mercoledì 2 ottobre 2024

LA TERRA DEI VITELLONI

L’IRRESPONSABILITÀ  

IL TRAMONTO ITALIANO

 

-         di MASSIMO ONOFRI

 In Tramonto italiano. Come un paese si avvia alla disgregazione, appena pubblicato per Neri Pozza, Francesco Sisci si prova a ragionare sull’etimologia del nome «Italia», per osservare che la parola significava «terra dei vitelli». Mossa felice se è vero che, ritrovando un «senso anche nell’italiano moderno», finisce per preconizzare «la terra de I vitelloni di Fellini»: «che raccontava l’Italia degli anni Cinquanta attraverso le micro-avventure di un gruppo di giovani uomini che decidono di smettere di crescere», perché non vogliono «diventare adulti e responsabili». Questo per dire che lo scrittore, oltre a esaminare certi eventi di cronaca politica entro un quadro rigorosamente storico, si muove da subito in base a ipotesi antropologiche: il vitellonismo, appunto, è una di queste. Interessante, a tal proposito, il capitolo La questione interna italiana vista da fuori, ma anche Italiani diversi. La materia prima, di cui non si potrebbe fare a meno, è rappresentata però dai capitoli spalancati sull’attualità – tra gli altri: la Lega e la sua affermazione, lo «scacchiere internazionale », l’eventuale ritorno dal fattore K – lavorata, quella materia, dentro premesse anche remote: cito, per esemplificare, Reinventare Roma e il Vaticano; L’Italia e le due guerre mondiali; Il dopoguerra: l’unità d’Italia da rifare, punto e daccapo. Capitolo, quest’ultimo, che già nel titolo implica la causa forse principale d’un finale di partita – il tramonto dell’Italia – non dico apocalittico, ma di certo drammatico, e cioè il fatto che gli italiani siano vissuti per secoli – di contro a quella che è stata invece l’evoluzione degli stati europei – senza l’unità politica.

Lo sguardo incrociato e pluriprospettico di Sisci – particolare non da poco – ha a che fare con un dato di biografia che ci fa meglio intendere la disposizione del libro. Questa: Sisci ha studiato filologia e filosofia classica cinese, senza dire degli anni trascorsi in Cina non solo come giornalista, ma anche come direttore dell’Istituto italiano di cultura, come docente di politica internazionale all’Università del Popolo e persino come collaboratore della Scuola centrale del Partito Comunista. Questo gli ha consentito di guardare l’Italia sempre da lontano: e di soggiornarvi – magari bloccato per il Covid – con lo stesso spirito di quel persiano delle Lettere di Montesquieu in visita a Parigi.

 Ne è venuto fuori un libro insolito, di vocazione che direi contro-storica, di quelli che, però, nella storia della nuova Italia (oh Croce!), non sono mai mancati e di cui resta ancora maestro uno scrittore come Corrado Stajano: ve lo ricordate Patrie smarrite. Racconto di un italiano uscito nell’ormai lontano 2001? Libri di difficilissima definizione che si collocano in quella striscia di territorio intellettuale sempre più esile, ove, come il senno d’Astolfo sulla luna, giace il senso rimosso di tanta storia nazionale. In taluni casi capolavori come quel Golia. Marcia del fascismo (1937) di Giuseppe Antonio Borgese che per Stajano è di sicuro un maestro. Dico Golia: il libro in cui si diagnostica una malattia italiana molto antica, risalente addirittura a Dante, Cola di Rienzo e Machiavelli e che ha a che fare con un’idea di fascismo che è qualcosa di assai più profondo e duraturo che non il ventennio nero. Un fascismo eterno e pertinace. Che continuamente riaffiora. Anche là dove non te lo aspetti.

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