verso
la speranza:
i gesti dell'incontro
Giovanni Cesare Pagazzi*
Si ricevono saluti fin dai primi giorni di
vita, quando i genitori – con indubbio protagonismo della madre – compiono nei
riguardi del bambino il gesto iniziale di ogni saluto: guardare un volto,
ospitarlo nel proprio campo visivo, riconoscendolo degno di attenzione. Anche
quel saluto li rende genitori. A ben vedere, l’azione dei due adulti è assai
coraggiosa, poiché guardano chi al momento non può ricambiare lo sguardo e
quindi nemmeno il saluto. Salutano chi certamente non saluterà. Il saluto arriva
al bimbo da fuori (dalla mamma e dal papà), prima che egli possa desiderarlo e
immaginarlo. Come Dio che giunge dall’esterno, dall’alto, fuori portata. I
primi saluti dei genitori sono anche le esperienze iniziali della trascendenza. Il benvenuto
della mamma e del papà, generoso e apparentemente privo di senso, dura per
tutto il primo mese di vita del piccolo, al termine del quale il bimbo
finalmente sarà in grado di ricambiare lo sguardo. Lo stesso accade con un
altro elemento costitutivo di ogni saluto compiuto: il sorriso. Infatti, papà e
mamma sorridono continuamente al bambino, nonostante egli non possa
contraccambiare; e ciò almeno per due mesi. Grazie al coraggioso saluto
iniziale dei genitori, il fuoco passa da una candela accesa ad un’altra ancora
spenta, avviando la combustione di un’anima al momento inerte, ma già pronta ad
infiammarsi. Infatti, restituendo sguardo e sorriso, salutando a sua volta, il
bimbo pronuncia in modo tutto gestuale il suo primo “Io sono” e il suo primo
“Tu sei”. Se i genitori non avessero salutato per primi, e continuato a
salutare a vuoto, cosa sarebbe successo? O meglio: cosa non sarebbe accaduto? Il primo
“Io sono” e “Tu sei” ha luogo, come ogni sorriso, attorno alla bocca, vale a
dire la porta del corpo, da dove fin dall’inizio entra l’aria e, subito dopo,
il latte; in breve: la vita. Vita e sorriso abitano da sempre la stessa casa.
L’uomo non separi ciò che Dio ha unito.
Non per nulla una delle più commoventi liriche
del ’900 italiano comincia con «Ripenso il tuo sorriso». Il primo stico della
poesia non recita “Ripenso al tuo sorriso”, alludendo a un’operazione
mnemonica, bensì «Ripenso il tuo sorriso», come se quell’espressione facciale
fosse oggetto di riflessione, tema di meditazione raccolta, ragionamento e
valutazione. Insomma, il sorriso dà a pensare. Tra molte altre cose, con logica
poetica, il testo di Eugenio Montale argomenta che il sorriso è una cosa seria.
Effettivamente è una delle sorgenti dell’umanità dell’uomo e l’abc del saluto. Con buona pace di Cartesio, posso
affermare «Io sono» non è perché «Io penso», ma perché fin dall’inizio sono
stato salutato e ho ricambiato il saluto. Perciò il regista Robert Zemeckis,
nel film Cast Away (2000), racconta come il sorriso sia il gesto necessario e
sufficiente a indicare l’umanità dell’uomo. A motivo di un incidente aereo,
Chack Nolan, funzionario di una famosa ditta di spedizioni, si ritrova su un
atollo disabitato, sperduto in mezzo all’oceano. Sopravvive grazie a qualche
provvista e utensile, relitti dell’aereo, rigurgitati dall’oceano sulla
spiaggia dell’isolotto. Tra queste cose, trova un pallone da pallavolo. Con il
proprio sangue disegna sulla palla i tratti di un volto, dove spicca un
sorriso. Da quel momento il pallone diventa Wilson e sarà l’unico interlocutore
di Chack durante i quattro anni di solitudine. Con lui si confida, litiga, si
riconcilia, scherza; per lui piange, straziato di dolore, quando, abbandonando
l’atollo su una zattera, Wilson finisce in mare e la deriva rende vano il
pericoloso tentativo di recuperarlo. Il sorriso transustanzia una cosa in una
persona. Cosa significherà la sua perenne assenza da un volto?
