TRE EQUIVOCI
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di Giuseppe Savagnone*
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Una
rottura tra governi occidentali e opinione pubblica?
Le
grandi manifestazioni che il 28 ottobre hanno visto scendere in piazza
centinaia di migliaia di persone, per chiedere la fine dei bombardamenti su
Gaza, costituiscono un segnale da prendere sul serio e su cui occorre
riflettere.
Le
cronache dicono che imponenti cortei si sono formati a Londra (solo là, si
parla di 300.000 partecipanti!) e a New York, ma anche a Los Angeles, a
Berlino, a Stoccolma, a Copenaghen a Roma, a Marsiglia e perfino in Australia,
a Sidney. Per citare solo quelle svoltesi nell’ambito del mondo occidentale (in
quello islamico sono state ancora più numerose e violente).
alcuni casi – come in Francia e in Germania – i dimostranti hanno sfidato un
esplicito divieto delle autorità. E a New York almeno 200 persone sono state
arrestate nel corso del gigantesco sit-in organizzato al Grand Central Terminal
da un’associazione ebraica pacifista.
Stranamente,
in Italia, solo pochi giornali hanno dato notizia in prima pagina di questa
protesta a livello internazionale e, se mai, si sono concentrati su quella
svoltasi a Roma (anch’essa, peraltro, più consistente del previsto per la
partecipazione inattesa di 20.000 manifestanti).
A
questa sì, alcuni quotidiani hanno dedicato il titolo di prima pagina, come
quello di «Libero»: «Gli inutili idioti di Hamas», e quello de «Il Tempo»: «A
Roma sfila l’odio». Commenti evidentemente poco favorevoli e che, sia pure in
forma estrema, sono significativi dell’atteggiamento assunto su questa guerra
dalla grande maggioranza dei giornali italiani, sostanzialmente in linea con
quella del nostro esecutivo.
In
ogni caso, il fenomeno è degno di attenzione. Era forse dai tempi della guerra
del Vietnam che non si registrava una così forte tensione fra le posizioni dei
governi e quella di una parte consistente dell’opinione pubblica, di cui questa
massiccia mobilitazione è come “la punta dell’iceberg”.
Ma
quali sono le ragioni che hanno spinto la maggior parte dei paesi occidentali –
primi fra tutti gli Stati Uniti – a respingere o comunque a non votare la risoluzione presentata all’Assemblea
generale dell’ONU, e poi approvata col voto favorevole di 120 Stati, in cui si
condannavano tutti gli atti di violenza contro i civili sia israeliani che
palestinesi e si chiedeva una «immediata tregua umanitaria», con la fine dei
bombardamenti e l’accesso nella Striscia di Gaza degli aiuti per la
popolazione?
Primo
equivoco logico
Per
quanto riguarda l’astensione dell’Italia, la Meloni l’ha giustificata
osservando che in quella mozione non si menzionava la responsabilità di Hamas
nell’attacco del 7 ottobre, di cui la reazione di Israele è stata la
conseguenza. Insomma, il comportamento di Israele non si può valutare senza
tenere conto dell’aggressione che ha subìto.
Una
spiegazione che ricalca quella data alcuni giorni prima dal portavoce della
Commissione europea, Eric Mamer, a proposito dell’asimmetria tra la valutazione
della Commissione sui metodi di guerra di Putin e quelli di Israele.
Rispondendo
a chi gli chiedeva se valesse anche nei confronti di ciò che sta accadendo in
Palestina il commento che la presidente Ursula von der Leyen fece nell’ottobre
2022 – quando definì crimini di guerra e atti di terrore gli attacchi russi a
infrastrutture civili ucraine e il taglio di acqua, elettricità e riscaldamento
ai civili – , Mamer ha ricordato che quel commento «è stato fatto in un
contesto molto specifico, dove c’è stato un attacco non provocato da parte di
un Paese, per di più membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
contro un vicino pacifico».
Su
questa linea anche la grande stampa che, in Italia (esemplari gli editoriali di
Paolo Mieli sul «Corriere della sera» del 24 ottobre e di Ezio Mauro su
«Repubblica» del 30 ottobre), accusa i simpatizzanti dei palestinesi e in
particolare i manifestanti del 28 ottobre di dimenticare l’atroce massacro di
cui Hamas si è reso responsabile nei confronti degli innocenti civili
israeliani e che ha determinato l’inizio della guerra.
E
tuttavia, alla base di questa motivazione c’è un evidente errore logico. Si
sovrappongono e si confondono due questioni che sono ben distinte: una è quella
della causa del conflitto, l’altra è quella del modo di condurlo. Il diritto
internazionale si occupa della prima quando condanna l’aggressore – che in
questo caso è sicuramente Hamas – , e
della seconda quando dichiara in ogni caso inaccettabili le violenze nei
confronti dei civili.
Anche
su questo punto il partito armato islamico è chiaramente responsabile per le
1.400 persone innocenti massacrate il 7 ottobre; ma, sotto questo secondo
profilo, lo è anche lo Stato ebraico per l’inaudito trattamento inflitto alla
popolazione palestinese, privando due milioni e mezzo di persone di acqua, di
elettricità , di medicinali, e sottoponendoli a un incessante bombardamento
che, oltre a distruggere il 30% delle abitazioni civili, secondo
l’Organizzazione mondiale della sanità, ha già provocato, fino ad ora 7.000
morti, di cui il 40% bambini.
