sabato 27 aprile 2024

UNA VIGNA FECONDA


 I TRALCI 

CHE 

PORTANO FRUTTO

Domenica V di Pasqua - 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Giovanni 15,1-8

  Commento al Vangelo di fra Ermes Ronchi

Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione, ma nella fecondità. Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, e togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

 La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici. Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.

 All'inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore! C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

 Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.

 Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

 E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.

 Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c'è niente.

 Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.

 Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.

 Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

 Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.

 Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire...

 La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.

 E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

Alzoglioccchiversoilcielo

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LA BELLA SCRITTURA

 Nelle Marche ecco il festival della calligrafia e della scrittura manuale:


“Il gesto grafico si impara nella prima infanzia, 

il ruolo degli insegnanti è fondamentale”

In un’epoca dominata da pixel, tablet e intelligenza artificiale, sembra quasi un atto di ribellione. Eppure, il mondo della calligrafia non solo resiste, ma rilancia con forza, dimostrando che la bellezza e il valore del segno tracciato a mano restano ineguagliabili.

Due docenti, Carlo Nofri e Alessandro Ciaudano, sono gli artefici di un progetto che ha come fulcro la calligrafia e i suoi tre pilastri fondamentali: postura, impugnatura e continuità grafica. L’iniziativa, più che un semplice concorso, si è trasformata in un vero e proprio festival dedicato alla scrittura a mano, coinvolgendo gli Istituti Comprensivi della provincia di Fermo.

Come segnala La Provincia di Fermo, un successo senza precedenti, con numeri da capogiro: 12 Istituti, 26 comuni, 3000 studenti e 263 insegnanti hanno partecipato a questa edizione da record, culminata nella cerimonia di premiazione al Teatro dell’Aquila.

Ma al di là dei numeri, ciò che colpisce è l’entusiasmo e la passione che hanno animato il progetto. Come sottolineato “questo festival è un impegno culturale. Siamo partiti dalle insegnanti della primaria per poi coinvolgere anche le docenti della materna, perché il gesto grafico si forma proprio nella prima infanzia”.

Le grafologhe formatrici che hanno tenuto i corsi alle insegnanti e hanno composto la commissione del concorso sono tre: Vita Maria Romina, Francesca Capriotti e Bianca Maria Orlandoni, educatrici del gesto grafico dell’Associazione AGI (Associazione grafologica italiana). Il maestro Andrea Gentili è il calligrafo che ha fatto i corsi di calligrafia avulsi da questa formazione.

“L’impegno dei docenti è stato fondamentale”, concludono gli organizzatori, supportati dal presidente di Confindustria Fermo Fabrizio Luciani. Molti insegnanti hanno partecipato a un secondo corso di formazione per affinare la propria capacità di individuare e aiutare gli studenti con difficoltà nella scrittura.

Un segnale chiaro: la calligrafia non è solo un’arte, ma uno strumento educativo prezioso, capace di sviluppare la motricità fine, la concentrazione e la creatività. Un inno all’inchiostro che, nell’era digitale, risuona più forte che mai.

FESTIVAL DELLA BELLA SCRITTURA

 

 

 

venerdì 26 aprile 2024

I.A. L'ECLISSI DELL'ESPERIENZA

 La condizione tecnologica della Digital Age è composta di simulacri e di mondi sempre più virtuali: un’eclissi dell’esperienza

  

-         di Paolo Benanti*

Le intelligenze artificiali (Ia) hanno avuto un impatto significativo sulle interazioni sociali dei ragazzi. Con l’avvento di assistenti virtuali, chatbot e algoritmi di raccomandazione, le Ai sono diventate parte integrante delle esperienze online degli adolescenti. Le Ia sono in grado di analizzare i dati personali, le preferenze e i comportamenti degli utenti per offrire suggerimenti personalizzati e automatizzare molte attività quotidiane.

Intimamente connessa a questa trasformazione vi è un mutamento sempre più evidente nel criterio di autorità: se una volta era la fonte autorevole a dirci il livello di credibilità di un’informazione oggi è la quantità di condivisioni e ricorrenze nel mondo digitale che, spesse volte algoritmicamente, ne influenzano la percezione come maggiormente autorevole.

La Brexit e la vittoria di Trump hanno accompagnato il dibattito sulla cosiddetta post-truth society, l’idea di una società in cui il concetto di verità condivisa – l’insieme di eventi e personaggi che tutti consideriamo esistenti, al di là delle nostre opinioni su di loro – è definitivamente scomparso. O meglio, deformato per sempre: dai social network e dai loro algoritmi, per esempio, in grado di creare e rinforzare le filter bubble, ossia il filtro automatico fatto dai server sulle notizie che ci vengono presentate, in cui un’emergenza politica può esistere o scomparire; un politico essere un eroe o un soggetto pericoloso per la Repubblica nel giro di poche ore, a volte minuti. I social network, infatti, confezionano un piccolo mondo personalizzato per ciascun utente, un “feed” che contiene notizie e personaggi che l’algoritmo ritiene possano piacerci.