Il sorriso ricevuto fin dagli inizi della vita
e scambiato salutando da adulti manifesta interesse e desiderio della pace.
Isolato, l’interesse per qualcuno può scatenare violenza e ingiustizia. Con il
sorriso, se non è artificiale né falso, il corpo invita l’altro a disarmarsi,
poiché per primo ha deposto le armi. Infatti, col sorriso si mostrano le armi
più potenti e letali dei mammiferi: i denti, la morsa micidiale che cattura,
ferisce, sbrana prede e nemici. I muscoli più robusti del corpo umano sono i masseteri,
protagonisti dell’apertura e occlusione della mandibola. Artefici della
triturazione, esercitano una forza di circa 100 chilogrammi. Alcuni dipinti di
Francis Bacon rendono in maniera inquietante la violenza bramosa e angosciata
di bocca e denti. Nella distensione del sorriso, si disinnesca quindi
un’energia potenzialmente mortale, intavolando una trattativa di pace. Non è
possibile addentare e al contempo sorridere. Certo, esistono tanti tipi di
sorriso quanti aggettivi nei dizionari. In ogni caso, quando il sorriso
riverbera l’affetto sorgivo provato all’inizio della vita non esprime altro che
il candido piacere di esistere, il piacere che l’altro esista e perciò è
l’intrepido avversario del nulla.
Se si eccettua il solenne saluto rivolto dagli
antichi poeti a Virgilio, di passaggio per il Limbo, nell’Inferno dantesco né
si saluta né si sorride. Giunto in Purgatorio, il fiorentino non torna solo «a
riveder le stelle», ma anche i saluti e i sorrisi. Con la luce, il sorriso è la
caratteristica principale del Paradiso secondo Dante. Lì tutto e tutti
sorridono. In Paradiso sorridono i santi e le sante, i pianeti e cieli,
l’universo intero. Il Dio di Dante assomiglia a una mamma che accende il primo
sorriso nella sua creatura e riesce a far sorridere di nuovo, perfino dopo il
tristissimo pianto della morte. Che potere!
Al dire di alcuni studiosi, anche altre
componenti del saluto – il bacio e la stretta di mano – farebbero parte della
gestualità infantile. Il bacio, infatti, avrebbe un’origine alimentare.
Anticamente, durante lo svezzamento, le madri premasticavano il cibo,
facilitandone l’assunzione e la digestione da parte del piccolo. Attraverso la
lingua e le labbra la donna passava direttamente nella bocca del bambino
l’alimento da lei prima triturato. Così pure il bacio sulle guance,
accompagnato dal movimento laterale del capo, richiama il gesto eseguito dal
lattante alla ricerca del seno materno. Infine, la stretta di mano rievoca la
mano tesa del papà e della mamma che sostengono il bimbo nei suoi primi passi
incerti e gli dimostrano vicinanza e affetto quando, più grande, lo
accompagnano mano nella mano. Se così stanno le cose, molti degli elementi
comuni ad ogni saluto riporterebbero l’incontro di chi si scambia il benvenuto
o si congeda alle promesse di affetto fedele che i genitori, la casa e le cose
fecero ad ogni bambino e bambina all’origine della loro vita. La gestualità dei
saluti (compresa quella dei Maori che contemporaneamente si toccano fronte e
naso) sarebbe un’immersione quotidiana, ripetuta più volte al giorno, nelle
promesse ricevute durante l’infanzia, un reciproco incoraggiamento e impegno
affinché tali promesse siano mantenute.
