Desiderio,
amore, libertà, etica Il
talento come apertura alla vita, la capacità di donare qualcosa di sé, la
vicinanza nelle difficoltà, ma anche la tensione per il bene comune. Ecco la
formula per essere veri amici
L’amico
vero tira fuori il meglio di te, ti aiuta ad alzare lo sguardo, ti resta
fedele, ma accetta anche il dolore di perderti per salvaguardare un bene più
grande
- - di MARCO ERBA*
Dante
Alighieri, in uno dei suoi sonetti più celebri, parla della sua amicizia con
Guido Cavalcanti e Lapo Gianni:
Guido,
i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un
vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna
od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un
talento, di stare insieme crescesse ’l disio.
Guido
Cavalcanti e Lapo Gianni erano due poeti accomunati dalla stessa sensibilità di
Dante e appartenenti al gruppo degli stilnovisti. Quello di Dante è una sorta
di sogno ad occhi aperti: desidera trovarsi, come per magia, su un vascello, e
vagare per il mare insieme ai suoi due cari compagni. Una sorta di crociera
ante litteram? In realtà i critici spiegano che in questi versi Dante farebbe
riferimento alla magica navicella di mago Merlino, più volte citata nei
racconti del ciclo bretone, che ha per protagonisti re Artù e i cavalieri della
tavola rotonda. La sostanza però è la stessa: passare del buon tempo con
persone a cui si vuole bene, in una condizione di distacco dal quotidiano e da
tutte le sue fatiche. Fatiche che, come tempeste, possono portarci a sbandare,
a perdere la rotta. Ciò però non avviene su questo vasel incantato: nessuna
fortuna (cioè fortunale, tempesta) e nessun tempo rio (cioè avverso) può
disturbare la magica navigazione.
Dante
indica in questi versi uno degli elementi chiave della vera amicizia: vivere
sempre in un talento, cioè in un unico desiderio, desiderando ancor più di
stare insieme. L’amicizia è una dimensione preziosa dell’esistenza. Gli amici
veri non sono molti: Dante ne cita due. È questa una navigazione intima, non
una festa oceanica. Questi amici sono degli eletti: sono accomunati dallo
stesso desiderio, dallo stesso sentire profondo. Non significa pensarla allo
stesso modo su tutto, ma desiderare la presenza dell’altro, il confronto con
l’altro e, di fondo, avere lo stesso orientamento esistenziale, la stessa
sensibilità per ciò che davvero conta. P enso a diversi miei amici: con alcuni
condivido valori, fede, ideali; altri non potrebbero essere più diversi da me.
Con loro mi capita di discutere anche animatamente. Eppure c’è qualcosa che ci
accomuna profondamente, quello che Dante chiama talento: un’apertura alla vita;
un desiderio, pur con tutti i nostri limiti, di lasciare un segno positivo sul
mondo che ci circonda. Uno i questi amici, che la pensa in modo diametralmente
opposto da me sulla fede, sulla filosofia, sulla visione dell’esistenza, mi ha
detto di recente una frase bellissima: « Mi piace impegnarmi per gli altri
perché sono stato fortunato e ho avuto la possibilità di fare tutto ciò che
desideravo nella mia vita. Ora voglio restituire qualcosa alla comunità». Ecco
il talento profondo, il legame che unisce: il desiderio di donare qualcosa di
sé. Dante e i suoi amici poeti donavano bellezza; ciascuno di noi, nel suo
campo, può fare lo stesso, con i suoi interessi e la sua sensibilità. I l
sonetto di Dante continua poi citando le donne amate dai tre poeti. Nel viaggio
ideale della navicella, il poeta vorrebbe che anche loro fossero presenti:
E
monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi
ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di
lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.
Che
bello se mago Merlino ponesse sul vascello anche Giovanna e Alagia (monna Vanna
e monna Lagia), le donne amate da Guido e Lapo, oltre a quella ch’è sul numer
de le trenta, la donna amata da Dante stesso!
L’amicizia
troverebbe così compimento, perché un’amicizia vera è apertura ad altre
relazioni: è apertura al mondo, non chiusura su sé stessi. L’amicizia è
libertà, non gelosia. L’affetto si moltiplica, non si divide. Un amico vero è
felice delle nostre altre relazioni, è disposto ad accoglierle nella sua vita.
Un amico vero ci lascia andare, non ci trattiene, e per noi c’è sempre. Un
amico vero è qualcuno che, se non lo vediamo da molto, è felice è accogliente e
ci chiede curioso di noi, non è uno che fa l’offeso e ci domanda diffidente
perché non ci siamo fatti sentire e dove eravamo finiti. L’amicizia è la
condivisione di un viaggio, appunto, non è l’obbligo di timbrare il cartellino.
Perché l’amicizia vera è una forma di amore e l’amore si misura sulla libertà.
