Il
passaggio del testimone
Trasmettere la memoria tra generazioni
Problemi che ci
coinvolgono direttamente in quanto sono al centro delle riflessioni, delle
domande e delle riflessioni che ci poniamo.
- di Sara Troglio, Associazione Lapsus
Giocoforza
per noi concentrarci sulle esperienze dei laboratori didattici a carattere
storico che da circa sei anni abbiamo portato avanti con diversi istituti di
scuole medie e superiori di Milano e hinterland. Si tratta di progetti
didattici legati a differenti tematiche proprie della Storia contemporanea, ma
tutti ugualmente focalizzati su una prospettiva interdisciplinare. In classe
cerchiamo sempre di utilizzare ogni linguaggio e strumento, al fine di rendere
più efficaci e stimolanti i contenuti, con una particolare enfasi sulla
partecipazione attiva degli studenti attraverso un metodo collaborativo,
laboratoriale e attraverso simulazioni didattiche.
Laboratori della memoria
Si
è detto che proponiamo laboratori, e non lezioni. La differenza semantica per
noi è fondamentale.
Crediamo
infatti che l’eredità della memoria storica si debba trasmettere agli studenti
tramite la comprensione e che quest’ultima passi non attraverso progressivi
disvelamenti enunciati dall’insegnante, ma dall’acquisizione di un senso
critico esperito con la pratica.
Per
questo la forma laboratoriale rimane per noi la più efficace, sempre nel
tentativo di creare esperienze didattiche che si sommino, e non sostituiscano,
al lavoro quotidiano dell’insegnante; che si inseriscano come momento
differente ma non estraneo alla vita della classe.
L’aiuto
ad uno sviluppo di un senso critico dovrebbe essere la principale occupazione
dell’insegnamento in quanto tutte le conoscenze, senza questa capacità,
diventano nozioni presto dimenticabili. Certamente questa affermazione è alla
base dei metodi didattici più moderni, ma è ancora lontana la sua adozione
lungo tutto il percorso scolastico, all’interno di un progetto comune che
integri su questa base sia la didattica ordinaria che gli incontri di
approfondimento.
L’avvicendamento
di generazioni e la progressiva assenza dei testimoni di eventi percepiti nella
memoria di una comunità come fondanti è un fatto comune ad ogni epoca storica.
Venendo all’oggi, la nostra generazione, nata dopo la fine della Guerra Fredda,
è molto probabilmente l’ultima ad aver avuto la possibilità di ascoltare i
testimoni degli eventi del periodo della deportazione.[1]
È
anche la generazione che ha assistito e sta assistendo ad una crescita del
calendario memoriale: eventi locali, nazionali, europei, mondiali, la cui
esplosione bulimica[2] nel calendario pubblico è coincisa con una antitetica
perdita di senso dei fatti commemorati.
Come
storici, ci siamo sempre espressi contro l’anniversarismo acritico, proprio
perché snatura quello che l’anniversario dovrebbe rappresentare: un momento di
ricordo distinguibile dalla quotidianità del fluire del tempo, in cui la
riflessione di lungo periodo e la compartecipazione emotiva passano dal piano
intimo a quello collettivo.
L’esplosione
del “ricordare tutto” è il segno più forte di una mancanza di memoria storica.
Memoria
e Storia non sono sinonimi, indicano e fanno riferimento a logiche e aspetti
differenti dello studio e della rappresentazione del passato.
La
Memoria è il frutto della decisione attiva di scelta intorno a cosa ricordare e
cosa consegnare all’oblio. In questo processo, il vissuto individuale
influisce, ma diviene parte integrante dell’identità comune quando si compone,
scontra, confronta e dialoga con il ricordo di più individualità, collettività,
generazioni. È un processo che non porta pacificazione, ma proprio nella sua
conflittualità sta la sua efficacia: è viva e attuale solo se nasce dal
confronto perenne.
Date queste rapide premesse, come dovrebbe svilupparsi una didattica della storia e
del passaggio di memoria oggi?
Un
grande della storiografia come Tzvetan Todorov[3] sottolinea che il ricordo del
passato non ha in sé la sua giustificazione.
Crediamo
che questo sia un nodo centrale di qualsiasi riflessione attuale sulla Storia e
la Memoria di quelli che consideriamo i nostri Grandi Eventi traumatici e
collettivi.
