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di Giuseppe Savagnone*
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Ai primi di dicembre l’allarme sugli effetti della pandemia a
livello psicologico veniva dai medici dell’Azienda Sanitaria di Trento, che
denunciavano un numero di suicidi, tra i giovani, «neanche lontanamente
paragonabile a quelli degli anni scorsi». In questo inizio d’anno, è il
professor Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e
dell’adolescenza dell’ospedale pediatrico «Bambino Gesù» di Roma, a segnalare
il crescente disagio di ragazzi e bambini: «Io non ho mai avuto tanti
accessi al pronto soccorso di tentativi di suicidio e di autolesionismo (…). Ho
avuto ragazzini di 12 anni che si sono buttati dalla finestra (…). Mi arrivano
ragazzini in ambulanza da tutto il Centro Sud e ora anche dal Nord».
Oltre il negazionismo
I “negazionisti” continuano a ripetere che stiamo enfatizzando, attribuendoli al Covid, fenomeni patologici che si verificavano già negli anni passati, e che nulla è cambiato nella realtà. Ed è vero che il suicidio, in Italia, è la seconda causa di morte dei giovani dai 10 ai 25 anni, dopo gli incidenti stradali. Ma, a dimostrare il reale aggravarsi del fenomeno ai nostri giorni basta il confronto fatto dal neuropsichiatra del «Bambino Gesù»: «Nel 2011 abbiamo avuto 12 ricoveri per attività autolesionistica, a scopo suicidario e non, mentre nel 2020 oltre 300, quindi quasi uno al giorno».
La minaccia non è solo per la salute fisica e per l’economia
In questi mesi si è molto parlato della minaccia che il Covid
rappresenta per la nostra salute fisica. Oppure della crisi economica,
determinata sia dai pericoli oggettivi di contagio, sia dalle misure imposte
dal governo per contenerlo. Molto meno spazio è stato dedicato alle conseguenze
che la pandemia sta avendo, a livello conscio o inconscio, nella psiche delle
persone, soprattutto di quelle meno capaci, per la loro giovane età, di
metabolizzare i limiti e le incognite presenti nel nuovo contesto.
È mancata la scuola
Lo stesso dibattito sulla riapertura o meno delle scuole ha
avuto come sfondo due temi, entrambi importanti, ma nessuno dei quali
riguardava il problema della salute psicologica dei ragazzi. Nel caso della
scuola primaria e secondaria di primo grado, l’urgenza è stata di consentire ai
genitori di continuare la loro attività lavorativa; per quella secondaria
superiore, si sono – peraltro giustamente – sottolineate le difficoltà della
didattica a distanza nel garantire un efficace svolgimento delle lezioni. Forse
non si è tenuto abbastanza conto del fatto che la scuola non è solo il luogo
della trasmissione della cultura, ma anche quello delle relazioni umane
indispensabili al consolidamento e alla crescita della personalità e che
proprio a questo livello la Dad costituisce una pesante deprivazione per i più
giovani.
Non basta il virtuale per dare colore alla vita
Perché il rapporto umano, per essere tale, non può rimanere
solo virtuale. Pur nella piena consapevolezza dei grandi contributi che la
tecnica può offrire alla scuola, come ad ogni altro tipo di esperienza
comunicativa – e quindi ben lungi dal cadere in quell’atteggiamento puramente
negativo che impedisce di vedere e di valorizzare l’apporto dei nuovi mezzi per
arricchire sia la didattica che molte altre attività culturali –, non si può
tuttavia rinunciare al primato di quel tipo di relazione in cui le persone sono
coinvolte nella loro interezza psico-fisica. E non è stata solo la comunità
scolastica a venir meno. La palestra, i momenti di svago vissuti con i coetanei
al pub o in pizzeria, la stessa deprecata movida, costituivano momenti
importanti di sfogo per tanti giovani (e non solo per loro). Le serie
televisive seguite da casa non sono sufficienti a compensarli. La vita si è
impoverita, ha perso molti dei colori che la rendevano affascinante o almeno
piacevole.
Il pericolo della dipendenza dallo schermo
Peraltro, la cosa più terribile non è che i ragazzi soffrano
di questa condizione irreale, ma quando non ne soffrono più. Quando si abituano
a relazionarsi alle altre persone e alla realtà attraverso lo schermo del
computer, del tablet o dello smartphone al punto da perdere perfino la
nostalgia degli spazi esterni, delle strette di mano, degli abbracci, delle
chiacchierate in gruppo. Perché lo schermo non è solo un valido strumento di
comunicazione, è anche un filtro, una difesa – da qui il verbo “schermirsi” e
l’espressione “farsi schermo con la mano” – che attenua l’impatto con la realtà
e con le altre persone. Può diventare difficile, a chi si assuefà a questa
“anestesia”, affrontare i volti, i gesti, le parole di interlocutori in carne
ed ossa. È forse a questo che pensa il professor Vicari quando osserva che
«sarà impegnativo convincere i ragazzi a uscire di nuovo di casa».
