«Se
fossi un profugo
e finissi in Albania»,
con l’Italia anziana
e sempre più
spopolata
- -di ANGELO MORETTI
Se
io fossi profugo e qualcuno dovesse portarmi a forza in Albania, penserei che
davvero il mondo non sia meno folle di me che sono partito.
Ho
sognato l’Europa partendo da Accra, da Benin City, da Aleppo, da Teheran, dal
Corno d’Africa o fuggendo dal Tigrai sempre conteso. Ho attraversato un deserto
invivibile, in condizioni che nessun essere umano razionale vorrebbe
affrontare, ho superato i soprusi, i furti, la morte anonima, e dopo tremila
chilometri sono arrivato finalmente in Libia.
Lì
degli uomini mi hanno fatto intravedere una barca, una speranza, ma prima mi
hanno torturato, hanno preteso altri soldi da mia mamma, mi hanno appeso ad una
corda, legato a testa in giù, mi hanno bruciato con scariche elettriche, ho
visto i carcerieri violentare donne che potevano essere mie sorelle. Ma in
testa avevo sempre lei, l’Europa, nel cuore sempre lui, il futuro. Un giorno è
arrivato finalmente il tempo della partenza. Ci hanno caricato a centinaia su
un barcone. Io non so nuotare, ero convinto di affogare, ho visto il mare
agitarsi tanto che sembrava poter ingoiarci tutti. Ho visto donne urlare e uomini
menarsi. Ho sperato che qualcuno ci salvasse, ma non veniva nessuno. Abbiamo
pregato, cantato, imprecato ma l’Europa era troppo lontana, nessuna riva
all’orizzonte, solo mare, niente terra.
Ad
un certo punto la barca si è fermata lì, sul pelo dell’acqua, le onde ci
dondolavano, il tempo passava nella paura. Prendiamo la radio e gridiamo tutta
la nostra disperazione, ma nessuno ci dice qualcosa di certo. Poi vediamo
arrivare una nave, viene verso di noi. Si avvicina, le persone a bordo sono
gentili, hanno degli interpreti e ci spiegano che sono un’associazione, che
sono lì per salvarci. Saliamo tutti, ci riscaldano, ci offrono bevande,
finalmente si riparte. L’Europa è vicina. Il capitano ci avvisa: non tutti
potremmo scendere in Italia, solo donne, bambini e invalidi. Ci guardiamo gli
uni verso gli altri, in tanti ci riconosciamo subito per coloro che non
rientrano in
nessuna delle categorie. Chiediamo quale sia il nostro destino. Ci spiegano a
difficoltà che le autorità italiane ci porteranno in Albania.
«Albania?», non
ci posso credere, continuo a rimuginare... «Albania”».. Ma non era un Paese
povero? Perché l’Italia del calcio, dell’arte, dell’alta moda, delle belle
città, ha bisogno dell’Albania per accogliere noi poveri disperati? La
volontaria mi spiega che è “una deterrenza”, ci portano in Albania perché così
tanti altri nostri fratelli decideranno di non partire per l’Europa. “Deterrenza”
... Mastico più volte questa parola. Perché mio fratello non dovrebbe partire
per l’Albania se vuole raggiungere l’Europa?
Alla
fine, se ha superato il deserto, i soprusi, i furti, le torture, il mare, che
cosa mai ci potrebbe esserci in Albania per spaventare così tanto mio fratello?
«Andiamo a vedere questa Albania», penso tra me e me, che mattacchioni questi
italiani, concludo. Nel frattempo, a Laghi, Vicenza, ci sono cento abitanti, in
passato erano mille, nessuno riesce più a terrazzare il bosco che ci entra fin
dentro casa; a Celle di San Vito, Foggia, la piazza ristrutturata con i fondi
del Pnrr è ancora desolata e senza giovani, ci sono solo cinque adolescenti; e
nella patria ideale dell’Europa, a Ventotene, sul tetto della scuola giacciono
i pannelli fotovoltaici, ma la scuola è chiusa, non ci sono più i bambini di
una volta sull’isola.
Un vecchietto di Scillato, Palermo, che ha tutti i nipoti
lontani, pensa come sarebbe bello se il suo paese fosse di nuovo in festa,
pieno di ragazzini e di famiglie e pensa come è folle questo mondo che
allontana per legge un carico di umanità nella emergente Albania, mentre il suo
Paese si spegne piano piano.
«Che matti questi giovani politici – pensa – i
miei figli sono andati via ed i figli degli altri li hanno portati via per
disposizione del nuovo governo. Chi li capisce».
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