Una
storia della deportazione nazifascista oggi, per esser efficace (e con efficace
non si intende incisiva a livello immaginativo, ma proattiva nel quotidiano
sociale-politico) deve rapportarsi ai suoi uditori senza considerarsi come
avente significato a prescindere in quanto lavorare nelle classi oggi, vuol
dire interagire con ragazzi lontani quattro generazioni agli eventi narrati e
portatori di memorie trans-nazionali, extraeuropee, che hanno coordinate
storiche differenti.
L’orrore
massimo, la persecuzione, gli episodi di resistenza, i “giusti”, le vittime e i
carnefici non avranno nella memoria di questi adolescenti il significato
univoco che avevano per la maggior parte delle persone delle generazioni
precedenti.
Una
guerra civile, un passato di repressione coloniale, una persecuzione
politica-religiosa, una identità di classe, una migrazione: sono tutti elementi
che influiscono sulle coordinate storiche di questi ragazzi, rendendo sempre
più veritiera la frase di Todorov: “Il racconto del passato non ha in sé la sua
giustificazione.”[4]
Un
esempio di questo ci viene dall’esperienza diretta in aula.
Nel
2014 abbiamo svolto uno dei nostri laboratori “Resistenza e Costituzione tra
memoria e attualità” in un istituto professionale della periferia milanese.. Le
classi con cui abbiamo lavorato avevano retroterra culturali estremamente
variegati ed erano a diversi livelli portatori di vissuti familiari intensi.
Abbiamo avuto la fortuna, in quell’occasione, di ospitare all’interno del
percorso didattico anche la testimonianza di un partigiano che fu operativo in
Carnia durante i venti mesi della Resistenza. Inizialmente catturare
l’interesse dei ragazzi non è stato facile: molti si chiedevano che senso
avesse per loro parlare di un evento storico che non sentivano proprio,
distante nel tempo e nello spazio dai loro vissuti personali e dalle memorie
familiari. Ma proprio dal confronto sul senso del lavoro che stavamo facendo
insieme, sono emerse a poco a poco molte riflessioni davvero interessanti;
alcuni hanno letto nell’esperienza del partigiano, che all’epoca dei fatti
aveva più o meno la stessa età dei ragazzi in aula, un’affinità con i fratelli
maggiori e cugini impegnati delle Primavere Arabe; o ancora si è aperto un
dibattito sulla preoccupazione della leva obbligatoria e sull’accesso alla
cittadinanza, sulla paura e sulla sopraffazione da parte di un occupante.
Quindi
non basta una narrazione autoreferenziale per fare breccia nelle generazioni
che non sentono immediatamente proprie queste memorie.
Serve
una spiegazione, il “perché ti sto raccontando questo, perché anche tu devi
ricordartene”.
Questa
spiegazione è sempre al e nel presente. Perché la Storia dovrebbe essere intesa
-ed insegnata- come una disciplina che opera nella contemporaneità. Lo sguardo
con cui si osservano gli eventi dipendono dagli interessi attuali, così come lo
sono testimoni, addetti ai lavori, fruitori (non sempre appartenenti a
categorie così nettamente riconoscibili). Opera nel presente perché è qui, ora
che si legge il processo e gli si attribuisce un senso storico.
Ad
oggi, per spiegare ciò, serve allargare lo spettro del racconto sia nella
profondità temporale che nella vastità geografica.
Se
è vero che la deportazione è un evento senza precedenti, questo vale per ogni
avvenimento di grande entità ed ogni azione contingente: unico, irripetibile.
Questo non vale però per le dinamiche di lungo periodo che ne caratterizzarono
le origini: è quindi sulla spiegazione e nell’individuazione di queste radici,
dei processi e del loro andamento lungo più decenni e generazioni che i nostri
lavori si focalizzano.
E
per farlo c’è bisogno di un approccio costantemente problematizzante. Il
ragionamento di lungo periodo deve stimolare e infondere domande più che donare
risposte, per permettere di far generare ai ragazzi stessi queste domande e
dargli gli strumenti critici per trovare le risposte anche quando non saranno
più sotto la guida dell’insegnante.