Se
la mozione dell’ONU fosse stata sulle responsabilità della guerra, la mancata
menzione dell’aggressione di Hamas sarebbe stata un buon motivo per non
votarla. Ma essa chiedeva solo la cessazione di questa violenza sistematica
sulla popolazione. Non prendere posizione su questo ha voluto dire – e non solo
da parte dell’Italia – una sostanziale accettazione di quanto sta succedendo.
Una
responsabilità non solo giuridica, ma anche etica, che – anche al di là della
votazione all’ONU – i governi occidentali si stanno assumendo con il loro
silenzio. Né possono valere a colmarlo
le loro generiche raccomandazioni
ad Israele di “non esagerare” e di operare sempre nel rispetto delle regole
internazionali di guerra e dei diritti umani.
Come
mai non le hanno rivolte a Putin, che invece è stato (giustamente) bollato per
le violenze che – anche a prescindere dal suo ruolo di aggressore – aveva già
compiuto e continuava imperterrito a compiere contro i civili?
Così,
ora, queste timide esortazioni non possono non suonare come una tragica ironia,
quando la sistematica violazione di quelle regole e di quei diritti è sotto gli
occhi di tutti, senza che mai l’Occidente ne abbia preso atto per opporsi
fermamente ad esse. E che ad aggredire sia stato Hamas non è certo una
giustificazione di questa tacita complicità con un comportamento disumano,
com’è quello di Israele a Gaza.
Secondo
equivoco logico
Questo
silenzio viene soprattutto da Stati che lo giustificano spiegando che Israele è
una democrazia e dev’essere sostenuta contro il fanatismo e il fondamentalismo.
Ma anche confondere la legittimità del regime giuridico-politico di uno Stato
con una automatica giustificazione delle sue azioni militari costituisce un
grave salto logico.
È
senz’altro vero, infatti, che Israele è una democrazia, e lo dimostra la
fortissima opposizione interna che da mesi stava cercando di impedire al
premier Netaniahu di cambiare la Costituzione per rafforzare il suo potere e
sottrarsi all’accusa di corruzione che grava sul suo capo.
La
sciagurata iniziativa di Hamas, da questo punto di vista, gli ha fato un
favore, facendo passare in secondo piano il dibattito democratico e unendo il
paese nella lotta contro il nemico esterno.
Ma,
da parte dell’Occidente, assumere lo Stato ebraico come l’emblema della
democrazia avrebbe dovuto comportare l’impegno di obbligarlo a comportarsi come
tale anche verso l’esterno, in conformità con i valori che sono alla base della
democrazia.
Altrimenti
– ed è quello che sta avvenendo – il solo risultato è di screditare la stessa
democrazia, mettendo sotto gli occhi di tutti che, in nome di essa (come
continua a ripetere e a fare Netaniahu), è lecito uccidere e schiacciare degli
innocenti.
È
una buona immagine da proporre ad un mondo islamico – e in generale, ai paesi
del Sud del pianeta – nel loro faticoso cammino verso forme istituzionali e
politiche più evolute? Quali vantaggi porterà alla loro crescita in questa
direzione la campagna di spietata oppressione che il “democratico” Stato
ebraico, col più o meno esplicito consenso delle democrazie occidentali, sta
conducendo verso i palestinesi?
Terzo
equivoco logico
Da
parte dei sostenitori della politica di Israele si insiste continuamente sulla tesi
che alla base delle contestazioni nei confronti di essa ci sia un mai del tutto
superato sentimento antisemita. La sua esistenza, purtroppo, è innegabile.
L’avanzata, in questi ultimi anni, dei partiti della destra europea, alcuni dei
quali si richiamano più o meno esplicitamente all’eredità del nazismo, non è,
da questo punto di vista rassicurante.
Ma
che nelle manifestazioni a favore della Palestina la vera posta in gioco non
sia l’antisemitismo lo dimostra il fatto che i partecipanti avevano le più
diverse provenienze culturali e politiche. Tanto che quella di New York, come
segnalavamo prima, era organizzata e animata da un’associazione ebraica! E
basta averle seguite per rendersi conto che il bersaglio di gran lunga
prevalente dei manifestanti non sono stati gli ebrei, ma la politica di
Israele.
E
non si possono né si devono confondere le due cose. Proprio la stima per il
grande popolo ebraico e la condanna, senza “se” e senna “ma”, delle
persecuzioni a cui è stato sottoposto nella storia, fino alla Shoah, ci impediscono di identificarlo con uno Stato
che non teme di uccidere o affamare i bambini per perseguire i suoi obiettivi strategici di “difesa”.
Anche
questo è un equivoco che si cerca di avallare da parte di molti commentatori,
bollando come “antisemita” ogni critico di Israele. Su questa linea, Salvini ha
addirittura definito “razzista” Amnesty International! Un equivoco, purtroppo, che avrà, come gli
altri due analizzati prima, un effetto devastante. A forza di identificare gli
ebrei con la politica di Netaniahu, si rischia di far ricadere sui primi
l’ostilità che merita la seconda e di alimentare così un sordo antisemitismo.
Forse
è troppo pretendere dalla politica che segua la logica. Ma anche per la
politica è pericoloso abbandonare il terreno della razionalità. E quelle che
abbiamo segnalato sono offese alla ragione, coperte dagli slogan e dalle fake
news, che anche “l’uomo della strada”, se appena si mette a riflettere, può
smascherare. E a noi non resta se non sperare – per la salvezza di tanti
sventurati palestinesi allo stremo delle forze – che prima o poi anche i nostri
governanti se ne rendano conto.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della
Cultura, Diocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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