I costi umani ed economici della sindrome dell’invasione
- di Giuseppe Savagnone*
Il flop del primo viaggio in Albania
La
notizia che il Tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento dei
migranti nel centro di permanenza per il rimpatrio di Gjadër, in Albania,
arriva poche ore dopo quella che, dei sedici (dieci provenienti dal Bangladesh
e sei dall’Egitto) sbarcati dalla nave militare “Libra”, quattro avrebbero
comunque dovuto tornare in Italia, due perché si è scoperto che sono minorenni
e due per problemi di salute (i centri sono riservati a uomini maggiorenni non
fragili).
Alla
fine un viaggio di due giorni che, secondo i calcoli, è costato intorno ai
18.000 euro per ogni migrante trasferito, si sta risolvendo in un clamoroso
flop.
La
decisione dei giudici romani è stata attaccata dai giornali di destra come un
«golpe politico-giudiziario» e il presidente dei senatori di Fratelli
d’Italia, Lucio Malan, ha parlato di «un’invasione di campo di una parte
della magistratura, politicizzata».
Essa
si fonda in realtà, dice il provvedimento del Tribunale, sulla «impossibilità
di riconoscere come paesi sicuri gli Stati di provenienza delle persone
trattenute», Bangladesh ed Egitto.
Un
requisito, questo, rigorosamente prescritto dal diritto internazionale, oltre
che dal buon senso, trattandosi di persone giunte in Italia per sfuggire ai
pericoli presenti nel loro paese.
Quand’è
che un paese è “sicuro”?
In
polemica con i giudici, il governo rivendica il diritto di decidere lui quali
sono i “paesi sicuri”. Il problema è che i suoi criteri non sempre coincidono
con quelli espressi da organismi internazionali autorevoli o comunque
qualificati.
«Nei
miei ventidue anni in Medici senza Frontiere non avevo mai incontrato
un’incarnazione così estrema della crudeltà umana», diceva Joanne Liu, la
presidente internazionale di “Medici senza Frontiere”, in un’intervista al
«Corriere della Sera» del 1° febbraio 2018.
La
dottoressa Liu si riferiva ai centri libici per la detenzione di migranti
e rifugiati creati in base agli accordi tra il ministro Minniti, al tempo del
governo Gentiloni, e il governo libico.
Poco
prima, nel settembre del 2017, il commissario dei Diritti umani presso il
Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, aveva scritto al nostro ministro degli
Interni ricordandogli che «consegnare individui alle autorità libiche o altri
gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di tortura
o trattamento inumano o degradante».
Questi
segnali eloquentissimi non hanno impedito alla premier Meloni di prorogare il
memorandum Italia-Libia, il 2 febbraio 2020, ignorando l’appello dell’ONU che,
nell’ottobre precedente, aveva chiesto al governo italiano di non procedere al
rinnovo dell’accordo, per mettere fine «a una delle pagine più tristi e
vergognose della nostra storia recente».
Sulla
stessa linea, il 16 luglio 2023, la firma da parte della nostra premier di un
“Protocollo d’intesa”, con il presidente tunisino Kaïs Saïed. Proprio in
quel periodo Amnesty International ha denunziato la campagna di odio razzista
scatenata da Saïed contro i migranti neri sub-sahariani emigrati in questi anni
in Tunisia, aizzando la popolazione alla violenza nei loro confronti.
La
sindrome dell’“invasione”
Insomma,
è chiaro che i criteri del governo Meloni per stabilire se un paese sia
“sicuro” oppure no risentono pesantemente di una scelta politica di fondo che
ritiene prioritario, a qualunque costo, impedire ai migranti di varcare le
nostre frontiere.
In
questa logica si colloca anche la decisione di spendere circa 800 milioni di
euro (stima de «Il Sole 24 Ore») in cinque anni per creare i centri di
permanenza in vista dell’eventuale rimpatrio sul territorio albanese, invece
che su quello italiano, dove ovviamente i costi sarebbero stati immensamente
inferiori.
Peraltro,
questa ossessione della difesa dei confini da quella che viene definita una
“invasione” sembra essersi comunicata a tutta l’Europa. Emblematico il fatto
che, il modello “albanese” della Meloni è stato esaminato con estremo interesse
nella riunione del Consiglio europeo tenuta il 17 ottobre scorso, a Bruxelles.
Già
alla vigilia della riunione, peraltro, la presidente della Commissione europea,
Ursula von der Leyen aveva scritto ai leader europei prospettando
l’opportunità di istituire «hub per i rimpatri al di fuori dell’UE,
soprattutto in vista della nuova normativa sul rimpatrio», citando proprio
l’accordo stretto tra Italia e Albania, come un modello da cui «trarre lezioni
pratiche».
La
riunione del Consiglio ha corrisposto pienamente a questa sollecitazione della
von der Leyen, prendendo in seria considerazione la proposta di allargare su
scala europea quanto fatto dall’Italia con l’Albania.
L’iniziativa,
patrocinata dalla premier italiana, ha trovato il supporto di Olanda e
Danimarca, e l’interesse di almeno altri otto paesi.
L’Olanda,
del resto, sta già seriamente lavorando all’idea di allestire in Uganda degli
hub per richiedenti asilo, in attesa di poterli rimpatriare. Da parte sua, il
primo ministro danese, la socialdemocratica Mette Frederiksen, guarda al Kosovo
come destinazione per una possibile esternalizzazione dei campi di detenzione e
si è rallegrata del fatto che «finalmente» i Paesi UE discutono seriamente di
cambiare la politica di asilo.
