse sta accelerando la fine non solo di una società, ma anche di un certo modo di vivere la Chiesa. Ma noi, i cristiani, non dobbiamo aver paura del rinnovamento. Ciò che muore apre la strada a ciò che sta nascendo. E noi crediamo di dover avere un ruolo, con la nostra inventiva e i nostri poveri sforzi, nell’adempimento della promessa che sta a conclusione della Sacra Scrittura: «E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5).




sabato 4 aprile 2020

DOPO LA PANDEMIA: LA POLITICA TRA PRESENTE E FUTURO

Uno sconvolgimento globale

-          di Giuseppe Savagnone

Almeno in Italia, il coronavirus sembra avere toccato il suo picco e, pur permanendo l’emergenza sanitaria, si comincia a fare più pressante l’interrogativo sul “dopo”. Perché ci rendiamo conto che questa pandemia non è stata solo un “incidente di percorso”, ma il più radicale sconvolgimento a livello planetario dopo la seconda guerra mondiale. Niente, probabilmente, sarà più come prima.
Un “sistema” che il Sessantotto aveva contestato senza riuscire a intaccarlo veramente, che il terrorismo aveva simbolicamente colpito, con l’attentato dell’11 settembre, in modo più spettacolare che sostanziale, nel giro di tre mesi è stato travolto a livello finanziario – borse in picchiata –, economico – attività produttive e commerciali bloccate –, sociale – rapporti umani sospesi o affidati esclusivamente a internet –, religioso – funzioni religiose di ogni tipo sospese.
La politica senza più alibi
Non sappiamo ancora come sarà possibile uscire da questa crisi, ma fin da adesso è chiaro che un ruolo decisivo spetterà alla politica. Ora che la pretesa inviolabilità delle regole del mercato neocapitalistico è stata messa in crisi dal coronavirus, emerge l’importanza delle scelte politiche che stanno dietro i dettami dell’economia e della finanza. La pandemia smaschera l’illusione della “mano invisibile”, che affidava al libero gioco degli interessi particolaristici il raggiungimento del miglior risultato per la comunità, mettendo in piena luce l’insostituibile responsabilità di chi ha il compito di garantire il perseguimento del bene comune.
Europa ed Italia
Ciò è vero, in particolare, per l’Europa, che fino ad ora si era aggrappata a un apparato di convenzioni economiche per eludere il progetto originario di un vera unità politica, col superamento degli egoismi nazionali.
Ancora più vero è per un Paese come l’Italia, che era già in crisi prima del coronavirus, con un debito pubblico spaventoso e un tasso di crescita che rasentava lo zero, ma che soprattutto ha sofferto – a partire dalla fine della Prima Repubblica – di un vuoto di politica.
L’inadeguatezza della nuova casta
Da noi, i protagonisti della scena pubblica, in questi ultimi anni, non hanno offerto uno spettacolo rassicurante. L’esperienza italiana ha evidenziato la falsità del teorema del populismo, secondo cui il popolo non ha bisogno della mediazione di rappresentanti specificamente preparati per esercitare l’arte del governo – inevitabilmente portati a costituirsi come una “casta” –, perché può benissimo governarsi da sé attraverso leader improvvisati che siano espressione della “gente comune”. Abbiamo visto tutti gli effetti pratici di questa illusione: alla fine si è solo creata una nuova casta, forse ancora più attaccata alle “poltrone” di quella precedente, solo più portata a sostituire la politica con una campagna elettorale permanente.
La protesta incontrollata dei diseredati
Non è dunque con le carte migliori che stiamo per affrontare la difficile partita che attende il nostro Paese. Cosa accadrà? La minaccia più immediata, già in qualche modo affiorante dalle cronache, è l’esplodere – in seguito al disastro economico prodotto dalla pandemia – di tensioni sociali incontrollabili, soprattutto al Sud.
Abbiamo letto in questi giorni di supermercati presi d’assalto da una folla di disperati pronti a tutto per procurare a sé e alla proprie famiglie generi alimentari di prima necessità. Non è, per ora, la situazione della media borghesia. Lo è però – soprattutto al Sud – di una massa di persone che vivevano ai margini del sistema economico, lavorando spesso “in nero” come camerieri e cameriere, garzoni, posteggiatori abusivi. Per non parlare dei mendicanti, che non hanno più chiese affollate sui cui gradini chiedere l’elemosina. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ho visto una foto di prostitute in fila davanti a un centro della Caritas…
Una crisi a lungo termine
Ma questi sono solo i primi sintomi. Molte piccole imprese e molti esercizi commerciali non sopravviveranno, probabilmente, alla crisi della pandemia, e dovranno licenziare impiegati ed operai. Il settore dei trasporti e quello del turismo hanno già avuto danni enormi, ma ancora maggiori ne sono prevedibili per l’estate. È troppo pessimistico prevedere un drammatico acuirsi della conflittualità sociale?
