Un invito che nasce da una
comprensibile inquietudine
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Giuseppe Savagnone
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La
lettera nella quale, in questi giorni, la Presidenza della CEI ha invitato i
vescovi italiani a «porre le condizioni con cui aprirsi a nuove forme di
presenza ecclesiale», in vista della ripartenza autunnale, non è casuale. Essa
nasce da una preoccupazione, neppure troppo velata, di fronte alla
constatazione che, dopo il lockdown, il ritorno alla celebrazione dell’Eucaristia
con il popolo è stato «segnato anche da un certo smarrimento (in particolare,
una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi), che richiede di essere
ascoltato».
Dopo
le accese proteste, soprattutto di quella parte del mondo cattolico più attaccata
ai riti e alle devozioni, contro la sospensione della celebrazione delle
liturgie eucaristiche; dopo che la stessa Presidenza della CEI aveva reagito
con durezza contro il protrarsi di questa sospensione, arrivando a prospettare
una violazione del diritto di libertà religiosa; dopo che si erano studiate
minuziosamente le misure per conciliare la tutela della salute e il corretto
svolgimento delle funzioni – dopo tutto questo, sembra che le chiese, ora che
sono state riaperte, restino mezze vuote, perché molti – soprattutto i giovani
– continuano a disertarle.
I
limiti del virtuale
Possibile
che una interruzione di poche settimane abbia sviato i fedeli dalla frequenza
domenicale, ancora così radicata nel costume? O forse, più sottilmente, sono
stati i vantaggi di una partecipazione virtuale a indurre molti a continuare a
seguire la messa in Tv? Solo che in questo modo l’assemblea liturgica
perderebbe istituzionalmente – e non solo per l’emergenza del lockdown – la sua
ricchezza umana integrale, che comporta anche la dimensione fisica, e
soprattutto il riferimento al banchetto eucaristico, in cui i fedeli si
nutrono, del corpo e del sangue di Cristo, «vero cibo e vera bevanda».
Si
capisce l’inquietudine della Presidenza della CEI, anche in riferimento a una ripresa
che, in autunno, dovrebbe confrontarsi col problema della presenza fisica dei
ragazzi nelle classi di catechismo e negli oratori.
L’urgenza
dell’ascolto
È significativo,
tuttavia, che la lettera accenni quasi di sfuggita alle difficoltà, insistendo
piuttosto sulla necessità, da parte delle nostre comunità, di «aprirsi a nuove
forme di presenza ecclesiale». Segno di una consapevolezza che il problema è
più profondo del mancato ritorno in chiesa ed esige non tanto delle sterili
recriminazioni, quanto un «ascolto» intelligente di ciò che sta accadendo nella
nostra società.
La
crisi c’era già prima del lockdown
In
verità, dei germi di crisi erano già abbastanza evidenti anche prima del
coronavirus. I giovani di cui oggi viene notata l’assenza erano a loro volta i
superstiti di generazioni che da tempo, ormai, avevano abbandonato la pratica
religiosa. Dalle più recenti inchieste risulta che oggi, in Italia, quasi metà
dei giovani dai 18 ai 29 anni non credono in Dio, o perché pensano che non
esista, o perché sono del tutto indifferenti al problema, o perché ci credono a
intermittenza, qualche volta sì qualche volta no, o perché, pur ammettendo
l’esistenza di una forza superiore, escludono che sia Dio. Colpisce
l’accelerazione impressionante del fenomeno se si pensa che negli anni Ottanta
e Novanta del secolo scorso gli atei erano tra il 10 e il 15% della popolazione
giovanile.
Qualcosa
deve cambiare
Fa
riflettere il fatto che l’80% dei giovani «non credenti» è passato per il
battesimo e la prima comunione, circa i due terzi per la cresima. I tre quarti
hanno frequentato il catechismo. Sono perciò giovani che hanno abbandonato
dopo l’iniziazione cristiana. È il fallimento del catechismo come viene
praticato quasi ovunque. La grande fuga dei ragazzi si verifica di solito a
conclusione di esso, come se i sacramenti che dovrebbero introdurli nella
pienezza della vita cristiana fossero invece quelli del congedo da essa e dalla
Chiesa.
I
segni di un tramonto, ma anche la prospettiva di un nuovo inizio
Il
tempo del coronavirus ha dunque solo evidenziato una crisi su cui forse si
erano troppo a lungo chiusi gli occhi. Ma, se è vero che esso mette in risalto
i segni di un tramonto, c’è da chiedersi se non mostri, al tempo stesso, alcuni
elementi che potrebbero favorire un nuovo inizio, consentendo il superamento di
alcuni schemi che ingabbiavano la pastorale, soprattutto giovanile.
Oltre
i muri
Proprio
la crisi della pratica religiosa tradizionale, quella che si svolge tra le mura
dei templi, rimette in discussione uno di questi schemi, secondo cui si
consideravano “veri cristiani” solo i cattolici “praticanti”, e “praticanti”
solo quelli che andavano in chiesa la domenica. Il confinamento ci ha costretti
a relativizzare, insieme al luogo fisico, le mura di divisione che separavano
nettamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Nello spazio della rete tutti
sono in grado di collegarsi a tutti e di partecipare anche se non l’avevano mai
fatto. I confini sono saltati.