In altri termini si assiste oggi al diffondersi di una tendenza a ritenere autorevoli le notizie che trovano maggior eco nell’universo digitale. Gli effetti di questa trasformazione sono già saliti alla ribalta dei media: fake news, postverità e altre espressioni analoghe ci dicono quanto sia efficace questa nuova modalità percettiva. La sfida educativa allora sarà quella di rendere percepibile, se ci si perdona il gioco di parole, il valere dei valori. Spesso il bene costa e questo non sempre è popolare. Educare al bene allora dovrà confrontarsi con meccanismi di quantità, il numero di condivisioni, che tendono ad offuscare criteri di valore. Dobbiamo guardare ai giovani per aiutarli a divenire degli adulti in un’epoca di digitale. Come trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio di valori acquisiti e la tensione al bene che caratterizza la nostra identità?

Un’ulteriore sfida è prodotta da quella che potremmo definire con Filippo La Porta un’eclissi dell’esperienza: la condizione tecnologica che caratterizza il Digital Age è composta di simulacri, di espansione illimitata di fiction e spettacoli, di mondi sempre più virtuali. In questi mondi virtuali l’esperienza che si fa, ammesso si possa chiamarla ancora tale, è senza pericoli, potenzialmente infinita, continuamente intercambiabile, reversibile. Solo che questa più che un’esperienza si riduce a quella che potremmo definire una pseudo-esperienza: non ci sono limiti, non c’è noia, non ci sono pericoli, non c’è rischio, non c’è passività, capacità d’attesa, non c’è storia, memoria, non c’è morte, non ci sono corpi. In questa situazione siamo sempre più condannati a controllare per intero l’esperienza, a renderla comodamente reversibile, e così a perderla. L’esperienza, caratteristica unica del vivere e del crescere sembra contrarsi a una sorta di esperimento: la caratteristica propria dell’esperimento scientifico è il suo potersi ripetere infinite volte con gli stessi identici risultati.

Se ogni periodo storico ha elaborato il suo tipo d’uomo ideale, questo autoreverse dell’esperienza nell’esperimento porta a definire l’uomo ideale come uomo emozionale o homo sentiens.

L’emozione si presenta come l’oggetto di un vero e proprio culto e caratterizza specialmente la ricerca del mondo giovanile. Non che l’emotivo sia un mondo da reprimere ma non si parla qui di quell’emozione come lo stupore che per Aristotele era la base della conoscenza e la chiave di ogni accadimento spirituale. I giovani tendono a declinare l’emotivo, grazie a videogiochi sempre più immersivi e coinvolgenti, nell’emozione shock: violenta, intensa e che necessita di soglie di attivazione sempre più alte. Anche il vissuto emotivo chiede oggi di essere particolarmente oggetto di attenzione educativa e di cura.

Stiamo attraversando una stagione nuova del nostro vivere che presenta numerose opportunità e anche delle sfide, specie per l’educazione delle giovani generazioni. Non esistono ancora delle soluzioni a tutte le sfide e alle trasformazioni a cui assistiamo ma la natura umana, dono del Creatore a noi creature, ci consente di guardare a questo tempo con speranza. Se ci chiediamo se oggi i giovani sono complicati dobbiamo risponderci, con Francois Gervais, che «è vero soprattutto quando attraversano quel periodo in cui rivendicano la differenza per aiutarci a non dimenticare mai la nostra gioventù, quel periodo scomodo che noi chiamiamo adolescenza» (Il piccolo saggio).

www.avvenire.it

*Paolo Benanti (Roma, 20 luglio 1973) è un presbitero e teologo italiano del Terzo ordine regolare di San Francesco. Insegna alla Pontificia Università Gregoriana e presso l’Università di Seattle ed è consigliere di Papa Francesco sui temi dell'intelligenza artificiale e dell'etica della tecnologia. È l'unico italiano membro del Comitato sull'intelligenza artificiale delle Nazioni Unite.

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ABORTO e DINTORNI

 


Un attacco 

alla legge 194?

 

-         di Giuseppe Savagnone*

Con l’approvazione del Senato, dopo il sì della Camera, è diventata legge la norma secondo cui le Regioni, nell’organizzare i servizi dei Consultori familiari, possono «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». 

Una innovazione nella quale, già da quando è stata proposta, in Commissione, si è visto un attacco alla legge 194 e alla libertà di scelta delle donne che si rivolgono ai Consultori per chiedere l’interruzione della gravidanza.  

Le critiche possono essere riassunte nelle parole dell’ordine del giorno presentato dalla deputata Dem Sara Ferrari, secondo cui la norma ha «il solo scopo di fare entrare nei Consultori associazioni anti-abortiste che possano incidere psicologicamente, in modo inaccettabile e violento, sulla volontà delle donne che si confrontano con la difficilissima scelta dell’interruzione volontaria di gravidanza».

Questa è stata la posizione ufficiale del PD, la cui segretaria, Elly Schlein, ha parlato di «attacco pesante alla libertà delle donne». Ma non solo del PD: «L’Italia sceglie di fare un ulteriore passo indietro», ha dichiarato, da parte sua, il Movimento 5 stelle. E la deputata pentastellata Gilda Sportiello ha poi annunciato una proposta di legge per inserire il diritto di aborto nella nostra Carta costituzionale. 

Reazioni dall’estero

Una ipotesi tutt’altro che peregrina, del resto, dopo che il 4 marzo scorso questo diritto è stato introdotto nella Costituzione francese e dopo che il Parlamento europeo ha votato, l’11 aprile, a favore del suo inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Insomma, il diritto di aborto sembra avviato a diventare un patrimonio comune di civiltà a livello internazionale. 

