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di Giuseppe Savagnone*
Voci
di protesta
Ora
che si è attenuato l’impatto emotivo della vicenda di Indi Gregory, la bambina
inglese a cui, per ordine dei giudici, sono state sospese le terapie che ne
consentivano la sopravvivenza, è forse il caso di fare alcune riflessioni su
ciò che è accaduto e sulle reazioni che ha suscitato.
Senza,
peraltro, alcuna pretesa di dire una parola definitiva su una storia dolorosa,
che va accostata “in punta di piedi” e il cui solo commento adeguato, alla
fine, potrà essere un rispettoso silenzio.
Le
proteste sono venute in primo luogo dal mondo cattolico. Alcuni giornali hanno
definito Indi una bambina «condannata a morte» («La Nuova Bussola Quotidiana»,
11 novembre). «Famiglia cristiana» (11 novembre) ha parlato di «sentenza
iniqua» e un opinionista equilibrato come Giuseppe Anzani, su «Avvenire» (7
novembre), si è chiesto: «Ma che giustizia è una giustizia che fa morire una
bambina malata in ospedale dove i medici intendono cessare le terapie
salvavita, togliendola letteralmente dalle mani dei genitori che chiedono di
portarla altrove a cercare altre cure, con in cuore una speranza più grande del
dolore?» .
Da
un punto di vista molto diverso – politico piuttosto che etico-religioso – ,
gli organi di stampa di destra hanno dato grande risalto alla decisione del
consiglio dei ministri di dare la cittadinanza a Indi per consentirne il
ricovero presso il «Bambin Gesù». Così Antonio Socci, su «Libero» (12
novembre), ha scritto che «quell’atto del governo ha un significato culturale e
politico: in un mondo che svalorizza sempre più la vita umana, afferma che
l’essere umano ha un valore assoluto, anche se malato e disabile».
L’ideologia
dell’infanticidio esiste davvero!
La
denunzia, da parte del mondo cattolico, di una “cultura della morte” che
giustifica l’infanticidio, è, in linea di principio, tutt’altro che infondata.
In tutti i principali autori anglosassoni che trattano di questo problema la
chiave per risolverlo correttamente è la distinzione tra “essere umano” e
“persona”.
La
prima espressione indica una costituzione biologica per la quale un individuo
appartiene a una specie animale, senza che questo gli dia alcun privilegio
rispetto agli esseri delle altre specie; la seconda invece si riferisce a un
soggetto dotato di un unico e irripetibile valore e il cui diritto alla vita
deve essere riconosciuto dalla società e alle sue leggi.
In
questa logica, un noto bioeticista, Michael Tooley, in un articolo intitolato
appunto “Aborto e infanticidio”, si chiede: «Quando un membro della specie homo
sapiens è una persona?»; ovvero, «quali proprietà si devono avere per essere
una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?».
La
risposta è che, perché ci sia persona, si richiede quello che l’autore chiama
«requisito di autocoscienza». Per lui, «un’entità che manchi della coscienza di
sé come soggetto continuo nel tempo di stati mentali non ha diritto alla vita».
Dove
per «coscienza di sé» si intende non solo una potenzialità – presente in ogni
essere umano fin dalla formazione delle sue cellule cerebrali – , ma
l’esercizio effettivo di questa consapevolezza, che si realizza solo quando il
soggetto è presente a se stesso e pienamente vigile.
Ora,
osserva Tooley, «l’osservazione quotidiana chiarisce in modo, credo,
inoppugnabile, che un neonato non possiede un concetto di sé continuo nel
tempo, non più di quanto lo possieda un gatto appena nato. Se è così,
l’infanticidio per un breve intervallo di tempo dopo la nascita deve essere
moralmente accettabile»
Su
questa linea è un altro notissimo autore, Tristram Engelhardt, secondo cui «le
persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo – probabilmente
qualche anno – dopo la nascita e probabilmente cessano di esistere qualche
tempo prima della morte». E del resto, egli nota, anche nella civilissima
Grecia si uccidevano i bambini malformati.