Il saluto è
l’offerta preliminare di se stessi, l’ingresso nella vita di un altro. Ci si
accredita presso l’interlocutore attraverso gesti primordiali (lo sguardo, il
sorriso, la mano tesa…), sollecitando il ricordo di un’infanzia comune. In tal
modo si ravviva una familiarità sopita e immemorabile, precedente ogni
consapevole iniziativa. Come a dire: pur non conoscendoci, parliamo lo stesso
linguaggio, o meglio, direbbe Marcel Jousse, lo stesso «corporaggio», appreso
agli esordi della nostra vita. Il saluto ci precede entrambi e in tal modo ci
accomuna. Quando ci salutiamo, quindi, ci troviamo già nel saluto,
perciò siamo capaci di salutare. La cosa è ancor più evidente quando si
incontrano persone di lingua e cultura diverse, caratterizzate anche da chiare
differenze gestuali nel salutare: non comprendono le parole l’uno dell’altro e
magari si meravigliano della estraneità dei gesti, tuttavia ciascuno intuisce
che l’altro sta salutando.
Si saluta perché
ci si sente accumunati da qualcosa e in vista del potenziale sviluppo di quanto
sta già alle nostre spalle. Infatti, chi saluta sonda la possibilità
dell’inizio di una relazione, sia essa istantanea o duratura. Se questo
interesse e intenzione mancassero del tutto, perfino il semplice “Buon giorno”
sarebbe una gaffe. Chi saluta per primo, specie in un incontro inedito o
nel tentativo di ricucire un rapporto, si espone alla varietà di reazioni di
chi è salutato, accettando il rischio di essere respinto, magari molto
gentilmente. Salutare per primi è espressione primigenia e quotidiana di
coraggio il quale è «l’inizio di tutto». Il coraggio è una spinta primaria e
fondatrice, su cui si aggancia la fedeltà, cioè la virtù della continuazione. Senza
coraggio, nessuna azione, nessuna relazione, nessuna fedeltà.
Tra le sfide più complesse ed esaltanti di un
bambino sta la prima pedalata in bicicletta, senza il supporto rassicurante
delle rotelle posteriori. Insieme alle due ruote maggiori, garantiscono quattro
punti d’appoggio e stabilità completa, ma rendono il veicolo più simile
all’infantile, impacciato triciclo che alla bicicletta elegante e svelta. Prima
della pedalata sulle sole due ruote, a volte è opportuno un passaggio
intermedio: mantenere almeno una rotella posteriore. Così il piccolo può
assaggiare l’equilibrio instabile della bici e, all’occorrenza, contare su un
terzo comodo sostegno. Tuttavia, prima o poi, arriva il momento di lasciare
anche quest’ultima sicurezza. Certo, gli stadi precedenti hanno preparato il
bambino a questo appuntamento, eppure andare su due ruote è un’esperienza
d’ordine diverso; tutt’altra cosa. Molte sono le azioni richieste: pedalare,
governare manubrio e freni, guardare avanti, studiare il fondo stradale,
evitare ostacoli d’ogni genere e, naturalmente, mantenersi in equilibrio. Tutte
faccende da sbrigare contemporaneamente. Oltre a questo, il piccolo che inforca
la bici per la prima volta, deve sorbirsi le sacrosante raccomandazioni dei
genitori: “Sta’ attento!”, “Non andare veloce!”, “Pedala!”, “Guarda dove vai!”,
“Alza la testa!”, “Non guardare la ruota!”, “Accelera”, “Frena!”, “Non
Frenare!”. Roba da far passar la voglia d’andare in bici. A ciò si aggiunge la
comprensibile paura di cadere. La paura induce a un’eccessiva prudenza, magari
sostenuta da pensieri troppo puntigliosi. Se il bimbo organizzasse mentalmente
la sequenza delle azioni da compiere, enumerandole e classificandole in un
ordine preciso, si spaventerebbe ancor più. Se volesse prevedere ogni mossa e
l’insieme delle variabili di un atto così complesso, rimanderebbe il primo
colpo di pedale all’infinito, al giorno impossibile in cui avrà tutto sotto
controllo. Pretendendo di avere la certezza della riuscita prima di agire, non
agirà mai. In questo caso, a nulla serve l’insistenza dei genitori circa la
facilità dell’esecuzione. Inutile anche un’argomentata dimostrazione fisica
dell’effetto giroscopico, garante dell’equilibrio della bici. Il bambino rimane
comunque bloccato; non lo persuadono né propri né altrui sillogismi. Eppure,
nessuno può prendere il suo posto; il piccolo si trova di fronte alla propria
insostituibile unicità: tocca a lui, a nessun altro.
