Insieme all’invecchiamento di massa si fa strada un nuovo volto della vita
Studi
scientifici mostrano una sempre più precisa identità della generazione anziana,
con caratteristiche ed esigenze proprie
Una
delle trasformazioni sociali più significative di questo secolo induce a
spostare la soglia di accesso alla vecchiaia, modificando il profilo di quello
che non va più considerato solo come un “lungo tramonto”
C’è
tutta una parte dell’esistenza che attende di essere riconsiderata. La memoria
non “perde colpi” ma diventa selettiva.
E il picco delle capacità intellettive
ora si sposta a 70 anni.
Cresce
la coscienza che la vecchiaia sia un’età con un profilo proprio
-
di VITTORIO A. SIRONI
«La
vecchiaia è per sé stessa una malattia», affermava nel II secolo avanti Cristo
lo scrittore latino Publio Terenzio riferendosi ai malanni e alle privazioni
fisiche tipiche della senescenza. Se questa considerazione è rimasta di fatto
valida per oltre due millenni, oggi non è più così. Non solo perché la
medicina, a partire dalla metà del secolo scorso, ha progressivamente
consentito di allungare la durata della vita media (l’aspettativa di vita è
aumentata di 20 anni rispetto agli inizi del Novecento) e di migliorare al
contempo la qualità dell’esistenza, ma anche per il fatto che gli stessi
geriatri – cioè i medici che si occupano di studiare e curare gli anziani –
hanno proposto ufficialmente di innalzare l’età da cui far partire la vecchia
di una decina d’anni: dai 65 ai 75 anni.
Sebbene
la vecchiaia sia a tutti gli effetti la parte finale del ciclo vitale, non si
può dire che sia legata solo all’età. L’età cronologica è un dato di fatto – ma
ci sono fattori ben più importanti da prendere in considerazione –, come l’età
biologica (che sovente è minore di quella anagrafica) e la condizione
psicologica. Questa fase dell’esistenza corrisponde a una vera metamorfosi da
interpretare e vivere nel suo significato in modo non diverso da quel
cambiamento che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Lo
afferma con convinzione lo psichiatra Vittorino Andreoli nella
sua Lettera a un vecchio (Solferino, 2023) che invita a pensare a
questa età dell’esistenza come legata a un nuovo stile di vita e a una nuova
visione del mondo. Lo sostiene anche il monaco Enzo Bianchi nel
suo saggio La vita e i giorni (Il Mulino, 2018), in cui definisce
la vecchiaia una fase che, nonostante le sue ombre e le sue insidie, fa parte
del cammino dell’esistenza: è arte del vivere che possiamo in gran parte
costruire a partire dalla nostra consapevolezza per prepararsi ad allentare il
controllo sul mondo e sulle cose, senza nulla concedere a una malinconica
nostalgia, ma anzi trovando l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia
verso le nuove generazioni.
È
errato credere che il tema attorno a cui ruota l’esistenza del vecchio sia la
morte e che la sua maggiore preoccupazione sia la malattia. Occorre invece che
la società si convinca che egli ha bisogno di sentirsi utile, di avere un senso
proprio nel presente e che la sua passata esperienza vissuta possa essere
realmente percepita fonte di saggezza e non interpretata come nostalgia per il
passato. Solo così si possono rimettere al centro i desideri e le
caratteristiche degli anziani, evitando loro il dolore della solitudine,
dell’esclusione e dell’abbandono, come ha più volte ribadito papa Francesco
ricordando che la contrapposizione tra generazioni è un inganno e che lo
“scarto” degli anziani non è né casuale né ineluttabile, ma frutto di scelte –
economiche, politiche, sociali, personali – che non riconoscono la dignità
della persona.
Proprio
per evidenziare gli importanti contributi che le persone anziane possono dare
alla società, e per aumentare la consapevolezza delle opportunità e delle sfide
che l’invecchiamento pone al mondo di oggi, nel 1990 l’Assemblea generale delle
nazioni Unite ha stabilito che ogni anno il 1° ottobre sia dedicato a
festeggiare la Giornata internazionale delle Persone anziane, appena celebrata.
Il loro impatto è sempre più marcato in ambito sociale: per la prima volta
nella storia, nei Paesi occidentali, gli individui nati nella seconda metà del
Novecento hanno ragionevoli probabilità di essere attivi, fisicamente e
mentalmente, perlomeno sino a 85 anni. Oggi nel mondo quasi un miliardo di
persone ha un’età pari o superiore ai 60 anni, superando globalmente giovani e
bambini. Entro il 2030 questa quota arriverà a toccare il miliardo e mezzo.
L’invecchiamento della popolazione è destinato a diventare una delle
trasformazioni sociali più significative del XXI secolo. Manca però una vera e
consapevole riflessione antropologica, sociale e sanitaria su questo
“invecchiamento di massa”, mentre prevale spesso un pregiudizio (il cosiddetto
“ageismo”) che porta a disprezzare tutto ciò che è connesso alla vecchiaia.
