Guerra in Israele,
il ricatto dei media
sui prof
lascia soli gli
studenti
Molti docenti temono di essere accusati
di faziosità e per questo rinunciano a spiegare agli studenti cosa sta
succedendo in Israele.
Ma così è una sconfitta per tutti.
-
di Domenico Fabio Tallarico
Nelle
scorse settimane nelle mie classi ho chiesto se qualche altro docente avesse
parlato di ciò che sta accadendo in Israele e ho scoperto che pochissimi
avevano affrontato la situazione. La paura di essere incasellati in una parte
con il rischio di essere accusati di faziosità, l’ansia nel rincorrere il
programma, le interrogazioni, le verifiche hanno prevalso rispetto alla
drammaticità dei video e delle immagini degli attentati terroristici in Israele
e delle bombe su Gaza, nelle poche classi in cui si è accennato qualcosa si
sono accese discussioni e divisioni di schieramenti, specchio del dibattito
pubblico tra chi è a favore di Israele o della Palestina, una discussione che
senza un approfondimento serio pieno di ragioni porta soltanto ad aumentare le
distanze piuttosto che favorire punti di incontro. Ma dove hanno preso gli
studenti il loro pregiudizio? Dai social, dalle storie Instagram, dai reel o
dai video brevi su TikTok, tutti luoghi in cui è impossibile un confronto e un
dialogo.
Se
l’educazione non viene più fatta a scuola, nelle famiglie o nei corpi intermedi
viene fatta dai social e dobbiamo mettere in conto il fatto che sarà sempre più
un’educazione che tende a posizione estreme, quelle posizioni più semplici da
far proprie, che separano tutti in bianchi da una parte e neri dall’altra,
anche su fatti che per natura o storia invece sono complessi e avrebbero
bisogno di approfondimenti ragionati. Nel circolo vizioso tipico dei social e
degli algoritmi ognuno continuerà a seguire e ad ascoltare soltanto le
posizioni più vicine alle proprie, radicalizzando sempre più le proprie idee e
vedendo nell’altro un nemico politico o religioso da abbattere verbalmente o
anche fisicamente, come è successo con l’assassinio del professore di storia in
una città francese.
Con
i giovani invece c’è bisogno di costruire luoghi di dibattito, di dialogo e
anche di incontro/scontro per approfondire le ragioni dell’altro e nel nostro
contesto sociale uno dei pochi luoghi in cui questo può avvenire è proprio la
scuola. Certo c’è bisogno di insegnanti che rischino in un rapporto con i
propri alunni, ma non si possono lasciare i ragazzi in balia di ideologie,
gruppi di potere o estremismi veicolati attraverso i social, come non si può
lasciare l’iniziativa ad un singolo docente ben disposto ad immolarsi durante
le proprie ore, con il rischio di apparire come il singolo contro gli
estremismi. C’è sempre più bisogno di una comunità e una scuola dietro ai
docenti che vogliono ancora educare. Lo psicologo premio Nobel nel 2020 Daniel
Kahneman ha dimostrato con esperimenti come “un modo sicuro di indurre la gente
a credere a cose false è la frequente ripetizione, perché la familiarità non si
distingue facilmente dalla verità”, i social rappresentano bene la situazione
attuale della disinformazione e della divisione in un dibattito come quello
dello scontro tra Israele e Palestina.
Il
terreno fertile per l’estremismo è quello dell’indifferenza, di chi non vuole
rischiare un giudizio per il quieto vivere borghese, soprattutto all’interno di
una classe. In gioco c’è il futuro dei nostri ragazzi e il futuro del nostro
Paese. La scuola e i docenti sono pronti ad affrontare questa sfida o si sono
già arresi al nichilismo veicolato attraverso i social?
Il
Sussidiario
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