Cosa trasforma il suo desiderio di andare in
bici nella prima, effettiva pedalata? Cosa getta un ponte senza pilastri sul
buio vuoto della paura, dell’indecisione e degli alibi codardi? Il coraggio che
è l’abc della speranza. Si afferma e si impone, non si sa come, non si
sa da dove, quel “non so che”, il fiat lux del coraggio. Nel caos
dell’anima, immobile anche se agitato da tentennamenti e scuse, irrompe
tranciante, drastica e ineluttabile una decisione inaugurale che, protestando
contro l’inerzia di una coscienza troppo avvertita, troppo lucida, calcolatrice
e preveggente, crea qualcosa di nuovo. Non amando i fronzoli (né mentali né
emotivi), il coraggio arriva subito al punto; mira al necessario, evitando
tutto quanto dissipa la forza d’urto della decisione inaugurale. Perciò il
coraggio assomiglia alla povertà, alla virtù che vede nel superfluo
un’indecente perdita di tempo e di energie. «Beati i poveri in spirito»… perché
in genere hanno coraggio da vendere. Vuoi vedere che, gratta gratta, sotto chi
accumula sta una persona senza coraggio?
Spinto dal presagio di riuscire e dalla
disponibilità a cadere, rompendosi le ossa, il bambino innesca il fuoco sacro,
ben più misterioso della chimica che l’ha prodotto. Il coraggio non lo
trasforma nell’avventuriero imprudente che gioca con la paura e la morte per
darsi una statura truccata, o procurarsi una scossa antidepressiva. Semmai lo
rende avventuroso: uno che rischia la vita in nome della vita. Ed ecco
l’inizio, l’inaugurazione di una nuova era nella vita del piccolo. C’è un prima
e un dopo quel colpo di pedale. Come il prima e il dopo la creazione della
luce.
La biciletta è una cosa curiosa:
paradossalmente, la sua stabilità è ottenuta tramite la dinamica. Più pedali e
ti muovi, più sei stabile, in equilibrio; se stai fermo, cadi. Ecco allora che
dopo la prima pedalata deve arrivare la seconda, la terza, la quarta e così
via…. Il movimento è regolare, un cerchio perfetto tracciato da ciascun piede,
eppure andare in bici esige un continuo adattamento alle anomalie dell’asfalto,
a pedoni e auto che attraversano all’improvviso, all’alternarsi di curve,
rettilinei, controcurve (il modo migliore per andare fuori strada è andare
sempre dritto!). Ciò significa che per essere fedeli al primo colpo di pedale,
è necessaria una lunga serie di nuovi piccoli ricominciamenti di coraggio.
Vladimir Jankélévitch direbbe: «il coraggio non è solo lo spasimo della prima
decisione, ma uno stato», la paziente, fedele continuazione dell’inizio, del
primo colpo di pedale. Se un atto di coraggio non generasse un coraggioso
sarebbe solo un caso fortuito, un episodio accidentale. Il coraggio è così
miracoloso da reclamare fedeltà. Del resto, è risaputo: per rimanere fedeli ci
vuol coraggio.
Chi saluta per primo non si dà alibi, non cede
ai calcoli, non si ingarbuglia nell’enumerazione interminabile dei pro e
contro, ma si sbilancia verso il vuoto, risolvendo tutti gli eventuali problemi
di quel saluto, salutando. Chi saluta per primo
non dosa, ma rischia il tutto per tutto con larghezza d’animo. In questo senso
il primo saluto ha anche una dimensione sacrificale oltre a quella creativa:
per inaugurare qualcosa di nuovo non bada a spese. Con espressione ruvida e
magnifica, Jankélévitch afferma che «il diavolo non può farci male, ma può
farci paura. Il diavolo crepa per la nostra innocenza e il nostro coraggio»[i].