Certamente la vecchiaia è l’ultimo capitolo della vita, ma nessuno può sapere
quanto duri. Entrare in questa fase dell’esistenza è però anche un privilegio:
basti pensare ai tanti che hanno visto interrompersi la loro vita senza
raggiungerla. C erto con l’incalzare della vita il pensiero della sua fine non
può essere dimenticato, e talvolta non è facile da accettare. Non ha senso però
pensare alla vecchiaia solo come anticamera della morte. È invece uno spazio
dell’esistenza da riconsiderare (anche alla luce della fede), da fondare sui
bisogni personali e non su quelli guidati o suggeriti dalla società. In questa
prospettiva una delle cose più immediate è rifiutare l’uso di termini
eufemistici. Occorre mantenere la precisione, la dignità e la “bellezza” di
alcune parole, che invece oggi la società fa percepire come inadeguate,
preferendo utilizzarne altre per nascondere una realtà che cerca di ignorare o
addirittura di negare. È più adeguato chiamare la vecchiaia con questo nome in
luogo di altri apparentemente più neutri, come anzianità, terza o quarta età.
Così come è più opportuno definire i vecchi con tale parola invece di quella
ritenuta più appropriata e meno impattante di “anziani”.
La
medicina stessa fornisce oggi una lettura diversa di alcune caratteristiche
della vecchiaia. Gli inevitabili cambiamenti fisici del corpo legati al
trascorrere del tempo possono essere gestiti attraverso un adeguato stile di
vita che passa attraverso un’alimentazione corretta. La diminuzione della forza
muscolare, in parallelo e in simmetria con la riduzione del suo uso, induce una
fragilità che può essere bilanciata da un’attività fisica legata al movimento
e, se possibile, alla pratica sportiva non stressante.
Anche
le difficoltà psicologiche del vecchio possono essere superate dalla
consapevolezza del bisogno che ciascuno ha dell’altro: riscoprendo il legame
d’amore coniugale e filiale, consolidando gli affetti con i parenti e gli
amici. La diminuzione della memoria dell’anziano, che viene spesso vissuta e
intesa come apriporta di un decadimento fisiologico di tutte le funzioni
mentali o, ancora peggio, come l’inizio di un processo di involuzione cognitiva
destinato a sfociare poi nella demenza, è interpretata oggi in maniera
differente dalle neuroscienze. La memoria è testimone del vissuto individuale
delle persone e la metamorfosi che si opera nella vecchiaia modifica anche la
percezione del tempo e del vissuto individuale. Ecco perché spesso il vecchio
ricorda bene episodi del passato che hanno avuto un rilievo significativo nella
sua vita e dimentica invece fatti e nomi recenti che non sono importanti per
lui in questa parentesi esistenziale. Il suo cervello non è più veloce come in
gioventù perché è – come la memoria di un computer – molto ricco di dati, ma in
compenso risulta molto più flessibile.
Con
l’età è più probabile che si prendano decisioni giuste e si sia meno esposti a
emozioni fuorvianti: è la famosa “saggezza” della vecchiaia. Il professor
Monchi Ury, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di
Montréal, sostiene che il cervello dei vecchi funziona eliminando le attività
superflue e la sovrabbondanza di informazioni, operando solo con le finalità
più adeguate per risolvere i problemi da affrontare.
Alcuni
recenti studi evidenziano poi come il cervello umano raggiunga il picco della
sua capacità intellettuale proprio attorno ai 70 anni. Il medico statunitense
Fitzhung Mullan, direttore della George Washington University School of
Medicine, in un recente articolo pubblicato sull’autorevole rivista The New
England Journal of Medicine, dimostra che il cervello di una persona anziana è
molto più efficiente di quanto si creda perché, dopo i 60 anni i vecchi sono in
grado di utilizzare contemporaneamente in modo integrato e armonico entrambi
gli emisferi encefalici. Ecco perché molte persone oltre questo limite di età
risultano sovente più creative di altri soggetti più giovani. « Mi diverto a
invecchiare: è un’occupazione costante » ha detto a chi lo intervistava diversi
anni fa a proposito della sua età lo scrittore e critico teatrale francese Paul
Léautaud. Riprendendo la sua affermazione il neurologo Yves Agid dimostra nel
suo libro Invecchiare? È divertente (Carocci, 2022) che invecchiare non dipende
solo dal passare del tempo, ma soprattutto dal nostro cervello. La vecchiaia
può e deve quindi rappresentare una tappa feconda della vita se a questa fase
dell’esistenza si dà un senso nuovo, se si riscoprono ideali culturali e
sociali, religiosi ed etici, se si mantengono e si consolidano conoscenze e
affetti. Senza aspettare passivamente l’arrivo di una badante o pianificare
l’ingresso in una Rsa.
www.avvenire.it
Nessun commento:
Posta un commento