che
DIVENTA REALTA'
Nel
titolo della bolla di indizione dell’anno giubilare («Spes non confundit»)
l’intuizione dell’Apostolo indica il cuore della vita cristiana
Sul tema scelto dal Papa come cuore del prossimo Giubileo l’ultimo articolo di don Antonio Pitta, il grande biblista morto prematuramente il 1° ottobre: un saggio di esegesi paolina che ci introduce all’Anno Santo
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di ANTONIO PITTA
La morte improvvisa di don Antonio Pitta a Roma il 1° ottobre, a 65 anni, ha dolorosamente privato gli studi scritturistici di un autore sensibile, comunicativo (in libreria è il suo «Paolo e l’evangelo della speranza», San Paolo), apprezzatissimo sia in ambito accademico sia dagli studenti (insegnava Esegesi del Nuovo Testamento alla Lateranense), ma anche la comunità di Avvenire di una firma seguita e amata grazie ai suoi numerosi scritti su queste pagine, per anni. I funerali di don Antonio, che era presidente dell’Associazione biblica italiana, sono stati celebrati ieri nella Cattedrale di Lucera, sua città natale, dal vescovo Giuseppe Giuliano. Quello che pubblichiamo è l’ultimo articolo che ci aveva inviato già pensando a una più ampia riflessione sulla speranza, grande tema del Giubileo, che ora per lui è divenuta certezza di vita eterna.
«La speranza non delude» ( Spes non confundit) è il titolo scelto da papa Francesco con la bolla d’indizione per il Giubileo del 2025. La citazione è tratta da uno dei passi più affascinanti della Lettera ai Romani: «La speranza non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
Quando Paolo invia la Lettera ai Romani (metà del I secolo d.C.) Cesare Augusto aveva già ripristinato il culto per la dea della Speranza, al centro dell’impero presso il foro Olitorio a Roma. Alcune colonne dell’antico tempio sono tuttora visibili al lato esterno della chiesa di San Nicola in Carcere, a pochi passi dall’Altare della Patria. Alla dea che personifica la speranza, con la dea della pace e dell’abbondanza, si contrappone il Dio della speranza. Non una divinità che raffigura la speranza, ma il Dio che dona la speranza affinché ricolmi i credenti di ogni gioia e pace, mediante la potenza dello Spirito. D alla lettera della speranza (1 Tessalonciesi) al testamento della speranza (2 Timoteo), passando per l’apice della speranza (Romani), il motivo attraversa tutte le lettere di Paolo. Salvifica perché «nella speranza si è stati salvati». Prima di essere virtù, la speranza è evento salvifico per ogni persona umana, nella sua integrità. Non soltanto salvezza; anche salute e sanità per quanti sono raggiunti dall’amore di Dio, per mezzo dello Spirito. Con lo stile che lo contraddistingue, l’assioma della speranza può essere reso come segue. Mentre i greci cercano una speranza senza paura e i giudei una speranza che realizzi le promesse, Gesù Cristo morto e risorto è la nostra speranza.
Paragonata alla catena che vincola il prigioniero al soldato, «la speranza tiene al seguito la paura» (Seneca, Lettere a Lucilio 5,7). Per questo, lo stoico ideale è chi «sa vivere senza speranza e senza paura» (Seneca, La fermezza del saggio 9,2). Contro una speranza inseparabile dalla paura e una bandita dagli stoici, quella salvifica inizia quando lo Spirito è riversato nel cuore umano. Dio ci ha creati per questo e ha posto in noi la caparra dello Spirito: è una delle metafore più ardite sulla speranza. In quanto caparra, lo Spirito è dato a tutti, senza distinzioni, creati affinché l’anticipo sia saldato nell’incontro finale. L’utopia per la speranza promessa diventa realtà con lo Spirito: egli attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. Poiché è dato a tutti in anticipo, lo Spirito è la promessa realizzata per quanti restano saldi nella speranza. Mentre lo Spirito è dato a tutti, chiamati a essere conformi all’immagine del Figlio, i credenti sono nello Spirito formando la Chiesa, suo corpo. A scanso di esiti scontati, l’evangelo della speranza è attraversato dal paradosso. Modello della speranza paradossale è Abramo: credette nella speranza contro la speranza. Abramo è, nello stesso tempo, padre della fede e della speranza perché, messo alla prova, non è venuto meno alla fede in Colui che risuscita i morti ed è diventato padre di tutte le nazioni. Tutte le religioni, soprattutto l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, trovano in Abramo il padre della fede e della speranza. Il paradosso prosegue con chi, saldo nella speranza, si vanta nella tribolazione, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la virtù provata e la virtù provata la speranza. Le metafore della tenda e della dimora celeste rendono visibile il paradosso della speranza. Si è tutti come Abramo, in esilio verso la definitiva dimora. Per contemplare il paradosso della speranza bisogna transitare da ciò che è visibile a ciò che è invisibile perché le realtà visibili sono transitorie, quelle invisibili sono eterne. « La redenzione è l’invisibile, l’irraggiungibile, l’impossibile, che c’incontra come speranza» (Karl Barth, Romani). La speranza così intesa non è «il sogno di uno sveglio» (Diogene Laerzio), ma è contemplare l’essenziale, invisibile agli occhi. P oiché si è stati salvati nella speranza, si è protesi verso la mèta. Nell’epoca del viandante, di chi viaggia senza mèta, la speranza è correre verso il traguardo, andare incontro al Signore che viene e scioglie le vele in mare. La metafora della corsa raggiunge l’epilogo con la corona incorruttibile, riservata ai partecipanti delle gare agonistiche. Intanto ogni giorno si va incontro al Signore che viene come lo Sposo atteso dalla Sposa, vergine casta per Cristo. Sperare è intraprendere il viaggio in mare, quando bisogna sciogliere le vele e percorrere la rotta verso il porto sicuro dell’incontro. Le metafore della corsa, delle vele spiegate e dell’incontro con lo Sposo sono il tratto più sorprendente dell’evangelo della speranza. Quel che più conta non è dove si andrà (Paradiso, Purgatorio, Inferno), ma con chi si sarà: transitare dall’essere in Cristo, per la fede, al restare per sempre con lui, oltre la soglia.