Ci mette paura per spegnere il nostro coraggio. Magari ci vuole avventati,
imprudenti, ma non coraggiosi, perché nel coraggio scintilla l’immagine e la
somiglianza di Dio; come nel gesto assurdo dei genitori che continuano a
guardare chi non guarda, a sorridere a chi non sorride, o nell’iniziale
pedalata del bambino, o nello sbilanciamento del primo saluto. Dio infatti è il
Coraggioso, perché, da sempre, nella sua libertà, ha deciso di
esistere, esponendosi sulle tenebre immani e inerti del nulla. Se davvero Dio è
infinitamente libero – argomenta con tocco commosso e mistico il filosofo
italiano Luigi Pareyson – paradossalmente, avrebbe potuto perfino decidere di
non esistere, rimanendo nella confusione statica di un nulla, dove tutto è
possibile, ma niente prende forma. Tuttavia, da sempre, con un lampo improvviso, pur potendo negarsi, la libertà di Dio
afferma audacemente se stessa: “Io sono”, «un’operazione immane e terribile»[ii],
il primo atto di coraggio che insorge contro la vigliaccheria informe e sterile
del nulla. Da quella originaria, eterna decisione consegue che esistere è cosa
buona. Perciò, da sempre, Dio volle essere Padre, dando esistenza a un
altro, al Figlio, per mezzo del quale «tutte le cose sono state create» (Col
1,16). “In principio era il coraggio” e niente e nessuno sarebbe avvenuto senza
di esso. Un sasso, una foglia, un lupo, un delfino, una stella, il vento, un
uomo e una donna, un bambino sono segni del coraggio eterno di Dio.
Chi saluta per primo è coraggioso, perché non
teme di passare alle dipendenze del suo interlocutore: risponderà? Rifiuterà?
Inoltre, è coraggioso poiché non si vergogna di mostrarsi bisognoso. Infatti,
non maschera il proprio bisogno di riconoscimento e di conferma, ma lo esprime
senza paura. Nel saluto vibra sia la generosità di chi si offre sia la
necessità di essere accettato. Del resto, il bisognoso esprime al contempo la
propria mancanza e la bontà di quanto gli occorre; proprio come la fame che simultaneamente
dice: “lo stomaco è vuoto e il pane è buono”.
Chi saluta per primo si espone all’altro e
contemporaneamente gli si impone. Infatti, il primo saluto è un’intrusione che
scuote lo stato affettivo, il flusso dei pensieri, il ritmo delle intenzioni o,
più semplicemente, l’azione dall’altro. Anche chi risponde al saluto non manca
di coraggio, poiché accetta di uscire dall’involucro omeostatico dell’istante
vissuto, prendendo una nuova posizione. Chi reagisce al saluto si scomoda, nel
senso letterale del termine: esce dalla comodità del proprio vissuto. Ciò avviene
anche se decidesse di non rispondere al “Buongiorno” e tirar dritto per la sua
strada; in ogni caso l’incanto del suo stato d’animo è rotto e deve
raccoglierne i cocci. Se chi saluta per primo ha il coraggio di prendere
l’iniziativa, chi risponde ha il coraggio di lasciarsi disturbare. Nessuno dei
due sarà più come prima. Insomma, al fiat lux del primo saluto
corrisponde il fiat voluntas tua
di chi risponde. Difficile che non capiti qualcosa di miracoloso nell’incontro
di questi due fiat.
Siamo in un tempo in cui si saluta meno;
qualcuno dice anche a motivo del Covid. Pochi sono quelli che salutano lungo la
strada, sul treno, in negozio… perfino entrando o uscendo da una Chiesa. È raro
anche il solo cenno di un sorriso, o lo scambio di sguardi. È un tempo
scoraggiato? Coraggio!