Il
passaggio dalla testimonianza diretta a quella della narrazione storica
necessita di una definizione precisa del racconto che si tramanda. Per far ciò,
bisogna accettare una progressiva sostituzione del pensiero critico
storiografico al rapporto empatico ed emotivo attraverso cui la memoria della
deportazione sino a ora si è trasmessa.
Questo
rapporto emotivo, anche grazie a nuove tecnologie di riproduzione e più
tradizionali documenti, rimarrà una parte fondamentale ma non in sé esaustiva
nel processo di insegnamento ai ragazzi.
Serve
inoltre acconsentire a che le testimonianze vengano trasmesse con le forme e
gli strumenti ritenuti dalla nuova generazione più efficaci per mantenere il
significato attribuito all’evento. Nuovi canali di comunicazione possono
aiutare in questo “passaggio di consegne” e occorre stimolare e favorire
l’appropriazione e la rielaborazione di questi contenuti da parte dei ragazzi,
permettergli di “fare proprie” le esperienze di altri.
Questo,
va sottolineato, non equivale a svilire la propria memoria storica, ma le dona
invece nuovo senso affinché duri e abbia effetti nell’identità e nella
pedagogia pubblica futura.
È
quindi attraverso un insegnamento che si spera sempre più corale, travalicante
le sole ore scolastiche e la sola figura del professore di Storia che, secondo
noi, può essere affrontato efficacemente questo passaggio di testimone.
Attraverso una pedagogia impegnata quotidianamente nella trasmissione al
ragazzo di strumenti che lo aiutino ad affiancare alla reazione emotiva il
ragionamento e la conoscenza storica al fine di far rifiutare quelle logiche
razziste, totalitarie, sopraffattive che determinarono il fenomeno della
deportazione.
Questo
modello educativo dovrà per forza incentrarsi su progetti lunghi — fuori dai
singoli e sporadici incontri rituali, anniversaristici. Progetti continuativi
che guidino i ragazzi dal punto di vista educativo-intellettuale, ma anche
emotivo ed umano e quindi personale, attraverso piccoli gruppi di lavoro.
Puntare
sul lavoro laboratoriale, capace di innescare dinamiche empatiche, attive e “su
misura” per ogni contesto e per ogni studente, che generi un tipo di
apprendimento autentico e significativo, ovvero un tipo di conoscenza destinata
a durare nel tempo in quanto più che nozioni, è volta a far apprendere modelli
cognitivi. Sappiamo tutti quanto cresca l’efficacia di un messaggio quando al
posto che ascoltarlo in un teatro pieno durante una sporadica uscita didattica,
il ragazzo lo possa ricevere all’interno di un ambiente raccolto, intimo.
Concludendo,
oggi è auspicabile: lavorare per una pedagogia che rifiuti una memoria
monolitica e autoreferenziale.
Che
si occupi di insegnare il pensiero storico, diacronico e sincronico.
Che
aiuti a creare parallelismi, comparazioni e nessi fuori però da inutili
analogie.
Che
privilegi i lunghi percorsi didattici e le narrazioni storiche di lungo
periodo, che insegni una Storia per processi e non per assiomi ed eventi.
Solo
così si potrà cercare di avere un passaggio di testimone vero, efficace.
Note:
[1]
D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi 2009.
[2]
F. Focardi, B. Groppo, L’Europa e le sue memorie: politiche e culture del
ricordo dopo il 1989, Roma, Viella 2013.
[3]
T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo
tragico, Milano, Garzanti 2001, p. 203.
[4]
ibidem.
Bibliografia
consigliata:
Bidussa
D., Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009.
Brusa
A., Il laboratorio storico, La Nuova Italia, Firenze, 1991.
Delmonaco
A., Dove si costruisce la memoria. Il laboratorio di storia
Focardi
F., Groppo B., L’Europa e le sue memorie: politiche e culture del ricordo dopo
il 1989, Viella, Roma, 2013.
Mattozzi
I., La cultura storica. Un modello di costruzione, Faenza (Gruppo Editoriale),
2006
Recchia
Luciani F. R., Vercelli C., (a cura di) Pop shoah? immaginari del genocidio
ebraico, Il melangolo, Genova, 2016
Todorov
T., Memoria del male, tentazione del bene: inchiesta su un secolo tragico,
Garzanti, Milano, 2001
MEMORIA E DIDATTICA
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