“Il paradigma meritocratico non è riformabile: va sostituito”
Intervista a Enrico Mauro
-di
Rocco Gumina
Dall’unità
d’Italia in poi, il meridione d’Italia si è configurata come una terra gravida
tanto di problemi e arretratezza quanto di profeti. Fra questi bisogna
annoverare don Tonino Bello, vescovo di Molfetta in Puglia, che oltre ad
avanzare un pensiero volto al rinnovamento della Chiesa si è impegnato per una
riforma della società. Di questa straordinaria figura parliamo con Enrico
Mauro. Ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università del Salento,
Mauro ha da poco pubblicato con le edizioni San Paolo il volume intitolato
“Contro la società del sorpasso. Il pensiero antimeritocratico”.
–
Professore Mauro, quali sono stati i fattori che l’hanno condotta a scrivere un
libro su don Tonino Bello?
Come
scrivo nel libro, l’interesse è nato da due direzioni. Da un lato, sono nato e
ho sempre vissuto nei luoghi leccesi di don Tonino (Alessano, Ugento, Tricase,
Santa Maria di Leuca, Gagliano del Capo), per cui la mia biografia, sia pure
indirettamente, incrocia in più punti la sua. Dall’altro lato, studio dal 2014
i disastri della visione meritocratica della società e della vita e don Tonino
mi ha dato, pur senza mai usare «meritocrazia», tanti spunti su cui riflettere.
–
La nostra società pare costruita esclusivamente su dinamiche di accumulo, di
conquista, di visibilità e di presunta meritocrazia. Per quali motivi urge
criticare e riformare questo paradigma?
«Meritocrazia»
significa competizione, egoismo, individualismo, per cui la società esposta
alla meritocrazia si fa liquida, si sbriciola. E chi fa le spese di ciò è chi
ha più bisogno di aiuto, di solidarietà, di prossimità, di legami. Gli altri, i
ricchi, i credenti nella religione del successo possono fare quasi tutto con il
denaro. Il paradigma meritocratico, cioè plutocratico-castale, non è
riformabile perché è il paradigma della guerra di tutti contro tutti: c’è poco
da riformare. Va sostituito: qualunque riforma farebbe restare all’interno del
paradigma.
–
Nel suo volume, lei definisce la proposta di don Tonino Bello come
antimeritocratica. Quali sono le caratteristiche principali del pensiero del
vescovo pugliese sulla società tardocapitalistica?
Partendo
dalla Bibbia, in particolare dalla logica delle beatitudini, da san Francesco
(era terziario francescano) e dal Concilio, don Tonino è un critico radicale,
con l’esempio ancor più che con le parole, della società utilitaristica,
edonistica, materialistica, consumistica, economicistica, esibizionistica,
affaristica, efficientistica, darwinistica, in breve meritocratica. Nel libro
mi sono soffermato su ognuno di questi aspetti e su altri affini, ma non è il
caso di riassumere il lavoro: non solo per ragioni di spazio, ma perché il
lettore ha diritto a una percentuale di sorpresa che un’intervista o una
recensione non deve intaccare.
–
Quest’anno ricorre il centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Cosa
accomuna il pensiero e l’azione del priore di Barbiana a quelle del vescovo di
Molfetta?
Sto
leggendo tutte le opere di don Milani, dopo aver letto asistematicamente le
principali negli anni scorsi. E sto preparando, per un convegno su don Tonino,
una relazione in cui tento di segnalare e commentare tutte le citazioni
esplicite di don Milani nell’opera di don Tonino.
Ma
non posso rispondere in un’intervista a una domanda che meriterebbe come
risposta un altro libro, anche perché il confronto tra le due figure mi pare
agli inizi: conosco pochissimi articoli di rivista che affiancano le due
figure; nessuno studio serio, documentato. Comunque, semplificando fino
all’inverosimile, posso dire, per cominciare, che don Milani e don Tonino erano
caratterialmente molto diversi e che venivano da contesti familiari
incomparabili: don Tonino, come Gesù, nacque povero e dovette imparare a
restare povero; don Milani, come Francesco, nacque ricco e dovette imparare a
venti anni a essere povero. Un punto su cui i due non sono d’accordo è il
valore educativo dello sport agonistico.