Un divenire senza senso
Ma forse sulla depressione dei giovani – l’iceberg di cui gli
atti di autolesionismo sono solo la punta emergente – influisce anche un altro
fattore, oltre a quello del rarefarsi della sfera relazionale, ed è la perdita
del senso del futuro. È una malattia che affligge la nostra cultura già da
molto prima della pandemia. Alla origini della post-modernità sta la tesi di
Nietzsche che il progresso è un’illusione e che la storia, con le sue passioni,
le sue apparenti rivoluzioni, le sue vicende liete o drammatiche, è un eterno
ritorno di ciò che è già stato. Un divenire, insomma, magari affannoso, ma che
non porta da nessuna parte.
Da qui un clima culturale che ha privilegiato l’“attimo
fuggente”, il “carpe diem”, e ha fatto apparire superflue le domande sul
“senso” – nella duplice accezione di “direzione” e di “significato”–, di tutta
la nostra frenetica corsa quotidiana. Da qui, anche, lo scarso interesse della
maggior parte dei giovani per la politica, che dovrebbe essere basata sulla
progettazione del futuro. Anche se, in questo clima, essa si è sempre più
ripiegata su logiche difensive, puntando sulla paura e sul mantenimento dell’esistente.
L’effetto della pandemia
Da questo punto di vista, la pandemia ha solo portato
all’estremo una malattia dell’anima che già ci corrodeva e che spiega
l’indebolimento delle passioni, già segnalato da molti ben prima del suo
esplodere. È del 2010 la diagnosi spietata del 44° Rapporto Censis sul nostro
Paese: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue,
senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato
la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di
soddisfazione dei desideri (…) e che dall’altro è basata sul primato
dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai
desiderati, o almeno non abbastanza desiderati». Il Covid ha però capovolto il movente di
questa mancata proiezione dei giovani verso il futuro: non un eccesso
consumistico che toglie il gusto di desiderare , appagando sul nascere tute le
pulsioni, ma il venir meno di tutte le prospettive su cui normalmente si poteva
puntare, sul piano economico, lavorativo, esistenziale. In questa versione, la
perdita del futuro si manifesta più chiaramente nel suo profondo significato di
“disperazione”. Il vuoto che prima i nostri giovani vivevano in modo indolore,
ora si manifesta più crudamente come motivo di depressione.
La mancanza di progettualità degli adulti
È appena il caso di dire che la responsabilità di questo
clima non è solo della pandemia, ma del modo in cui noi adulti continuiamo ad
affrontarla. Era così anche prima. Non c’è stato bisogno del Covid per lavorare
alacremente, a livello mondiale, alla desertificazione del nostro pianeta e, a
livello nazionale, al crescente accumularsi di un debito pubblico che
schiaccerà chi verrà dopo di noi. E da tempo, anche nelle famiglie, non eravamo
più in grado di offrire altri obiettivi che quelli relativi alla “sistemazione”
personale e alla difesa del nostro attuale tenore di vita. Basta guardare allo
scenario politico per rendersi conto che questa incapacità di dare un “senso”,
una direzione, alla vita individuale e collettiva, si sta perpetuando nel tempo
della pandemia. Al di là dei fattori contingenti, gli osservatori più acuti
sono d’accordo sul fatto che, in questo momento, il vero limite, sia del
governo, sia dell’opposizione, è di non avere un vero progetto che dia
significato alle loro proposte settoriali.
Mettere mano a una cultura che apra speranza
Certo, i nostri giovani non si suicidano (come qualche adulto
è tentato di fare) alla vista dei disastrosi scenari della politica. Forse, se
si chiedesse loro perché stanno così male, non lo saprebbero neppure dire. Ma
noi, gli artefici di questa società, i seminatori, consapevoli o inconsapevoli,
di questa cultura senza futuro (è da noi che i nostri figli l’hanno recepita),
non abbiamo il diritto di stupirci del loro profondo disagio.
Ma, se vogliamo riparare, non basterà creare le condizioni
della riapertura in sicurezza delle scuole o altre singole misure. Qui è
necessario mettere mano a una nuova cultura, pensarla, diffonderla. Per
ritrovare noi stessi qualcosa che valga la pena di costruire nel lungo termine
e offrirlo ai nostri figli, perché abbiano di nuovo la possibilità di sperare.
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