In
ogni caso, al di là del tema delle esternalizzazioni dei centri di smistamento,
nel documento conclusivo della riunione del Consiglio si esorta ad agire in
modo «determinato» a «tutti i livelli» per «aumentare e velocizzare i
rimpatri», e si ribadisce l’impegno di «assicurare il controllo efficace dei
confini esterni dell’UE con tutti i mezzi disponibili», valutando «nuovi modi
per contrastare l’immigrazione irregolare, in linea con il diritto
internazionale».
In
realtà, abbiamo appena visto quali tensioni questa linea stia determinando, nel
caso dell’Italia, proprio con il diritto internazionale e, più alla radice, con
il rispetto dei più elementari diritti umani.
Ma,
dopo l’avanzata dei partiti di estrema destra nelle ultime elezioni europee,
tutti i governi temono che essi sfruttino le spinte xenofobe che attraversano i
loro rispettivi paesi per accrescere ancora di più i loro consensi.
Da
qui il successo della linea sovranista, ma non antieuropea, della Meloni,
considerata una soluzione intermedia accettabile per sfuggire a quella estrema
dei Patrioti della Le Pen, di Salvini e di Orbàn.
Una
voce fuori dal coro
Unica
eccezione, in questo quadro, quella rappresentata del premier spagnolo Sanchez,
il quale, alcuni giorni fa, parlando davanti alle Cortes, ha affermato
che «nel corso della storia, l’immigrazione è stata uno dei grandi motori dello
sviluppo delle nazioni, mentre l’odio e la xenofobia si sono sempre rivelati i
più grandi distruttori di nazioni».
Secondo
il primo ministro spagnolo, l’accoglienza dei migranti non è solo una questione
di umanità, ma l’unico mezzo realistico per far crescere l’economia e sostenere
lo stato sociale, in un paese come la Spagna – e, bisognerebbe aggiungere, in
un continente come l’Europa – , in cui il tasso di natalità è in picchiata.
L’idea
è di valorizzare l’immigrazione come strumento efficace di prosperità: «La
Spagna», ha detto ancora Sanchez – «deve scegliere tra essere un paese aperto e
prospero o un paese chiuso e povero».
Il
fenomeno migratorio, di per sé, non è una minaccia. L’unico problema è quello
di saperlo gestire bene. In questa direzione, l’intenzione di Sanchez è ora
quella di investire risorse per l’inserimento dei migranti nel mercato del
lavoro e di ridurre la complessità delle procedure burocratiche per la
valutazione delle domande di residenza.
In
questo modo egli pensa di poter contrastare lo spopolamento dei comuni e di
rispondere alla domanda di badanti per gli anziani, di programmatori, operai e
tecnici per le aziende, oltre che di bambini per le scuole che rischiano di
chiudere per mancanza di alunni.
Il
premier ha anche citato i due milioni di spagnoli emigrati all’estero durante
la dittatura franchista e i tanti altri che hanno lasciato la Spagna per
cercare lavoro in altre parti del mondo: «Dobbiamo ricordare le odissee
delle nostre madri e dei nostri padri, dei nostri nonni e delle nostre nonne in
America Latina, nei Caraibi e in Europa. E capire che il nostro dovere ora,
soprattutto ora, è essere quella società accogliente, tollerante e solidale che
loro avrebbero voluto trovare». Parole che dovrebbero far riflettere anche noi
italiani.
Non
si tratta, peraltro, di un’apertura indiscriminata. Va in questo senso la
recente visita di Sanchez a tre nazioni africane, Mauritania, Gambia e Senegal,
con le quali c’è la volontà di instaurare una collaborazione diretta per una
gestione condivisa dei flussi migratori.
L’obiettivo
non è fermare le partenze con i campi di detenzione – come nel protocollo fra
Italia e Libia – , ma solo cambiare il percorso. Non più via mare, ma via
aereo, dopo un periodo di formazione nel paese d’origine.
La
voce di un economista per smentire le bugie
Sono
d’accordo con Sanchez anche molti esperti italiani di questioni di
economia. Come il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, che, nell’intervista
rilasciata l’aprile scorso a «La Stampa», spiegava che, con l’attuale andamento
demografico, dopo il 2040 non si potranno più pagare le pensioni e indicava
come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie
ricche», spiegava il presidente dell’Inps, «hanno tutte molti migranti».
E,
facendosi interprete delle pressanti richieste degli imprenditori, che da tempo
chiedono l’allentamento delle restrizioni all’ingresso di lavoratori stranieri,
aggiungeva: «Anche noi abbiamo l’esigenza di coprire lavori medio-bassi da Nord
a Sud con gli stranieri. La soluzione non può che essere l’accesso di
immigrazione regolare e fluida».
Con
un’accoglienza non certo indiscriminata, ma volta alla reale integrazione
culturale e materiale degli stranieri, oggi, nel nostro paese, del tutto
assente, anzi ostacolata.
E
forse anche Tridico – come tutti coloro che guardano con tristezza un’onda
culturale e politica che si presenta come una difesa degli interessi
dell’Italia e dell’Europa, ma è in realtà il cedimento a una visione
ideologica, autolesionista – condividerebbe la conclusione del discorso di
Sanchez alle Cortes spagnole: «Voglio che i cittadini capiscano che questa non
è una battaglia tra spagnoli e stranieri, o cristiani e musulmani o santi e
criminali. È una battaglia tra verità e bugie, tra racconti e dati, tra ciò che
è nell’interesse della nostra società e gli interessi di pochi che vedono nella
paura e nell’odio per gli stranieri l’unica via per raggiungere il potere».
*Scrittore ed
editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
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