Non stupisce, perciò, che, non solo nel nostro paese, ma anche all’estero l’emendamento riguardante i Consultori abbia suscitato proteste. La ministra spagnola della Parità, Ana Redondo, è intervenuta su X: «Consentire le molestie organizzate contro le donne che vogliono interrompere la loro gravidanza equivale a disconoscere un diritto riconosciuto dalla legge (…) per frenare l’uguaglianza tra donne e uomini».

Da Madrid si è fatta sentire anche Irene Montero, l’ex ministra a cui si deve la legge che, in Spagna, garantisce l’interruzione di gravidanza libera e sicura nelle strutture pubbliche a partire dai 16 anni: «L’aborto è un diritto fondamentale di tutte le donne, è un diritto umano, e fa parte del nostro diritto alla salute».

Le parole dello scandalo

A inasprire il dibattito, in Italia, sono venute poi le parole pronunciate da Incoronata Boccia, vicedirettrice del Tg1, alla trasmissione di Serena Bortone “Che sarà”.

Boccia – premettendo di rendersi conto che le sue erano «parole forti» – ha affermato che, pur «lungi dal giudicare le storie e le persone», è però necessario dire che sull’aborto come tale «stiamo scambiando un delitto per un diritto», definendo l’interruzione volontaria di gravidanza «un omicidio» e appellandosi a voci autorevoli della Chiesa cattolica come madre Teresa di Calcutta e papa Francesco.

Affermazioni che hanno scatenato l’immediata reazione delle opposizioni. Quelle di Boccia sono parole «inammissibili» e contro «l’autodeterminazione della donna», ha detto Alessandra Maiorino di M5s, e «sviliscono le conquiste delle donne disconoscendo una legge dello Stato», secondo Luna Zanella di AVS (Alleanza Verdi e Sinistra).

Ma, ancora una volta, la presa di posizione più dura è venuta dal PD, che le ha giudicate, con la senatrice ed ex presidente delle donne democratiche, Cecilia D’Elia, «inaccettabili». Ma non basta: secondo la capogruppo Dem alla Camera, Chiara Braga, si porrebbe a questo punto una domanda che «riguarda i vertici Rai», di cui, come vicedirettrice del Tg1, la Boccia fa parte: «Può ancora ricoprire quel ruolo chi offende le donne e le leggi?».

Una modalità inopportuna

Che cosa pensare di queste polemiche, in particolare quelle riguardanti l’emendamento appena approvato e il so rapporto con la legge 194? Dal punto di vista puramente formale, appare ragionevole la critica fatta da Mara Garfagna, presidente di Azione, riferendosi al fatto che la nuova normativa è passata grazie al voto di fiducia chiesto dal governo per il disegno di legge di conversione del decreto PNRR.

«Non fa onore alla politica avere inserito l’emendamento in silenzio dentro un provvedimento che serve a tutt’altro», ha rilevato la Garfagna. Da qui l’accusa, mossa alla destra dal capogruppo PD al Senato, Francesco Boccia, di aver compiuto «un blitz».

Da qui, soprattutto, l’equivoco che l’eventuale collaborazione delle associazioni del terzo settore ai Consultori comporti – come allarmisticamente qualcuno ha detto e molti hanno creduto – l’utilizzo dei soldi del PNRR, e sia dunque «a spese dei contribuenti», quando invece nel testo si escludono espressamente «nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato».

Una diversa procedura avrebbe forse potuto evitare questa ennesima gaffe, dopo le tante a cui questo governo ci ha abituato.

Che cosa dice la legge 194…

Ma il problema decisivo, ovviamente, è se l’introduzione della norma che prevede la possibilità, da parte dei Consultori familiari, di «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» sia compatibile o meno con la lettera e lo spirito della legge 194.

«Neppure la vecchia Dc, la Dc super cattolica di Giulio Andreotti che controfirmò la Legge 194 ignorando gli appelli dell’oltranzismo a dimettersi, aveva mai immaginato di consentire ai privati di intromettersi nel percorso accuratamente prescritto dalla norma», ha scritto Flavia Perina su «Repubblica».

Tuttavia, basta leggere il testo della legge per trovare, all’art.2, un disposizione che smentisce inequivocabilmente questa critica: «I consultori, vi si dice, «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

La Perina ha presente l’articolo, ma ritiene che esso ammetta «un unico intervento dell’associazionismo: a sostegno della maternità difficile “dopo la nascita” (e non prima della scelta)».

Evidentemente deve esserle sfuggito che il testo legislativo, dopo aver parlato della collaborazione delle associazioni private nei Consultori «per i fini previsti dalla legge» (che non riguardano solo la fase post-partum, ma proprio la fase della scelta), aggiunge solo successivamente che esse possono «anche» aiutare dopo la nascita. Dove la seconda cosa non esclude la prima («anche»).

Perciò, almeno in questo caso, ha ragione la ministra Eugenia Roccella a rispondere alle critiche nei confronti della normativa, facendo notare che «l’emendamento non fa altro che riprodurre alla lettera un articolo della legge sull’aborto in vigore da quarantasei anni». 

Resta da chiedersi perché, allora, sia stato necessario un nuovo intervento normativo. La spiegazione data dal governo e in moltissimi casi confermata dai fatti è che fin qui la legge è stata unilateralmente interpretata solo nella parte che legittima l’interruzione volontaria della gravidanza, come d’altronde dimostrano le innumerevoli prese di posizione che, nell’attuale dibattito, le attribuiscono il riconoscimento del “diritto di aborto”.