Al primo incontro, i saluti inaugurano un
nuovo legame. A relazione già stabilita, essi hanno soprattutto la funzione di
confermarla, attraverso un reciproco «debito gestuale», commisurato al tempo di
separazione di chi ora si ritrova. Tanto più prolungata la lontananza, tanto
più caloroso è il saluto, quasi a recuperare il tempo perduto. Emblematico è il
bisogno di salutare dei bambini: salutano molto più frequentemente degli
adulti, magari col solo sorriso. Ciò a motivo della necessità di continue conferme
dell’affetto dei genitori e di chi si prende cura di loro. Così pure, a tutte
le età, la ripresa incerta dei saluti dopo un litigio assicura comunque la
persistenza della relazione, nonostante lo scontro avvenuto. Al contrario,
togliere il saluto equivale alla ferma, grave decisione di rompere
definitivamente un rapporto, addirittura privandolo in anticipo della più
semplice chance di ricomposizione.
Perché attraverso la ripetizione del saluto
sentiamo il bisogno di confermare legami già stabili, e perfino intimi? Non
credo si tratti solo di generica ricerca di sicurezza. Piuttosto è segno dell’inconsapevole
riconoscimento di quella novità arrecata ogni giorno dalla vita. Certo, la
donna a cui stasera dico “Ciao”, “Ben tornata” è la stessa a cui stamane dissi
“Buona giornata”, quando uscì di casa; ed è la medesima che sposai quasi dieci
anni fa. Eppure, le ore di vita trascorse dal saluto mattutino hanno prodotto
in lei un tocco nuovo, una sfumatura inedita, dovuta alle esperienze di oggi.
Ebbene, questa donna, conosciuta e sconosciuta, è ancora disposta a vivere con
me? Ecco che il rinnovato saluto verifica la possibilità della prosecuzione
dell’antico legame, ora dotato di gradazioni impreviste. Perciò anche i saluti
tipici di una relazione duratura inaugurano sempre qualcosa di nuovo. Sono le
sentinelle della novità e i suoi custodi.
I saluti confermano il legame soprattutto al
momento del congedo, diventando particolarmente calorosi, quasi a voler
sopperire alla lontananza, compensando il vuoto dell’assenza. Essi promettono
la permanenza del vincolo nonostante la separazione. Indicativo è lo speciale,
quotidiano congedo dei genitori dai bambini, poco prima della notte. Il buio,
la perdita di controllo tipica del sonno rendono il distacco notturno
spaventoso agli occhi dei piccoli. Temendo che la notte interrompa il loro
legame con il papà e la mamma, esigono un saluto più duraturo ed efficace. Ecco
allora l’interminabile “Buona notte”, fatta anche di ninnenanne e racconti di
fiabe, già ascoltate chissà quante volte. Il “buongiorno” del nuovo mattino
ricomporrà la frattura oscura della notte, mantenendo la promessa fatta prima
di cadere nel sonno.
Prevedendo realisticamente che un incontro
sarà l’ultimo, il congedo diventa pressoché definitivo. In questo caso, almeno
nelle lingue neolatine, il saluto fa esplicito riferimento a Dio, come se egli
fosse il Signore degli incontri e del loro destino; quasi che la permanenza di
un legame nonostante la separazione definitiva risultasse garantita da Dio a
cui spetterebbe allestire il luogo di un futuro, sperato, inimmaginabile
ritrovo. Perciò: “Ad-Dio”, “A-Dieu”, “A-Diós”. Anche in congedi provvisori spesso
è evocato e invocato Dio. Solo pochi esempi di un fenomeno linguisticamente
molto diffuso in tutto il mondo: “Dio ti benedica”, “God bless you”; così pure
nel probabilmente più diffuso congedo: “Goodbye” e le sue abbreviazioni “Bye
bye”, “Bye”, derivanti dall’inglese antico e medio “God by ye”: “Dio sia con
te”. Così pure nella lingua moore del popolo Mõose, in
Burkina Faso: “Wẽnd na maneg f sore”: “Dio benedica la tua strada”. Dio è
ricordato anche in alcuni saluti iniziali; solo un paio di esempi: il gaelico
“Dia Dut”, “Dio sia con te” o il tedesco “Grüß Gott”, “Dio ti benedica, Dio ti
saluti”. Insomma, sembra che quanto avviene durante i saluti sia così gravido
di senso che è bene coinvolgere Dio. Ovvero è gravido di senso perché, sotto
copertura, Dio ne è già coinvolto?