Non a caso l’amore è proprio l’argomento di cui i tre amici e le tre donne
desiderano ragionare: l’amore è l'essenza delle relazioni più profonde.
In
questo sonetto il quadro è idilliaco, il dolore è lontano. Ma come agisce un
amico nel momento della difficoltà? Dante lo racconta nel secondo canto della
Commedia. Perso nella selva oscura del peccato, che può forse rappresentare
quella crisi esistenziale con la quale chiunque, credente o non credente, si
trova prima o poi a fare i conti, Dante viene soccorso dal poeta latino
Virgilio. Questi gli rivela chi lo ha mandato: è proprio Beatrice, la donna
amata da Dante. Beatrice si è rivolta a Virgilio con parole mirabili:
l’amico
mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che
volt’è per paura.
Dante
è definito amico, e non de la ventura.
Un
amico che resta per sempre, non un amico per convenienza. Un amico che non
viene abbandonato, non uno che al cambiare delle circostanze non è più tale.
Dante è impedito nel cammino e Beatrice, che ormai è diventata un’anima del
paradiso, lascia il suo posto in cielo, scende fino all’inferno per inviare
Virgilio. È un’immagine bellissima: l’amico non ti molla mai nelle difficoltà.
Non è uno che ti dice cosa fare e poi non si sporca le mani: è uno che ti
cammina al fianco, che non interrompe il suo viaggio con te, nemmeno
nell’inferno.
Beatrice
mi ricorda molto un sacerdote che ho avuto la fortuna di conoscere tempo fa. Un
amico di quel sacerdote si era perduto, ne aveva combinate di cotte e di crude,
non voleva ascoltare ragioni, si era ridotto a dormire in un parcheggio. Non
sapendo più cosa fare, quel sacerdote una sera prese un sacco a pelo e andò a
dormire al suo fianco. Si gelava, era inverno. Il sacerdote disse all’amico:
«Siamo proprio due idioti a stare qui a dormire al gelo». L’amico replicò: « Ma
di tutti gli idioti del mondo, uno solo è qui, sdraiato al mio fianco».
Quel
sacerdote era così con tutti: non ti mollava, lo trovavi al tuo fianco quando
più eri smarrito. A me capitò in uno dei giorni più brutti della mia vita: il
citofono suonò e lui era lì, al mio fianco. Parlava con la sua presenza, prima
di pontificare. Anni dopo scoprii che era l’unica persona a visitare in carcere
e ad aiutare un uomo condannato per pedofilia. Il mio amico sacerdote si era
spinto anche lì, nel fondo più nero, dalla persona più reietta e disprezzata,
colpevole del reato più odioso che si possa immaginare. Ne parlammo: io ero
molto critico nei suoi confronti. Lui mi disse: «Spesso le persone guardano la
cenere, giudicano, condannano senza appello. Ma una scintilla sotto la cenere è
sempre accesa. Dio guarda quella scintilla».
Parole
che mi colpirono, che ancora porto con me. Un amico non è Dio, ma davvero può
essere colui che sempre crede in quella scintilla. L’ amicizia, purtroppo, a
volte deve fare i conti con il conflitto. Guido Cavalcanti, il Guido del
sonetto citato in apertura, sarà esiliato da Firenze, sua città natale, nel
giugno del 1300 per motivi politici. Guido apparteneva infatti alla fazione dei
Guelfi Bianchi, che si scontrarono a più riprese con i Guelfi Neri. Per
pacificare la città, i priori di Firenze decisero di esiliare i capi delle due
fazioni, tra i quali, appunto, Guido. Tra i priori che stabilirono questa
misura c’era anche Dante Alighieri. Dante esiliò dunque l’amico a cui aveva
dedicato il sonetto di cui abbiamo appena parlato. Cavalcanti morì poco dopo di
malaria. Nessuno può sapere cosa provò Dante nel prendere una decisione così
drastica, né si può conoscere il dolore del poeta per la morte dell’amico. Ma
questo provvedimento così drammatico ci ricorda che non esiste amicizia senza
etica. L’amicizia non può far dimenticare il bene comune, non deve impedire di
compiere la scelta giusta. Se l’amicizia è vera, l’amico non sarà mai un
raccomandato, non riceverà mai ingiusti sconti o favoritismi. Per questo Marco
Tullio Cicerone, autore latino conosciuto e citato da Dante, nel De amicitia
afferma che la vera amicizia è possibile solo tra boni, cioè tra persone
virtuose. L’amicizia non è semplice cameratismo, non è condivisione acritica di
ogni esperienza. L’amico vero tira fuori il meglio di te, ti aiuta ad alzare lo
sguardo. Ti resta fedele, ma accetta anche il dolore di perderti per
salvaguardare un bene più grande.
*Insegnante
e scrittore
www.avvenire.it
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