… E qual è il suo spirito

Ma è veramente questo lo spirito della legge 194? Ancora una volta basta leggere il testo per rispondere. Cominciamo dall’art. 1, dove si esordisce dicendo che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».

Esattamente al contrario della tesi oggi dominante, qui si esclude che il problema dell’interruzione della gravidanza si identifichi con quello della proprietà, da parte della donna, del proprio corpo, perché si ammette chiaramente l’esistenza di un soggetto umano che fin dall’inizio è presente e va tutelato. Al centro non c’è soltanto la donna, con i suoi diritti, ma la coppia madre-figlio («la maternità»).

Coerentemente con questo, all’art. 2 si precisa che il compito del Consultorio è di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».

Il punto cruciale non è l’aborto, ma il modo evitarlo. Per questo possono essere utili gli apporti delle associazioni del volontariato, che non a caso vengono menzionate in questo contesto.

La legge certamente prevede la possibilità di abortire. Ma lo fa non nella logica dell’autonomia della donna, bensì in quella, molto diversa, del riconoscimento delle drammatiche situazioni che possono spingerla a farlo.

Perciò, all’art.4, ci si riferisce esplicitamente alle «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Non una parola sul “diritto di aborto” come simbolo della libertà della donna e della sua giusta emancipazione.

Al contrario, all’art. 5, si dice che « il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

Questo dice la legge 194. Con i suoi numerosi punti deboli – in primo  luogo una certa vaghezza nell’indicazione dei controlli, che la espone a facili abusi – essa è però chiara nei criteri  di fondo. L’aborto, nella vita delle donne, è un dramma da soccorrere, non una bandiera da sventolare.

Esso comporta il doloroso sacrificio di una «vita umana» (art. 1) e l’intera società è chiamata a lottare perché la donna non vi sia costretta (art. 2). E la censura in TV, invocata per la Boccia – paradossalmente, dagli stessi che l’hanno condannata nel caso Scurati – , non è a difesa della legge in questione, ma di una ideologia che le è estranea.

*Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura. Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

 

SINODALITA' e GERARCHIA


 Il teologo Coda:

 “Sinodalità 

e gerarchia 

non sono 

in competizione”



Parla il teologo che ha relazionato sulla sinodalità all’ultimo Consiglio dei Cardinali. L’importanza dell’ascolto. 

L’atto sovversivo di mettersi in ascolto di Cristo

-di Andrea Gagliarducci


Mettersi in ascolto prima di tutto. Comprendere che sinodalità e gerarchia non sono in competizione, ma due realtà che in qualche modo si compensano e si aiutano. Lavorare sulla collaborazione e sul dialogo, e non sulla polarizzazione. Il teologo Piero Coda spiega così il senso della Chiesa sinodale voluta da Papa Francesco.

Coda è stato uno dei relatori dell’ultimo Consiglio dei Cardinali, che si è tenuto lo scorso 15-16 aprile, e in particolare ha curato la sessione in cui si è riflettuto sul sinodo in corso insieme al Cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Ma monsignor Coda era anche il membro della sottocommissione della Commissione Teologica Internazionale che ha lavorato all’importante documento sulla sinodalità licenziato nel 2018, i cui temi sono stati poi sviluppati nell’attuale sessione del Sinodo.

In questa intervista con ACI Stampa, Monsignor Coda ha affrontato alcuni dei temi di cui si è discusso al Consiglio dei Cardinali.

Quali sono le priorità di una Chiesa sinodale e in che modo le ha descritte al Consiglio dei Cardinali?

La priorità o meglio la “conditio sine qua non” è l’ascolto di ciò che lo Spirito Santo oggi dice alla Chiesa. Per testimoniare e annunciare il Vangelo di Gesù a tutti, in tutti i contesti e in tutte le situazioni, in questo momento drammatico e sfidante della storia. La promozione della figura e della dinamica sinodale della Chiesa ha lo scopo di manifestarne e promuoverne in modo credibile e incisivo la missione. Va privilegiato ciò che risulta più efficace in ordine all’annuncio del Vangelo, trovando il coraggio di abbandonare ciò che si rivela meno utile o persino di ostacolo.

In che modo questo meccanismo aiuta?

È questa spinta missionaria a garantire che il processo sinodale non si risolva in un esercizio attraverso cui la Chiesa si guarda allo specchio e si preoccupa dei propri equilibri, ma si proietta con slancio e amore verso l’umanità nella responsabilità per la casa comune, chiedendo a ciascun membro del Popolo di Dio di offrire il proprio insostituibile contributo. Tenendo conto – con maggiore consapevolezza e determinazione di quanto si è fatto nella prima sessione della XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, lo scorso ottobre – che l’impegno culturale, sociale, economico e politico è dimensione irrinunciabile della missione del popolo di Dio, nella prospettiva disegnata nel Vaticano II dalla Gaudium et spes e nel magistero sociale. In fondo, si tratta di assumere l’impegno che San Giovanni Paolo II ci ha indicato come decisivo, per la Chiesa, nell’affrontare il mare aperto del terzo millennio: “duc in altum, prendi il largo”, impegno a cui Benedetto XVI c’invitava descrivendo il ruolo dei cristiani nel mondo come “minoranza creativa”.

Il documento della Commissione Teologica Internazionale del 2018 chiedeva anche una riforma delle strutture della Chiesa. In che modo questa riforma può essere applicata alla Curia romana?