Un’osservazione
condivisa da un altro “padre” della bioetica anglosassone, Peter Singer, il
quale saluta come un grande progresso la prassi – secondo ormai lui oramai
diffusa negli ospedali al tempo in cui scrive (il 1994) e avallata dai
tribunali anglosassoni – di lasciar morire senza sofferenza gli infanti
gravemente handicappati, per esempio i down, ritenuti «sostituibili» da bambini
sani.
Il
caso di Indi
Paradossalmente,
però, proprio nel caso di Indi Gregory questo spaventoso scenario ideologico
non sembra avere avuto un ruolo decisivo. La bambina era affetta da una rara
patologia genetica inguaribile, che già da ora le rendeva impossibile
sopravvivere senza supporti tecnici e condannava il suo organismo a un
progressivo deterioramento, destinato a concludersi in tempi brevi,
naturalmente, con la morte.
In
questa situazione, c’era davvero il rischio dell’“accanimento terapeutico”. Un
comportamento medico che già Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium
vitae, ha voluto chiaramente distinguere dall’eutanasia: «Quando la morte si
preannuncia imminente e inevitabile» – scrive il pontefice, citando la “Dichiarazione
sull’eutanasia” della Congregazione per la Dottrina della Fede – «si può in
coscienza “rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un
prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure
normali dovute all’ammalato in simili casi” (…).
La
rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o
all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di
fronte alla morte» (n.65).
L’accanimento
terapeutico, definito più propriamente “accanimento clinico”, è stato
recentemente stigmatizzato dal Comitato nazionale per la bioetica» in una
mozione approvata il 30 gennaio 2020 e particolarmente pertinente per il nostro
problema, intitolato: «Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei
trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita».
Nel
documento si ricorda che è «dovere prioritario del medico l’astenersi
dall’iniziare o dal prolungare trattamenti inutili e sproporzionati,
soprattutto nei confronti di pazienti con prognosi infausta a breve termine e/o
di imminenza di morte».
Fermo
restando che non è di per sé inutile e sproporzionato un intervento che
comunque consente al paziente di sopravvivere, bisogna chiedersi se questo non
dia luogo – come sembra accadesse nel caso di Indi – a una situazione in cui le
sofferenze superano di gran lunga i vantaggi della mera sopravvivenza.
Sulla
stampa si è dato, comprensibilmente, molto risalto alla strenua opposizione dei
genitori. Il loro desiderio di salvare in qualche modo la vita alla loro
piccola è umanissimo e va rispettato. Ma non può essere il criterio ultimo.
A
questo proposito ancora il documento del Comitato Nazionale di Bioetica fa
presente che «per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella
prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente,
anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile, senza
lasciare nulla di intentato, per preservare la loro vita, senza considerare gli
effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di
risultati e di ulteriori sofferenze» .
E
queste sofferenze, nel caso di Indi, c’erano, ed erano terribili. Lo dicono le
testimonianze e lo sottolineava il direttore dell‘Istituto «Mario Negri» di
Milano, il professor Giuseppe Remuzzi, intervistato sulla vicenda, il quale,
dopo aver spiegato che «la piccola stava molto male e niente avrebbe potuto
aiutarla. In queste condizioni, tenere quel povero corpicino attaccato ad una
macchina che respira vuol dire solo prolungare l’agonia», ha aggiunto: «Vi
assicuro che stare in rianimazione espone a sofferenze devastanti».
Certo,
che una malattia sia inguaribile non vuol dire che sa incurabile, che non ci siano,
cioè, trattamenti in grado di rendere sopportatile la vita del paziente.
È
su questo che si appuntano le critiche più pertinenti alla decisione dei
giudici di non accogliere la richiesta del «Bambin Gesù». Come quella di
Assunta Morresi, su «Avvenire» (13 novembre), la quale precisa: «Non è stata
messa in dubbio la diagnosi dei medici inglesi e nessuno ha parlato di terapie
salvavita: era stato prospettato un modo diverso di assistere la bambina in
quel che restava della sua breve vita».
