venerdì 12 settembre 2025

UN GENOCIDIO ?!

 

Finalmente qualcuno dice la verità, ma il qualcuno non è uno qualunque: «Riconosco un genocidio quando lo vedo». Con queste parole, Omer Bartov – professore di Studi sull’Olocausto e sul genocidio alla Brown University – ha rotto un silenzio che per mesi ha tenuto in ostaggio gran parte della comunità accademica, culturale e istituzionale dell’Occidente.

- di FEDERICO LIBERTI (Da “Compagno è il mondo”)

Lo ha fatto con un lungo saggio sul New York Times, pubblicato il 14 luglio 2025, che segna un punto di svolta nella ricezione pubblica del massacro in corso a Gaza. Perché Bartov, israeliano di nascita, già ufficiale dell’IDF, sionista nella formazione familiare, non è solo un esperto autorevole: è il testimone di una frattura epistemologica e morale. Scrive: «Essendo cresciuto in una casa sionista, ho vissuto la prima metà della mia vita in Israele, ho servito nell’IDF come soldato e ufficiale, e ho trascorso gran parte della mia carriera a fare ricerche e scrivere sui crimini di guerra e sull’Olocausto, questa è stata una conclusione dolorosa da raggiungere… Ma io insegno lezioni sul genocidio da un quarto di secolo. Ne riconosco uno quando ne vedo uno».

A differenza di chi brandisce con leggerezza l’accusa di genocidio come arma retorica, Bartov aderisce alla definizione rigorosa fornita dalla Convenzione ONU del 1948: il genocidio si configura laddove vi sia «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Due, dunque, sono i criteri: l’intenzione e la messa in atto. Entrambi, nel caso israeliano, risultano documentati.

«Tale intento», scrive Bartov, «è stato espresso pubblicamente da numerosi funzionari e leader. Ma l’intento può anche derivare da uno schema di operazioni sul campo, e questo schema è diventato chiaro a maggio 2024 e da allora è diventato sempre più chiaro poiché l’IDF ha sistematicamente distrutto la Striscia di Gaza».

La strategia della distruzione totale

Secondo i dati raccolti, oltre il 70 per cento delle strutture di Gaza è stato distrutto o danneggiato. La stima dei morti supera i 58.000, di cui almeno 17.000 bambini. Oltre 2.000 famiglie sono state completamente cancellate. Gaza detiene oggi un primato grottesco:  stato distrutto o danneggiato. Gaza detiene oggi un primato grottesco: quello del più alto numero di bambini amputati per abitante del mondo».

Ma non è solo la distruzione materiale a essere sotto accusa. È il piano che guida la demolizione. Dopo la rottura del cessate il fuoco il 18 marzo, l’IDF ha concentrato la popolazione in tre aree del sud: Gaza City, i campi profughi centrali e la zona costiera di Mawasi. L’obiettivo, sostiene Bartov, è «rendere inabitabile la Striscia di Gaza per la popolazione palestinese, costringerla a fuggire o, non avendo dove andare, annientarne la capacità di esistenza collettiva».

È una definizione che non lascia ambiguità: «L’IDF è impegnata principalmente in un’operazione di demolizione e pulizia etnica». Un tentativo deliberato di spostamento forzato di popolazione, bombardamenti ripetuti di zone dichiarate “sicure”, fame come strumento di controllo, e infine la costruzione, parole del ministro della Difesa Israel Katz, di una “città umanitaria” sulle macerie di Rafah per 600.000 persone, a cui non sarà permesso di andarsene.

Bartov lo dice con chiarezza: «Quando un gruppo etnico non ha nessun posto dove andare e viene costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all’altra, bombardato e affamato senza sosta, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio. Questo è avvenuto in diversi genocidi del XX secolo, dagli Herero in Namibia agli armeni nella Prima Guerra Mondiale, fino all’Olocausto».

Il collasso della memoria dell’Olocausto

Ma il cuore del saggio di Bartov, e la sua gravità filosofica, stanno in una riflessione devastante sul fallimento della cultura della memoria. Le istituzioni nate per commemorare la Shoah, scrive, «sono rimaste in silenzio. Nessuna ha lanciato un avvertimento che Israele potrebbe essere accusato di crimini contro l’umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha fatto beffe dello slogan ‘Mai più’».

Così, il riferimento all’Olocausto si è trasformato da monito universale a giustificazione etnica. Il genocidio diventa irrilevante se perpetrato in nome della propria sopravvivenza. La memoria si piega a ideologia: «Il rischio, conclude Bartov, è che dopo Gaza non sarà più possibile insegnare e studiare l’Olocausto come si faceva prima».

Bartov è impietoso: «Quando coloro che hanno dedicato la loro vita a insegnare l’Olocausto rifiutano di denunciare la disumanità ovunque essa si manifesti, essi minano tutto ciò per cui la ricerca e la commemorazione dell’Olocausto hanno lottato: la dignità di ogni essere umano, il rispetto del diritto, la necessità di opporsi all’odio».

La faglia tra studiosi dell’Olocausto e studiosi di genocidio

Questa catastrofe ha generato una frattura irreparabile anche all’interno del mondo accademico. Da un lato, una schiera crescente di studiosi di genocidio, tra cui Francesca Albanese, Raz Segal, William Schabas, Melanie O’Brien, che descrivono l’operazione israeliana a Gaza come «genocidio assoluto». Dall’altro, storici della Shoah come Norman Goda e Jeffrey Herf, che denunciano queste affermazioni come «calunnie antisemite».

Scrive Bartov: «Discreditare gli studiosi di genocidio che denunciano Gaza come genocidio mina le basi stesse di questi studi: la necessità permanente di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio».

Il futuro d’Israele e il tramonto della sua autorità morale

La conclusione è amara. Israele, nato come risposta alla Shoah, sta cancellando con le proprie mani il credito morale faticosamente accumulato nel secolo scorso. «La leadership politica e la cittadinanza israeliana», scrive Bartov, «dovranno decidere se continuare su questa strada disastrosa. Temo che Israele stia trasformandosi in uno stato d’apartheid autoritario pienamente realizzato. E questi stati, la storia lo insegna, non durano».

L’unica possibilità, remota ma salvifica, è che una nuova generazione di israeliani impari a vivere «non più all’ombra dell’Olocausto come giustificazione dell’umanità perduta», ma guardando in faccia la realtà: sette milioni di ebrei e sette milioni di palestinesi condividono la stessa terra. Pace, uguaglianza e dignità sono l’unico esito possibile per un futuro che non sia costruito sul sangue.

In questa prospettiva, conclude Bartov, «Israele dovrà imparare a vivere senza ricorrere all’Olocausto per giustificare l’inhumanitas.

Questo non riparerà il dolore inflitto a Gaza. Ma potrebbe, forse, restituire all’umanità intera un barlume di giustizia».

 www.tuttavia.eu


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