Il documento della CTI è un documento importante: non solo perché è il primo che offre un quadro approfondito e articolato del “chi è?” e del “come va?” una Chiesa sinodale, ma anche perché costituisce un punto di riferimento autorevole per il processo sinodale in atto, come è emerso da più voci durante la celebrazione della prima sessione. Circa la specifica domanda che mi pone c’è da sottolineare che nel capitolo terzo, dedicato alla “attuazione della sinodalità”, dopo aver descritto “la vocazione sinodale del popolo di Dio”, il documento esamina l’esercizio della sinodalità rispettivamente nelle singole Chiese particolari, nelle Chiese particolari a livello regionale e nella Chiesa universale. E ciò in conformità alla tradizione maturata lungo i secoli sino a giungere al Vaticano II.

Cosa viene proposto?

In tal modo viene proposta una recezione creativa di “ciò che è attualmente previsto dall’ordinamento canonico per evidenziarne il significato e le potenzialità e darvi nuovo impulso, discernendo al contempo le prospettive teologiche di un suo pertinente sviluppo” (n. 71). L’assemblea del Sinodo dei Vescovi, la cui seconda sessione sarà celebrata l’ottobre prossimo, si muove in questa direzione. Tenendo conto del fatto che, nel frattempo, sono state promulgate la Costituzione apostolica sul Sinodo dei Vescovi Episcopalis communio, nel 2018, e la Costituzione apostolica sulla riforma della Curia Romana Praedicate evangelium, nel 2022.

Città del Vaticano  (ACI Stampa).

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giovedì 25 aprile 2024

ELOGIO DELL'INCONSCIO

 L’ultima opera di Recalcati, “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio”, riflette sul ruolo della psicanalisi, indebolito dallo sviluppo delle neuroscienze e degli psicofarmaci, ma che rimane un antidoto contro la disumanizzazione della modernità

-         di Massimo Recalcati

Il destino dell’inconscio sarà eguale a quello dei dinosauri? Po­trebbe, l’inconscio, andare incontro a una fatale estinzione? E la psicoanalisi? Non è forse oggi minacciata davvero dal rischio di scomparire per sempre? E gli psicoanalisti? Quale sarebbe la loro responsabilità per questa estinzione? Insomma, quale sarà l’av­venire della psicoanalisi nella nostra civiltà? Quale sarà, cioè, la possibilità per il soggetto dell’inconscio di continuare a esistere?

Pongo queste domande in una forma volutamente estrema e pa­radossale – inutile ricordare che tra un dinosauro e l’inconscio pas­sa una certa differenza –, per andare immediatamente al contenuto di questo libro. Si tratta dell’elogio appassionato di uno psicoanali­sta nei confronti di quel particolare oggetto – l’inconscio – che og­getto non è, nel senso che non risponde alla nozione empirica di oggetto, e che costituisce il centro dell’attività teorica e clinica del­la psicoanalisi.

È vero, in questi due ultimi decenni la stella della psicoanalisi, che ha conosciuto il suo massimo splendore dopo la contestazione del Sessantotto, negli anni Settanta-Ottanta, sembra davvero destinata a un avvenire piuttosto incerto. La comparsa di psicofar­maci sempre più potenti ed efficaci nel trattamento della sofferenza cosiddetta «mentale», la diffusione delle terapie cognitivo-compor­tamentali, i progressi delle neuroscienze, l’invasione di una cultura psicologica generica sono solo alcuni tra i fenomeni che sembrano condannare la psicoanalisi a non essere altro che un residuo d’ar­chivio dell’Ottocento.

Questo libro vuole invece ricordare che la psicoanalisi è più che una terapia, e che la sua difesa non è solo una difesa corporativa di un ceto professionale in crisi. La difesa della psicoanalisi è la di­fesa di un’etica della responsabilità e di una teoria critica della so­cietà di cui ancora oggi abbiamo un grande bisogno. Tale è, molto in sintesi, la posta in gioco di questo piccolo libro: elogiare gli ele­menti a mio giudizio cruciali dell’esperienza analitica, difendere la sua causa, che non è solo la causa della psicoanalisi in senso stret­to, ma coinvolge anche una intera concezione dell’uomo che si so­stiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particola­re e incommensurabile del desiderio soggettivo.

 Agli interrogativi sull’estinzione della psicoanalisi e del suo og­getto, nel libro se ne aggiungono altri che sono relativi agli effet­ti di questa eventuale estinzione. Quale genere di catastrofe antro­pologica comporterebbe l’estinzione dell’inconscio? O, in termini meno enfatici e meno drammatici, cosa sarebbe, cosa diventereb­be un uomo senza inconscio? Di fronte a quale forma di mutazio­ne mentale ci ritroveremmo? Che cosa sarebbe un uomo, o, se vo­lete, più radicalmente, l’uomo, se l’inconscio si estinguesse? Forse potremmo trovare le sue versioni più terribili e tristi nelle figure del tiranno o del burocrate? O in quella più efficiente e disumana della macchina?

Il tiranno, il burocrate e la macchina hanno, in effetti, in comune l’assenza di desiderio. Forse un uomo senza inconscio sa­rebbe davvero l’incarnazione di un uomo grigio incapace di sogno, dunque di desiderio. Un uomo senza inconscio sarebbe l’uomo ri­dotto a una macchina senza desiderio? Non c’è, in effetti, per la psi­coanalisi malattia più terribile che questa: vivere senza avere acces­so al proprio desiderio.