La
rete come metafora: la “terra di mezzo”
Ma
non è questa anche una potente metafora di uno stile ecclesiale diverso, dove
“cattolico” torni a significare un’apertura illimitata alla totalità dei valori
umani e quindi a tutti coloro che, anche per vie diverse da quelle
dell’ortodossia ecclesiale, sono alla ricerca di un senso della vita?
Non
per nulla sono i giovani i più capaci di utilizzare i nuovi mezzi di
comunicazione. Lo spazio senza barriere della rete esprime bene la loro
condizione, che non è quella di chi sta “dentro” la Chiesa , ma neppure quella
di chi sta “fuori”. Più che di atei e di credenti bisognerebbe, perciò, parlare
di giovani che abitano quella che un sociologo, Alessandro Castegnaro, ha
definito una «terra di mezzo» tra credenza e incredulità e che, se non vanno in
chiesa, non è perché abbiano definitivamente rifiutato la fede, ma perché non
riescono più a riconoscersi nel modo tradizionale di proporla.
La
Chiesa che può accogliere i giovani
Certo,
guardando questi giovani ci si potrebbe chiedere: «Che cosa cercano? Cercano
Dio?». In realtà, come scrive Castegnaro, «cercano innanzi tutto se stessi,
cercano di non perdersi, cercano di ritrovarsi (…). Ma cercare se stessi non ha
proprio niente a che fare con la ricerca di Dio?».
Ad
essi può rispondere solo una Chiesa capace di accoglierli con le loro
inquietudini, una Chiesa che apra lo spazio per «portare avanti le proprie
esplorazioni, condurre incursioni, fare esperienze a partire dal bisogno di
comprendere se stessi e dalla personale ricerca di senso».
Una
partecipazione senza appartenenza
Questi
giovani hanno bisogno di una partecipazione senza appartenenze rigide, di una
proposta fatta in un linguaggio nuovo, non “ecclesiastico”, che, invece di
riflettere certezze già precostituite, si sforzi di esprimere la complessità
della vita e sia per questo comprensibile a tutti.
Non
è il linguaggio che il coronavirus ci ha costretti a usare, in una liturgia del
quotidiano che si è svolta tra casa nostra – luogo di condivisione, a volte
faticosa, tra diversi, alle prese con le incombenze e le necessità della vita
familiare – e le piattaforme del web, aperte senza limiti al mondo? Perché non
imparare da questa esperienza un approccio non “sacrale”, meno che mai
“clericale”, alla nostra fede, valorizzando la sua portata pienamente umana?
Discepoli
della Sapienza
Una
nota teologa, Serena Noceti, segnalava a questo proposito l’attualità della
tradizione sapienziale, che attraversa tutta la Sacra Scrittura. Mentre la
Torah, la Legge, enuncia le richieste di Jahvè al suo popolo e i libri
profetici fanno percepire l’irruzione bruciante della Trascendenza nella nostra
storia, i libri sapienziali insegnano a leggere la presenza di Dio nelle
vicende della vita e della morte.
Sono
i libri della riflessione sul quotidiano – Proverbi, Sapienza, Siracide –, ma
anche i più drammatici della Bibbia – Qohelet, Giobbe. Qui non si parte dalle
certezze, ma dalle domande – non quelle del catechismo, confezionate in vista
delle risposte –; non dalla fede, ma dal grido che, come scrive Recalcati, è
«il luogo primario della umanizzazione della vita». «Ma cos’è un grido?
Nell’umano esprime l’esigenza della vita di entrare nell’ordine del
senso, esprime la vita come appello rivolto all’Altro. Il grido cerca nella
solitudine della notte una risposta nell’Altro. In questo senso, ancora prima
di imparare a pregare e ancora di più nel tempo in cui pregare non è più come
respirare, noi siamo una preghiera rivolta all’Altro».
Accogliamo
i “gridi perduti nella notte”!
Forse
da qui bisogna ripartire, con i giovani ma anche con gli adulti, ricordando che
le nostra certezze di fede, se sono autentiche, non sono ereditarie, ma hanno
richiesto una conquista: «Siamo stati tutti dei gridi perduti nella notte».
Lasciamo entrare nelle nostre riunioni gli abitanti della “terra di mezzo”
senza chiedere loro il passaporto. Anzi, rendendo queste riunioni, anche quando
potranno essere fatte in presenza, fluide e accessibili come lo sono state le liturgie
della rete (alle messe del papa, durante il lockdown, partecipavano tanti che
in chiesa non andrebbero mai!).
La
promessa che qualcosa di nuovo nascerà
Il
coronavirus ci ha messo alla prova e forse sta accelerando la fine non solo di
una società, ma anche di un certo modo di vivere la Chiesa. Ma noi, i
cristiani, non dobbiamo aver paura del rinnovamento. Ciò che muore apre la
strada a ciò che sta nascendo. E noi crediamo di dover avere un ruolo, con la
nostra inventiva e i nostri poveri sforzi, nell’adempimento della promessa che
sta a conclusione della Sacra Scrittura: «E Colui che sedeva sul trono disse:
“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5).
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