Il
dramma dei femminicidi
e la «cultura del patriarcato»
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di Giuseppe Savagnone*
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Forse
mai come in occasione del brutale assassinio di Giulia Cecchettin da parte del
suo ex fidanzato, Filippo Turetta, l’opinione pubblica italiana era stata così
profondamente scossa dal tragico ripetersi dei cosiddetti “femminicidi”,
intendendo con questo termine «una violenza estrema da parte dell’uomo contro
la donna proprio perché donna (…) in un contesto sociale che permette e avalla
la violenza degli uomini contro le donne» (D. Russell, nel libro Feminicide).
Ed
era ora, perché di anno in anno si rinnova il pesante tributo di sangue versato
nel nostro paese dalle donne a una cultura che le vuole vittime proprio nel
contesto dei rapporti familiari o affettivi in cui esse dovrebbero essere più
al sicuro: 116 sono state uccise nel 2020, 119 nel 2021, 126 nel 2022, 106 fino
ad oggi nel 2023. Non possiamo rassegnarci a questo massacro sistematico.
Qualcosa bisogna fare. Ma che cosa? La risposta dipende dalla lettura che si dà
del fenomeno e delle sue cause.
Quella
che ne stanno dando univocamente i mezzi di comunicazione, le associazioni
femministe e la grande maggioranza delle persone riconduce la responsabilità di
questa piaga non solo e non tanto ad un problema di pubblica sicurezza, quanto
ad un clima culturale, e precisamente alla «cultura patriarcale» ancora
dominante nel nostro paese. È questo il bersaglio obbligato di innumerevoli
dichiarazioni, interviste, manifestazioni.
In
senso più generale, con questa espressione si intende una cultura dove ancora
le donne sono imprigionate in stereotipi e ruoli di genere che impediscono loro
di esprimere liberamente la loro identità e di realizzare le loro potenzialità.
A
cui corrispondono meccanismi sociali di esclusione o di sottovalutazione, dal
più basso livello di retribuzioni a parità di prestazioni, al rallentamento
nelle carriere, fino alla esposizione a molestie sessuali di vario tipo.
In
riferimento più specifico al dramma dei femminicidi, la «cultura del
patriarcato» sarebbe caratterizzata da una «mascolinità tossica», che porta gli
uomini a pretendere il controllo delle donne con cui hanno un legame affettivo,
mantenendole in uno stato di totale subordinazione e reagendo ad ogni loro
tentativo di indipendenza con inaudita violenza.
Precisando
che di questo veleno sono sottilmente pervase le stesse donne, a cominciare
dalle madri che lo alimentano e lo giustificano nei loro figli maschi, e a
finire con le mogli e le compagne, spesso portate a giustificare e a coprire
gli abusi, fisici e psicologici, a cui sono sottoposte da parte di mariti e
partner.
Contro
la «cultura de patriarcato», si riconosce, non basta fare cortei e
manifestazioni di protesta, come quelli che si sono moltiplicati e sono stati
programmati in tutta l’Italia dopo l’uccisione di Giulia. Bisogna cambiare la
mentalità. Perciò governo e opposizione si sono trovati d’accordo, per una
volta, nella prospettiva di introdurre una sistematica educazione
all’affettività nelle scuole.
Ma
il problema è davvero la logica patriarcale?
È
corretta questa diagnosi? Certo, che esista ancora nel nostro paese, malgrado i
grandi progressi realizzati in questi anni e alcune vistose eccezioni, il
problema di una sistematica tendenza a penalizzare le donne nel lavoro, nella
politica, nella vita economica, è difficile negarlo.
Anche
se a capo del governo e dell’opposizione in Italia ci sono due donne, il ruolo
femminile a livello pubblico è ancora decisamente sottodimensionato rispetto a
quello maschile. Se è questo che si intende per «cultura del patriarcato», è
senz’altro giusto continuare la lotta ormai più che secolare per arrivare a
sconfiggerlo.
Se
però ci si riferisce al fenomeno dei femminicidi, sembra legittimo avanzare
qualche serio dubbio sul fatto che proprio essa ne sia la causa ultima. Se non
altro perché dalle statistiche (i dati disponibili si riferiscono al 2020)
risulta che il numero di omicidi volontari commessi da familiari o (ex) partner
ogni 100mila donne nei Paesi UE è stato maggiore in Germania (0,53%), nei Paesi
Bassi (0,45%) e in Francia (0,43%) che non in Italia, dove si è fermato allo
0,32%, di poco al di sopra di quello della Svezia (0,25%).
Dobbiamo
pensare che la «cultura del patriarcato» sia dominante – più che in Italia – in
questi paesi, notoriamente caratterizzati da una forte emancipazione femminile?
Se
il problema dei femminicidi è comune al continente europeo (prescindendo,
evidentemente, da ciò che accade in altri, come l’Asia e l’Africa, dove
ovviamente esso ha matrici del tutto diverse, di cui qui non possiamo
occuparci), deve esserci qualche ragione che dipende da fattori culturali
presenti, ancora più spiccatamente che in Italia, negli altri paesi
dell’Europa. E questo non sembra proprio poter essere la sopravvivenza del
patriarcato.