Il compito della psicoanalisi e, soprattutto, degli psicoanalisti è innanzitutto quello di difendere l’esistenza dell’inconscio da ciò che ne minaccia l’estinzione. Lo psicoanalista, secondo Lacan, fa parte del concetto di inconscio, nel senso che permette al soggetto di fare esperienza dell’inconscio, del suo inconscio. Non si tratta semplicemente di difendere l’esistenza della psicoanalisi, ma quella dell’inconscio come indice del carattere irriducibile della parti­colarità del soggetto che invece lo scientismo contemporaneo vorrebbe poter liquidare.

 

“Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore), Massimo Recalcati, 2024, pp. 144, € 17,50

LA PREGHIERA DI GESU'




- di P. Giuseppe Oddone



 Premessa

Il terzo sussidio presentato dal Dicastero per l’evangelizzazione, pubblicato sempre dalla Libreria editrice vaticana, per aiutarci a vivere questo anno di preghiera, ha il titolo “La preghiera di Gesù”.

E’ stato scritto da Juan López Vergara, biblista messicano, docente all’Instituto Bíblico Católico di Guadalajara. La tesi di fondo è questa: “Un desiderio profondo abitava Gesù: è essenziale per lui essere con il suo Abbà. La sua preghiera è incessante ed instancabile”.

L’autore, con una operazione per alcuni aspetti soggettiva e anche discutibile, trasforma in preghiera venti episodi significativi del Vangelo. Entra nel cuore di Gesù di Nazareth, rivive il mistero della sua filiazione unica, dal Battesimo alla sua morte in croce, e dopo una breve presentazione del passo evangelico e la sua trascrizione immagina di ricostruire l’orazione che fiorisce sulle labbra di Gesù rivolta al Padre, il suo Abbà. Lo fa anche con un tocco di poesia e di psicanalisi, perché nella sua preghiera Gesù rivive anche alcuni aspetti della sua infanzia, in particolare col suo papà terreno Giuseppe e con sua madre Maria.

L’autocoscienza di Gesù

Occorre tuttavia tener presente quanto il magistero ordinario della Chiesa, facendo riferimento alla predicazione degli Apostoli, ai Vangeli Sinottici, ed al Vangelo di Giovanni ha precisato sull’autocoscienza di Gesù. Si può riassumere in quattro affermazioni: Gesù aveva coscienza di essere il figlio unico di Dio ed in questo senso di essere egli stesso Dio; Gesù aveva chiaro lo scopo della sua missione di Messia: annunciare il regno di Dio e renderlo presente nella sua persona; Gesù era consapevole di fondare la “sua” Chiesa, costituita poi in modo definitivo negli avvenimenti della Pasqua e della Pentecoste, per continuare la sua missione; Gesù sapeva di morire per tutti e non escludeva nessuno dal suo disegno di salvezza. Ciò non toglie tuttavia che l’autocoscienza di Gesù abbia avuto un suo sviluppo, perché egli è completamente uomo con un corpo, un’anima, una volontà umana, dei sentimenti, delle reazioni alle persone ed agli avvenimenti imprevisti che via via la vita gli presenta.

Il Vangelo è esplicito su questo punto: “Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio ed agli uomini” (Lc. 2.52).

Il ricordo di Giuseppe

La crescita di Gesù in sapienza, in grazia, in consapevolezza umana della sua realtà e missione di Figlio di Dio è la linea scelta dall’autore. Nel ricostruire i sentimenti e la preghiera di Gesù riaffiora spesso il ricordo dei suoi genitori terreni. Così dopo l’incontro di Gesù con i suoi compaesani a Nazareth, egli prega così: “Abbà, ogni sabato il custode permetteva a mio padre di avvicinarsi ai rotoli sacri. Egli li baciava con riverente pietà. Pieno di ricordi mi ritrovai a piegare a posare la mia testolina sul suo petto. In uno slancio spontaneo mi baciò ed abbracciò la fronte con la stessa riverenza con cui baciava i rotoli sacri. In quell’eterno istante ho sentito il mio essere risplendere della sacralità del mistero. Sì, era un uomo semplice, con la gloria degli umili, convinto che la vita è bella e vale la pena di essere vissuta… Il sentimento dominante verso di lui, che abita il mio essere fin dall’infanzia, è intriso di enorme gratitudine, caro Abbà” (pag. 35).

Il ricordo più intenso di Giuseppe riemerge quando Gesù eleva al suo Abbà la preghiera dopo aver insegnato ai discepoli il Padre nostro, quasi un’eco delle preghiere che egli aveva imparato nella sua casa di Nazareth: “Mio padre aveva un carattere piacevole, ma solenne. Irradiava pace, Abbà… aveva l’anima rivolta verso di te. Quanta fiducia aveva nella tua amorevole bontà… ho mantenuto un profondo affetto per lui. C’è un motivo di gioia ancora più grande: lui custodiva un mistero, che io percepivo instaurarsi nella sua anima alla fine della giornata, quando credendo che dormissi veniva presso il mio letto a darmi un ultimo bacio e, non senza alzare gli occhi a te, pronunciava una preghiera… Mi ha insegnato che senza fiducia non si può vivere.