Se salutando si spera nel ricambio e nella
conferma, la visita ai defunti per congedarsi da loro è uno dei più eloquenti
paradossi umani. Perché si va a salutare chi certamente non risponderà? Perché
si visita, bacia accarezza chi non potrà mai più ricambiare il saluto? Perché,
nonostante si abbia l’assoluta certezza circa l’incapacità dei morti di
corrispondere, si compiono tali gesti? Insensatezza? Follia? O coraggio? Magari
il medesimo coraggio avuto dai nostri genitori quando ci salutarono appena nati,
pur sapendo che non avrebbero ricevuto risposta. Lo stesso coraggio provato da
noi stessi quando, adulti, salutiamo i neonati, ancora incapaci di guardarci e
sorriderci. Da dove viene questa decisione che rompe gli indugi pedanti della
logica e del buon senso? La vita di un uomo e di una donna è tesa tra due
saluti impossibili: il saluto che riceviamo appena nati e il saluto che
riceviamo appena morti. Questi due doni si trasformano per noi nel dovere di
dare a nostra volta il benvenuto a chi nasce e nell’impegno di congedarci da
chi muore. Il saluto all’inizio e quello al termine della vita sono troppo
simili per non essere parenti: se nell’addio al defunto vibra il medesimo
coraggio che animò gli sguardi e i sorrisi diretti al bambino, cosa ci si
aspetta da questo morto? Cosa ci si aspetta per questo morto? Certamente Cristo
si aspetta molto dai morti e per i morti, tant’è che a loro rivolse parole,
come se potessero sentire, e comandi, come potessero obbedire. Così fece con la
ragazzina defunta - «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc
5,41) -, con il figlio della vedova - «Ragazzo, dico a te: alzati!» (Lc 7,15)
-, con il suo amico: «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). Noi umani non ci
rendiamo conto del coraggio che abbiamo, salutando i morti; della speranza che
nutriamo, congedandoci dai morti; siamo come genitori che danno la “Buonanotte”
ai loro bambini. Salutando i morti, gettiamo il cuore al di là della notte,
oltre la morte. Questo gesto è così importante che in tutte le culture e in
ogni epoca si trovano riti di saluto ai morti; perfino in contesti non
religiosi o addirittura antireligiosi.
Il rito delle esequie cristiano è esplicito.
Al termine della celebrazione della Messa, si vive il momento chiamato «Ultima
raccomandazione e commiato», dove s’incoraggia l’assemblea e si saluta il
defunto.
Vien da chiedersi:
cosa può un saluto? Quanto può un saluto? Il Vangelo di Luca è particolarmente
interessato alla questione. Chissà cosa stava facendo Maria quando l’angelo
Gabriele irruppe nella sua vita. In ogni caso, il saluto dell’angelo «turba» la
ragazza che comincia a farsi domande. Ciò che la scuote e la interroga non è
tanto l’apparizione di un angelo – la cosa non la scompone affatto – piuttosto
il suo saluto (Lc 1,26-38). La maestà inimmaginabile del messaggio di Gabriele
lascia senza fiato il lettore, col rischio di relegare sullo sfondo un
dettaglio prezioso: il primo atto dell’angelo, e quindi di Dio stesso, è
salutare. Dio si rivela anche come uno che saluta… e saluta per primo. In ogni
caso, prima di trasmettere un messaggio, Gabriele porta i saluti. Ho detto che
chi saluta per primo passa alle dipendenze di chi viene salutato: ricambierà o,
indifferente e infastidito, respingerà l’offerta? In ogni caso, c’è un “prima”
e un “dopo” quel gesto; chi saluta non sarà più quello di una volta. E questo
vale anche per Dio. Rivolgendole il saluto, Dio considera la ragazza di Nazaret
coprotagonista dell’evento, al punto che il seguito dell’incontro è nelle sue
mani. Gabriele saluta usando l’imperativo del verbo greco chairein, che
significa «Rallegrati». Si tratta di un modo molto comune e quotidiano di
porgere i saluti; frequente nella letteratura greca e utilizzato anche nel
Nuovo Testamento. Vi ricorre perfino Giuda, poco prima
di baciare Gesù: «Salve, Rabbì», letteralmente: «Rallegrati, Rabbì» (Mt 26,49).