Tanto
più la tendenza che sicuramente caratterizza la mentalità e i costumi, in
questi paesi e sempre più anche nel nostro, è esattamente il contrario della
logica familista in cui il patriarcato in passato affondava le sue radici e si
manifesta, piuttosto, nel prepotente emergere della figura del single, sempre
più svincolata dalla rete di legami vincolanti entro cui le persone si
identificavano.
Emblematica
la crisi dei vincoli familiari. Ormai in Europa le famiglie formate da una sola
persona sono più numerose di quelle costituite da una coppia con figli. Nei
paesi europei nel 2021 sono state il 35,9 %, in Germania e Francia il 41 %, in
Svezia al 50,1 %). In Italia sono ancora solo 33,2 % – contro il 31,2 % di
quelle mononucleari tradizionali, ma nel 2000 erano ancora solo il 24,0 % e il
trend non lascia dubbi su quale sia la direzione in cui si procede.
C’è
da chiedersi, a questo punto, se il fenomeno dei femminicidi dipenda davvero
dalla «cultura patriarcale» o non sia piuttosto, al contrario, la conseguenza
del suo dissolversi.
Una
dissoluzione che da un lato ci ha liberati, fortunatamente, dalla figura
soffocante del “padre-padrone”, dall’altro però – invece di dar luogo a forme
comunitarie, in cui il singolo possa essere valorizzato nella sua unica e
irripetibile originalità, non malgrado i legami con gli altri, ma grazie ad
essi – ha dato luogo a un individualismo selvaggio, di cui proprio il trionfo
del single è l’espressione.
Perché
quello che si verifica oggi nella violenza sulle donne non è tanto – come in
passato – la loro sottomissione a meccanismi collettivi di potere gestiti dagli
uomini in funzione del gruppo (si pensi alla monaca di Monza, sacrificata dal
padre agli interessi della famiglia), quanto piuttosto lo sfogo di una radicale
insicurezza e frustrazione individuale del maschio, ormai esposto dalla
emancipazione femminile alla vittoriosa concorrenza che le donne sono sempre
più in grado di svolgere in tutti i campi.
A
dispetto dei frequenti riferimenti polemici dei commentatori al medioevo,
quella con cui oggi dobbiamo fare i conti non è la logica medievale, ma quella
neocapitalista del mercato, non a caso ancora più diffusa in Germania e in
Olanda che non da noi.
L’amore
al tempo dell’individualismo
Il
concetto medievale e cristiano di amore come dono di sé – proteso al bene
dell’altro – era sempre rimasto un ideale in pratica spesso contraddetto
proprio dalla struttura patriarcale della società. Ma, nel trionfo
dell’individualismo, è ormai dimenticato, sostituito, nel modo pensare e di
sentire comune (ferma restando la felice realtà di tante eccezioni), da quello
che lo identifica con una ricerca autoreferenziale di appagamento delle proprie
pulsioni, di cui la persona “amata” è in realtà solo lo strumento.
L’immagine
che si prospetta è quella del “buco nero”, che attira tutto ciò che entra nella
sua orbita, per fagocitarlo e distruggerlo.
Questa
trasformazione culturale non riguarda, ovviamente, solo gli uomini, ma anche le
donne, esposte anche loro, come il sesso maschile, a scambiare l’amore per
l’altro (il medioevo lo chiamava “amore di benevolenza”) con l’amore di sé
attraverso l’altro (il medioevo lo chiamava “amore di concupiscenza”).
A
fare scattare il meccanismo della violenza di genere, da parte dei primi, è il
corto circuito fra un passato ancora fresco in cui le strutture sociali
garantivano all’uomo una indiscussa supremazia sia nel lavoro che nei rapporti
affettivi – e un presente che la rimette radicalmente in discussione,
determinando in molti maschi l’insicurezza e la frustrazione di cui prima si
parlava.
Sui
giornali si è a lungo dibattuto, in questi giorni, se Filippo Turetta sia un
bravo ragazzo che è diventato un mostro o un mostro che si è sempre fatto
credere un bravo ragazzo. Probabilmente è solo una persona che – al pari della
maggior parte degli altri ragazzi – non ha mai scoperto l’amore come dono di sé
e ha vissuto il suo rapporto con la propria fidanzata come il naufrago lo ha
con la tavola a cui si aggrappa per non annegare. Un modo sbagliato di
concepire e vivere l’amore.
Per
superare questo, evidentemente, i cortei e le manifestazioni possono avere
effetti molto limitati. Servirebbe, se
mai, una seria riflessione su ciò che intendiamo quando, oggi, parliamo, a ogni
pie’ sospinto, di questo sentimento. Ma è più facile protestare che pensare.
E
anche l’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole rischia di
fare la fine di quella sessuale (spesso già presente, pur in modo occasionale),
ridotta alla fine all’istruzione sull’uso degli anticoncezionali, se non avremo
il coraggio di rimettere in discussione, piuttosto che i “mostri” evidenziati
dalla cronaca, il nostro modo di pensare e, in definitiva, noi stessi.
*Scrittore ed editorialista.
Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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