La fiducia è comunione. E quella immensa fede aperta alla tua immensità è una delle benedizioni più dolci che ho ricevuto da te, Abbà, attraverso papà, che ricordo con una ammirazione sempre rinnovata” (pag.61-62). E anche quando Gesù eleva la preghiera dopo aver raccontato la parabola del Padre misericordioso e del figliol prodigo, riaffiora il ricordo di Giuseppe, quasi una proiezione del padre della parabola: “Nella mia adolescenza, di fronte alle richieste di mia madre, mentre ero a Gerusalemme per la Pasqua, le espressi il mio incontro con Te in mezzo ai maestri… Quando mi riferii a te come mio Padre, guardai Giuseppe e gli sorrisi. Lui abbassò la testa con gli occhi bagnati di lacrime. Questa reliquia di infanzia mi ha segnato, potrei chiamarti così senza il suo esempio, Abbà? Sempre sensibile alle tue benedizioni, mi diceva di ringraziarti perché sei buono, perché il tuo amore è eterno. Lui e mia madre mi hanno insegnato a fare della mia vita una preghiera di gratitudine” (pag. 116).

Il ricordo di Maria Anche il ricordo di Maria ritorna nelle preghiere che Gesù eleva al suo Abbà. Mentre Gesù è tentato da Satana, il pensiero rivolto a sua madre gli fa superare la prova e gli testimonia che Lui stesso è la Parola: “Si trattava della mia santa madre che, all’alba di un giorno luminoso, con amorosa sollecitudine contemplativa gustava il mistero della tua Parola. Sembrava che la sua anima fosse sempre in preghiera. Lei aveva fissato i suoi occhi nei miei, facendomi capire che la tua Parola aveva un nome. Questo lo doveva aver sperimentato con grande forza, al punto di sentirsi figlia del suo Figlio” (pag. 25-26). A Cana di Galilea Gesù compie il primo dei suoi prodigi; non era tuttavia nei suoi programmi, tanto che egli sembra inizialmente respingere sua madre. Ma è determinante l’incoraggiamento di Maria con il suo sguardo materno, come se gli dicesse: “Vai, è il tuo momento! Lo devi fare!”. Ella dilata l’anima di Gesù ed accelera l’inizio del Vangelo, manifesta la gloria del Figlio e suscita la fede dei discepoli. “Le sue parole, Abbà, non si adattavano al mio piano di vita! Lei, impregnata di tenerezza che sgorga dal suo cuore puro ed umile, fece finta di nulla ed ordinò ai servi di fare ciò che io avrei detto loro. E, nonostante che il progetto fosse turbato, Abbà, ho sentito un raggio di luce percepibile che circolava tra le parole di mia madre….

Abbà, la mia anima si è dilatata. Ho ricevuto una lezione dalla mia santissima madre. Lei è sempre rimasta colma della tua grazia e sorpresa dalla tua parola” (pag. 41-42). Il pensiero di Maria riemerge quando Gesù è inchiodato alla croce e promette al buon ladrone il paradiso. In quel momento Gesù percepisce e comprende pienamente il mistero della sua identità di Figlio di Dio, ricordando il ritorno dei suoi genitori a Nazaret dopo il suo ritrovamento nel tempio. “Un ricordo mi ha segnato, Abbà… Giuseppe fece capire a mia madre che il mio comportamento lo aveva sorpreso. La mamma in un lampo di chiaroveggenza rispose che, se ero un mistero per lui, lo ero ancora di più per lei, e ancora di più per me stesso, che portavo un mistero impossibile da condividere. Questo mistero che mi dà un chiaro senso di identità, finalmente lo capisco, mentre prometto a questo buon malfattore pentito che oggi sarà con me in paradiso” (pag. 141).

L’autore del sussidio “La preghiera di Gesù” si abbandona anche a desideri e a ipotesi personali, non condivise da tutti o per lo meno incerte, non oggetto di fede. Gesù sulla croce prega per la salvezza eterna di Giuda e viene esaudito nel ricordo delle parole di Maria: “Nulla è impossibile a Dio”. Gesù stesso sulla croce ha un dubbio e si chiede se l’inferno non sia vuoto: “Abbà, non ho mai negato l’esistenza dell’Ade, il luogo della punizione eterna, ma ci sarà qualcuno lì dentro?” (pag.135). Ma la concreta possibilità di finire nell’inferno ossia nella lontananza eterna da Dio è chiaramente proclamata nel Vangelo: ”Lontano da me!” (Mt. 25,41).

Nella nostra libertà noi possiamo costruirci orientandoci verso Dio o separandoci da Lui: in questa libertà vi è la grandezza e la dignità della persona umana che deve compiere nella vita delle scelte che riguardano il suo eterno destino. Dio chiama tutti alla salvezza, ma non costringe nessuno; Lui solo sarà il nostro giudice e salvatore e noi non possiamo dire con certezza di nessuno, nemmeno di Giuda, che è dannato. 