Qualche studioso insiste nell’interpretare il «rallegrati» rivolto a Maria alla
luce di alcune antiche profezie, dove l’invito a gioire era diretto a
Gerusalemme a cui si annunciava l’imminente liberazione da parte di Dio (Sof
3,14, Zac 9,9 e Lam 4,21). Perciò l’angelo saluterebbe Maria come la Città
Santa finalmente visitata dal Salvatore. Anche se altri commentatori invitano
alla prudenza, l’assonanza con quelle profezie è sorprendente. Tuttavia,
stupisce l’argomento principale addotto dai sostenitori dell’interpretazione
profetica: se così non fosse, il saluto di Gabriele suonerebbe pressappoco come
“Buongiorno”, o “Buonasera”, risultando oltremodo «banale» rispetto alla
rilevanza dell’Annunciazione. Insomma, quanto avviene a Nazaret è troppo importante
per un comune “Buongiorno”, sicché il saluto dell’angelo deve avere un
significato più profondo. Ma perché quanto è comune dovrebbe essere banale?
Certamente Gesù non è di questo avviso. Infatti, annunciando la presenza
operante di Dio nella storia, il Regno dei Cieli, egli la scorge nelle realtà
più comuni e feriali della vita. Non solo, per lui il saluto è il primo passo
dell’evangelizzazione, dell’annuncio: «In qualunque casa entriate prima dite:
“pace a questa casa”» (Lc 10,5); cioè: “dite shalom”, “salutate”. Cristo chiede di salutare, e di salutare per
primi, come fece sua madre, entrando nella casa di Zaccaria (Lc 1,40). Luca si
sofferma sul dettaglio, non considerandolo affatto banale. Tanto è vero che
l’azione di Maria, in sé appunto ordinaria, provoca in realtà un’onda d’urto
che il vangelista si compiace di narrare: «Appena Elisabetta ebbe udito il
saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di
Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il
frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga a
me?”» (Lc 1,41-43). Il saluto di Maria fa risuonare l’intero corpo di
Elisabetta, fino a raggiungerne il grembo, abitato dal Battista. A sua volta il
corpo del piccolo risuona, saltando di gioia. Non solo: il saluto produce
l’irruzione dello Spirito Santo nell’anziana che immediatamente viene a
conoscenza della gravidanza di Maria, definita «madre del mio Signore». Non
male per essere un gesto di tutti i giorni!
Guardate dove
siamo arrivati partendo dall’esperienza comune del saluto: al mistero
dell’Incarnazione, allo stile dell’evangelizzazione.
Una
decina d’anni fa, il mondo sorrise alle prime parole dell’appena eletto papa
Francesco: «Fratelli e sorelle, buonasera». Un gesto semplice, pieno di senso e
di speranza, capace di raccogliere tutta l’umanità (cristiani e non, credenti e
non) in una piazza. Un esordio apparentemente insolito; in realtà non così
nuovo. Infatti, una sera di circa duemila anni fa, un ebreo andò a trovare i
suoi amici. Inatteso, arrivò in casa e salutò come tutti gli ebrei fanno:
«Shalom!». Data l’ora, era come se avesse detto: “Una sera piena di pace!”,
“Buona sera!” (Gv 20,19). Quell’ebreo era appena risorto dai morti. Eccome se
era buona quella sera!
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