e la ferocia di Narciso
L'assassinio di Giulia
ci interroga
- - di Massimo Recalcati
Sappiamo bene chi sono
gli uomini che odiano, maltrattano e uccidono le donne. Sono gli uomini che
rifiutano la libertà della donna. È questa l’essenza più pura del maschilismo
in quanto figlio naturale dell’ideologia del patriarcato. Il suo presupposto è
l’idea che la donna sia afflitta da una minorità ontologica, morale e cognitiva
che la consegna a non essere altro che un oggetto passivo nelle mani dell’uomo.
Per questa ragione, quando la soggettività femminile fa la sua apparizione
(attraverso la decisione di interrompere un legame amoroso o quella di
intraprendere una carriera professionale indipendente, come è appena accaduto
nel caso di Giulia), può provocare reazioni violentissime. Nel fantasma
maschilista, infatti, la donna non può esprimere una soggettività libera perché
viene concepita come una mera proprietà dell’uomo.
Ma la violenza che trova
il suo apice nel femminicidio scaturisce sempre da una cultura fatta di
umiliazioni e di offese quotidiane, di mortificazione e di negazione della
libertà della donna. Può avvenire non solo come esercizio di un potere sadico,
ma anche nel nome dell’amore. È questo un altro paradosso che andrebbe mostrato
in tutta la sua crudeltà: nel nome dell’“amore” si può arrivare a sopprimere la
libertà della donna. Nella violenza degli uomini sulle donne c’è sempre un
intento fantasmaticamente pedagogico: disciplinare, regolare, purificare la
loro naturale e irresponsabile peccaminosità. È il delirio moralistico che
troviamo frequentemente al cuore degli uomini che maltrattano le donne: piegare
con la forza e il ricatto la donna, renderla servizievole come dovrebbe essere
ogni donna secondo la cultura del patriarcato.
Non a caso nella lunga
storia dell’Occidente la donna che rivendicava la sua libertà veniva
identificata con la strega. Si riguardi Comizi d’amore di Pasolini per cogliere
quanto la libertà femminile sia vissuta dagli uomini, in una cultura che non
aveva ancora conosciuto i movimenti di liberazione femministi e la rottura
benefica del ’68, come una minaccia al loro posticcio prestigio fallico. Nella
Recherche di Proust Albertine, che incarna l’essenza del femminile, viene
descritta come un essere perennemente in fuga, inappropriabile,
irraggiungibile, impossibile da catturare, tale da sconcertare il protagonista
sino a sospingerlo a intraprendere il progetto geloso del suo imprigionamento.
Più l’uomo incontra il carattere indomito della libertà della donna e più è
incentivato a reprimerla brutalmente. Nondimeno non è mai possibile
impadronirsi di quella libertà. È la constatazione disperata che muove diversi
autori di femminicidi ad accanirsi sul cadavere delle loro vittime per provare
ad afferrare in extremis la dimensione, in realtà inafferrabile, della loro
libertà.
La spinta
all’appropriazione, al controllo e al sequestro della libertà della donna da
parte degli uomini vorrebbe scongiurare il rischio della perdita. In gioco qui
sono i destini del dolore legato all’esperienza della separazione che spesso
troviamo, come nel caso di Giulia, alla base del passaggio all’atto
femminicida. Di fronte alla fine di una relazione amorosa esistono due vie: la
prima è quella del dolore del lutto, del trauma della perdita, del fallimento e
della solitudine. L’uomo abbandonato o tradito è messo di fronte a una ferita
narcisistica che deve riconoscere ed elaborare. La seconda via è quella della
violenza che rigetta il lavoro del lutto per ribadire un diritto di proprietà
e, di conseguenza, l’esistenza di un legame che esclude per principio la
separazione. È questo il nesso profondo che unisce narcisismo e depressione:
“Non sopporto di non essere più tutto per te, dunque ti uccido perché, in
realtà, non posso riconoscere di non essere niente senza di te”. Questa
dipendenza assoluta, di natura simbiotica, alimenta fantasmi di gelosia estremi
dove la spinta a una possessività che vorrebbe sopprimere la libertà del
partner si unisce alla sensazione di un profondo vuoto interno. In gioco è,
cioè, un tipo di legame che non riguarda l’amore tra due adulti, ma una
dipendenza anaclitica primaria che non può non evocare il legame originario con
la madre.
Non a caso anche per
l’assassino di Giulia non è difficile ipotizzare un lutto dei legami primari
mai avvenuto. È un insegnamento che dovremmo sempre tenere presente: la
violenza è un’alternativa all’esperienza dolorosa del lutto. Vale per gli
individui come per i processi collettivi: la violenza viene al posto di un
lutto impossibile. Nel caso di Giulia, come in diversi altri casi di
femminicidio, la vittima si è trasfigurata in un prolungamento fantasmatico
della madre senza la cui presenza la vita del soggetto è destinata a
sprofondare nel nulla. È l’altra faccia del patriarcato: non quella dell’ayatollah
che perseguita sessuofobicamente la donna in quanto incarnazione del peccato,
ma quella del figlio imbozzolato in legami primari senza essere in grado di
viverne il lutto e che, come hanno raccontato recentemente i genitori di
Filippo, per addormentarsi deve tenere regressivamente accanto a sé un
orsacchiotto per non sentirsi cadere in un abisso di fronte ad una separazione
che non è in grado di soggettivare.
È questa una cifra generale del nostro tempo: l’accudimento prolungato dei figli vorrebbe scongiurare il trauma benefico della separazione.
La carenza simbolica della
legge paterna che dovrebbe favorire il distacco dai legami primari si mescola
qui con la tendenza a rendere la dipendenza da quei legami interminabile.
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