L’unione di Gesù con il suo Abbà

Nei venti episodi evangelici presentati dall’autore si riafferma sempre l’unione incessante di Gesù con il suo Padre celeste: è l’esperienza unica della paternità di Dio, è il centro della vita di Gesù, la fonte della sua esistenza, la sua essenza più intima, la luce della sua missione, la lampada per i suoi passi nei vari casi lieti o tristi, sia quando è acclamato ed accolto, come quando è rifiutato e condannato a morte. La preghiera è per Gesù una ricerca costante della volontà di Dio, percepita nello Spirito, una realtà che si apre al mistero trinitario per il Figlio che si è fatto uomo, ma continua a riposare nel seno del Padre. Nella tentazione del deserto, dopo quaranta giorni di contatto con il suo Abbà, Gesù è la Parola che fa riferimento alla parola divina che lo ha preceduto nelle scritture, di cui continua a nutrirsi la sua vita. La preghiera riempie la sua solitudine nelle notti trascorse in contatto con Dio, la sua attività nel contatto con la gente e la proclamazione del Vangelo. “Non voglio dimenticare l’esperienza fondamentale della mia vita: essere tuo Figlio” (pag. 54): un’esperienza sempre approfondita nel corso della sua vita terrena, anche nelle esigenze che comporta per i suoi discepoli, che devono amare Lui al di sopra di tutto, più del padre e della madre. La preghiera di Gesù si rivela pertanto divina come la sua obbedienza al Padre.

Davanti al volto del Padre si erge il volto divino di Gesù; Egli è Figlio suo come nessun uomo può esserlo: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt, 11,27). Noi siamo figli di Dio per grazia, Gesù lo è per natura, ma Egli rimane sempre il modello della nostra preghiera. La preghiera di Gesù si riempie anche di tanti sentimenti umani: di gratitudine, di stupore per il mistero della sua persona, di fiducia nella Provvidenza divina, di commozione per le sofferenze umane, di tenerezza e di amore per i suoi discepoli, per i poveri, per gli ultimi, di sensibilità per la bellezza del creato, di giubilo quando il Padre si rivela ai piccoli.

Ad un certo punto del suo ministero, dopo la confessione di Pietro che riconosce che Gesù è il Cristo, Egli intuisce che è venuto il tempo di offrire la propria vita, di andare a Gerusalemme per affrontare la sua passione, morte e risurrezione e fa questo discorso apertamente: di qui in avanti la preghiera di Gesù si colora di abbandono senza riserve alla volontà del Padre, di luce nell’episodio della trasfigurazione con la certezza della gloria futura, ma anche di gemiti e di lacrime perché passi da Lui questo calice di sofferenza.

Infine, pregando e morendo sulla croce Gesù consegna il suo spirito nelle mani del Padre. Questa è, secondo l’autore, la preghiera conclusiva di Gesù, che sottolinea anche la prospettiva con cui è ricostruita la sua vicenda terrena: “Abbà, ho fatto la tua volontà in ogni momento della mia vita, sono cresciuto alla luce della tua grazia ed ho raggiunto la perfezione. Ora che tutto si è compiuto, so che hai ascoltato la mia preghiera. Una pace mi assale nel dolore più cruento; non mi resta che dirti, Abbà, dall’inizio e dalla perfezione della fede, in una visione del Tutto, che un sentimento eterno mi rivela che nessuno mi sta togliendo la vita, così chino il capo e ti do il mio spirito. Grazie, Abbà per ascoltarmi” (pag. 145-146).

Osservazioni conclusive

L’impostazione dell’autore riflette l’interesse attuale di biblisti e teologi per l’autocoscienza di Gesù di Nazaret; Egli rivela un rapporto unico e speciale con il Padre, ma poiché la sua vicenda è stata anche totalmente umana Egli progredisce sia nella conoscenza della realtà esterna sia in una sempre maggiore e più chiara autocoscienza di essere figlio di Dio, Messia, fondatore della Chiesa, salvatore di tutti gli uomini. In questo senso l’autore parla spesso della fede soggettiva di Gesù, ancora oggi oggetto di discussione, interpretata come affidamento al Padre, fedeltà, obbedienza, dedizione totale alla sua volontà: un aspetto della fede ricevuto da Giuseppe e da Maria, vissuta da Gesù e da Lui proposta a tutti i suoi discepoli. Il mistero del Figlio di Dio che si fa uomo e che possiede in modo perfetto sia la natura divina che quella umana rimane uno dei misteri più grandi, più belli, più coinvolgenti della nostra fede.

Il nostro poeta Dante conclude il suo cammino verso Dio proprio contemplando come nel cerchio divino riflesso, ossia nel Verbo, nella seconda persona della Santissima Trinità, appaia con chiarezza la figura di un uomo, del Figlio di Maria, crocifisso e risorto, verso cui ha orientato il suo sguardo, tutta la tensione della sua intelligenza e del suo cuore. Egli cerca di capire come un uomo possa essere dentro il mistero trinitario, del colore stesso di Dio. Si chiede come può adattarsi la natura umana ad una persona divina, come vi possa trovare spazio. Nonostante tutti i suoi sforzi non riesce a raggiungere il mistero.

Solo la folgorazione della grazia divina realizza il suo desiderio di conoscenza e di amore: “Veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’ indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne”. (Par. XXXIII, 137-141) 

Parafrasando: volevo comprendere come l’immagine di un uomo (di Gesù) si adattasse al cerchio divino (la persona del Figlio) e come potesse trovare posto in esso; ma le mie capacità non erano adeguate per questo; ma ecco che la mia mente fu colpita da una folgorazione di grazia che realizzò il mio desiderio di conoscenza, di amore, di pace. Nell’accostarci a Cristo, nel rivivere la sua preghiera, solo il “fulgore” della grazia che penetra in noi può veramente saziare la nostra “voglia” di partecipazione e di unione alla vita del Figlio di Dio fatto uomo.

P. Giuseppe Oddone