La forbice delle disuguaglianze
In realtà, la pandemia è venuta a rendere insostenibile una situazione che già era folle. La forbice che divide i ricchi dai poveri da molti anni è in costante allargamento. Ai primi di gennaio, secondo Eurostat, il 20% della popolazione italiana che godeva dei redditi più alti aveva entrate sei volte superiori al 20% dei meno abbienti. Per non parlare dei patrimoni: secondo il rapporto Oxfam, dello stesso gennaio 2020, il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero (cfr. «Sole24ore» del 20 gennaio 2020).
Non è “comunismo”, ma etica politica
Qui ci vorrebbe una presa di posizione della politica che rimetta in discussione il dogma dell’intoccabilità dei patrimoni. In Italia, rispetto agli altri Paesi europei, la tassazione è esorbitante riguardo ai redditi (anche perché non si colpiscono gli evasori o si fanno condoni nei loro confronti), ma estremamente blanda verso i patrimoni, per esempio nel caso delle eredità. C’è gente che dal resto d’Europa viene a morire in Italia per far pagare meno tasse di successione ai figli.
Adeguarsi allo standard europeo non significherebbe certo cedere alla logica del “comunismo”, come gridano alcuni (milionari) appena se ne accenna. Ma una simile scelta esigerebbe un consenso, a partire da una diffusa consapevolezza etica che da molti anni sembra essersi eclissata, della responsabilità di ognuno verso tutti e del primato del bene comune sugli interessi privati.
Luci e ombre della gestione del governo
Quello che il governo sta facendo è, comprensibilmente, volto a fronteggiare l’emergenza conseguente alla pandemia. Il punto è che qui non basterà gestire l’esistente. Siamo in un contesto in cui, come si è visto, è necessaria una svolta. Ne sarà capace un presidente del Consiglio che, pur con tanti limiti e ed errori, sta facendo probabilmente del proprio meglio, meritandosi la fiducia della grande maggioranza degli italiani, ma che non sembra ancora capace di grandi prospettive e di scelte coraggiose? Ne sarà capace il Paese, per evitare il caos?
Una campagna di disprezzo e di odio
Quello che è certo è che chi attualmente contrasta Conte non è sulla linea che ipotizziamo. Purtroppo rientra nel deficit di politica del nostro Paese il comportamento dell’opposizione. Non mi riferisco tanto alle prese di posizione ufficiali dei suoi capi – anche se definire pubblicamente «criminale» il presidente del Consiglio, come ha fatto Giorgia Meloni, non è certo un modo di favorire la collaborazione nell’affrontare l’emergenza nazionale –, quanto al nutrito gruppo di quotidiani che rappresentano una certa opinione pubblica.
A differenza di tutti gli altri mezzi d’informazione, questi giornali, invece di dedicare i titoli di prima pagina alle tragiche cifre della pandemia e alla lotta contro di essa, in queste settimane si sono impegnati, con una costanza degna di miglior causa, ad attaccare ogni giorno personalmente il capo del governo, accusandolo e irridendolo, anche nei modi più volgari, per delegittimarlo.
L’incitamento a scatenare la paura
È presumibile che il clima di disprezzo e di odio a cui questa campagna contribuisce non favorirà la coesione del Paese nell’affrontare il difficile futuro che lo attende. Ma non sembra questo, del resto, l’intento di questo tipo di opposizione. Mi ha colpito il contenuto dell’editoriale di Vittorio Feltri, direttore di uno di questi quotidiani («Libero» 24 marzo scorso), che rimproverava il leader della sua parte politica, Matteo Savini, di scarsa incisività di fronte alla visibilità pubblica di Giuseppe Conte. «Tu non puoi lasciargli delle praterie di consenso», scriveva Feltri, «devi frenarlo, abbatterlo, almeno zittirlo. Cavalca la paura delle gente come sai fare tu, non permettere di essere accantonato quasi fossi diventato una comparsa. Reagisci da par tuo come se ti trovassi al cospetto di una nave piena di africani clandestini. In tal modo riconquisterai la tua posizione apicale».
Che tipo di politica si prospetta in queste righe? Quello che da molti viene rimproverato a Salvini, nelle sue prese di posizione sulla questione migratoria – l’aver giocato sulle passioni irrazionali per ottenere il consenso – è indicato qui come un modello di comportamento da seguire. Altro che politica volta al bene comune!
Tra presente e futuro
Siamo sospesi tra un presente ancora tutt’altro che rassicurante e un futuro carico di incognite ma, forse proprio per questo, di possibilità nuove. La pandemia ci sta già insegnando molte cose che avevamo dimenticato. Ci sarà, queste, un modo di fare politica che tenga conto della verità e della giustizia più di quanto si sia fatto nel recente passato? Possiamo almeno sperarlo. Ma soprattutto possiamo fare quello che è in potere di ciascuno di noi, come cittadini, perché questo avvenga.