In
linea, peraltro, con una delle raccomandazioni contenute nel documento del
Comitato Nazionale di Bioetica, quella di «consentire una eventuale seconda
opinione, rispetto a quella dell’equipe che per prima ha preso in carico il
bambino, se richiesta dai genitori o dall’equipe curante».
Disponeva
l’ospedale italiano di protocolli di cure – pur sempre palliative – non
praticate dai medici inglesi e in grado di rendere meno penoso il rimanente
periodo dell’esistenza di Indi? Per quanto mi sia sforzato di trovare dei dati
certi su questo, non ci sono riuscito.
Dalla
risposta a questa domanda dipende la valutazione della correttezza o meno della
decisione dei giudici che hanno respinto l’ipotesi del trasferimento
all’ospedale italiano. Ma sempre all’interno di un contesto molto problematico
che in ogni caso, francamente, rende del tutto sproporzionato parlare, come è
stato fatto, di «condanna a morte» della bambina.
Mentre
questo giudizio sarebbe ben appropriato – ma stranamente di questo l’opinione
pubblica non sembra si sia mai molto interessata – nel caso dei bambini down o
malformati, perfettamente in grado di vivere, senza bisogno di apparecchiature
artificiali, e che invece, stando a Singer, vengono fatti morire negli ospedali
anglosassoni perché «sostituibili» da soggetti sani, la cui vita è più degna di
essere vissuta.
Troppe
Indi
Quanto
alla tesi che l’impegno del nostro governo per il ricovero in Italia della
bambina, «in un mondo che svalorizza sempre più la vita umana, afferma che
l’essere umano ha un valore assoluto», sembra necessario distinguere.
Da
un lato va apprezzato il comportamento del nostro esecutivo in questa singola
circostanza. Ma va anche detto con chiarezza che esso non corrisponde alla
linea che esso ha avuto e ha in generale nei confronti della vita dei minori.
Indi
erano anche i bambini e le bambine annegati a Cutro per la mancanza di soccorso
della nostra Guardia costiera, sostanzialmente giustificata dal ministro
Piantedosi. Indi erano quelli morti nel Mediterraneo per le restrizioni
paralizzanti poste dal nostro governo all’attività di soccorso delle navi delle
Ong. Indi sono quelli chiusi nei campi di concentramento libici per gli accordi
firmati da Meloni con il governo locale.
Indi
sono i più di tremila bambini e bambine palestinesi uccisi dai bombardamenti
israeliani col tacito consenso del nostro governo, che non ha ritenuto di
chiedere ufficialmente a Netaniahu di cessare il fuoco sui civili, né nella
votazione all’ONU né in altra sede.
In
questa logica più ampia papa Francesco ha fatto sapere che «si stringe alla
famiglia della piccola Indi Gregory, al papà e alla mamma, prega per loro e per
lei», ma anche che «rivolge il suo pensiero a tutti i bambini che in queste
stesse ore in tutto il mondo vivono nel dolore o rischiano la vita a causa
della malattia e della guerra».
Per
amore di Indi – delle troppe e dei troppi Indi che ogni giorno muoiono non per
malattie inguaribili, ma per le nostre ideologie (nei civilissimi ospedali
anglosassoni), o per la nostra indifferenza e i nostri calcoli (in mare e negli
scenari di guerra) – siamo chiamati, come cristiani e come persone che hanno a
cuore il confine tra l’umano e il disumano, a non limitaci a commuoverci e a
protestare occasionalmente, davanti a un singolo episodio enfatizzato dal circo
mediatico, ma a denunziare e a contestare con tutte le nostre forze, ogni
giorno, una cultura e una politica che giustificano sistematicamente
l’uccisione dei bambini.
*Scrittore
ed editorialista. Pastorale della
Cultura della Diocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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