Quando è autentica, la speranza è condivisa fra quanti partecipano alla stessa umanità. Il mito di Narciso ripercorre la condizione di chi «s’innamora di una speranza senza corpo, pensando che sia corpo ciò che altro non è che un’onda» (Ovidio, Metamorfosi 3,417). Quando è reale la speranza è condivisa, al punto che gli altri diventano «la nostra speranza, la nostra gioia e la corona di vanto». Non la gioia epidermica di chi non riesce a stare solo bensì quella della creazione che geme e soffre nell’attesa di essere liberata dalla corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio. Allora i gemiti della creazione, compresi coloro che non credono, si uniscono a quelli dei credenti che attendono il compimento della propria filiazione divina. Per scardinare una visione narcisista della speranza, tipica del nostro tempo, lo Spirito viene in aiuto di ogni debolezza umana, trasfor-mandola in potenza. L’ incontro tra lo Spirito di Dio e lo spirito (o il respiro) umano è la speranza. Poiché “ vivere militare est” (vivere è combattere), la speranza è l’elmo che protegge il capo, la parte più importante del corpo. Non una guerra materiale, bensì una battaglia interiore è la condizione umana, sostenuti dalla corazza della fede e dell’amore e dall’elmo della speranza. Oltre a essere caparra, la speranza è elargizione o sostegno economico per la rappresentazione di opere pubbliche, a cui tutti partecipano. Metamorfosi della propria immagine che, giorno per giorno, si riflette come in uno specchio è la speranza. Intanto si vede in modo confuso, come in uno specchio; allora si vedrà faccia a faccia, quando lo Spirito «squarcerà il velo per il dolce incontro» (Giovanni della Croce). «La speranza rende l’uomo gioioso in ragione della certezza, tuttavia, l’affligge in ragione della dilazione» (Tommaso d’Aquino, Romani).
Decisivo banco di prova dell’evangelo della speranza è il passaggio dalla notte al giorno senza tramonto. Quando giunge il momento di svegliarsi dal sonno e d’indossare le armi della luce ci si riveste di Cristo sino all’incontro con lui. La speranza richiede di essere testimoniata per diventare credibile e la testimonianza è la sorgente inesauribile della speranza. «A causa della speranza d’Israele sono in carcere» sono fra le ultime parole di Paolo negli Atti degli apostoli. La speranza in questione è, in ultima istanza, quella nella risurrezione dei morti, di cui si è testimoni nelle avversità. Speranza e testimonianza della risurrezione stanno e cadono insieme perché fluiscono dall’azione dello Spirito.
Alla Chiesa, corpo di Cristo, è consegnata la responsabilità di evangelizzare «Cristo in voi speranza della gloria». Senza il capo (Cristo), il corpo (la Chiesa) non è in condizione di sopravvivere, né di sperare. Soltanto se tende verso il capo, il corpo è in grado di testimoniare la speranza dell’oltre. Non un fantasma, né un’ombra che viene dall’oltretomba, ma Gesù Cristo, il vivente, è la nostra speranza: «Lui che ci ha dato lo Spirito Santo e ci fa camminare verso la speranza» (Agostino, Commento ai Salmi 60,4).
Lo
Spirito riversato da Dio come “caparra” ricolma il cuore umano di gioia e pace.
E porta la salvezza a ogni persona, tutta intera, in attesa dell’incontro
finale che attende ciascuno.
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