Don
Milani si liberò abbastanza presto da questa convinzione (ben prima di Barbiana
«gli arnesi del ping-pong […] volarono in fondo al pozzo» e del pallone non
parliamo). Don Tonino, invece, restò di quest’idea fino alla fine o quasi: solo
nel periodo della malattia, forse, ci ripensò, ma non scrisse mai un testo in
cui lo ammise. Però al suo medico di base e amico negli ultimissimi tempi
disse, tra l’altro: «Non considerare le cose del mondo in termini di vittoria o
di sconfitta: è inutile. […]».
Tante
volte, peraltro, negli anni precedenti aveva richiamato l’esortazione di Paolo
(Lettera ai Romani) a gareggiare solo nello stimarsi a vicenda. Quindi, forse,
si contraddiceva considerando lo stadio o il campetto una scuola di valori
evangelici e costituzionali. I principali punti di contatto fra i due mi
sembrano: la centralità dello studio, della scuola; il primato dei poveri; il
primato dell’interiorità, che non è intimismo.
A
proposito di questo terzo punto mi pare importante dire che ci sono
innumerevoli passi di don Tonino che sembrano richiamare Esperienze pastorali
di don Milani: processioni, feste, sacramenti non hanno nulla di cristiano se
sono fatti esteriori e non prima di tutto spirituali; quindi moltissimi che
pensano di essere cristiani sono solo materialisti che frequentano la chiesa,
consumatori di sacro. I cristiani dovrebbero pensare e vivere da cristiani. Non
basta essere battezzati.
–
Oltre a rappresentare un argine avverso alle derive distruttive di una certa
cultura capitalistica, a partire dalla nostra Costituzione si può tornare ad
avanzare un progetto alternativo alle dinamiche turbocapitalistiche?
La
Costituzione è un catalogo di bisognosi, di fragili, di vulnerabili. Quindi,
anche se in più disposizioni richiama «merito» e concetti affini (negli
articoli in cui parla di esami, concorsi, senatori a vita ecc.), è una
Costituzione decisamente antimeritocratica: i principi fondamentali della
società disegnata dalla Costituzione sono solidarietà, riduzione delle
diseguaglianze e partecipazione, non agonismo, efficientismo, carrierismo. Poi,
evidentemente, la Costituzione è rimasta prigioniera di spinte, interne,
europee e globali, che vanno in altre direzioni e che non le si possono
imputare.
Quindi
la Costituzione non deve tornare ad avanzare alcun progetto
antiturbocapitalistico perché non dipende dalla Costituzione se ha perso forza
propulsiva, sia pur conservando tutto il suo spessore ideale. Il suo spessore
ideale nel tempo, cioè a causa del peggioramento dei problemi sociali e
ambientali globali, mi sembra persino aumentato. Ma la sua forza propulsiva è
estrinseca, cioè dipende da tutti coloro che dovrebbero attuarla. Il diritto
comunitario, invece, ruotando tutto intorno al ‘valore’ della competizione,
spinge in direzione crudamente meritocratica.
La
Costituzione economica italiana, cioè la parte economica della Costituzione, è
rimasta soffocata dal diritto comunitario. La Costituzione, che non esclude le
pubblicizzazioni di imprese (art. 43), incarica i pubblici poteri di
indirizzare e coordinare le attività economiche pubbliche e private a fini
sociali (art. 41.3). Il diritto comunitario, esattamente al contrario, incarica
i pubblici poteri di garantire la concorrenza.
Il
che fa sì che i pesci grossi mangino i piccoli e che non ci sia nessun
indirizzo e coordinamento delle attività imprenditoriali a fini sociali. Tutto
è interesse privato, secondo quella becera tradizione di economia politica
(Mandeville, Smith) per cui, se tutti pensano solo a sé stessi, ai propri
affari, qualcosa di buono ne verrà anche per la società: dai vizi privati le
virtù pubbliche, dagli egoismi privati il benessere collettivo. Invece le virtù
pubbliche nascono solo dalle virtù private, non dalla competizione, non
dall’agonismo, non dall’amore di sé.
www.tuttavia.eu
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