- di Giuseppe Savagnone*
Il quesito di Draghi al presidente americano
Il recente incontro, a Washington, tra Mario Draghi e il presidente
Biden, è stato oggetto di letture diverse. Tutti i quotidiani e i
notiziari televisivi hanno dato grande risalto alle parole del
premier italiano: «Se Putin pensava di dividerci, ha fallito». Ed è vero:
la mossa del leader russo si è rivelata disastrosa per i suoi stessi
interessi politici anche da questo punto di vista, perché ha compattato
come non mai Stati Uniti ed Europa, NATO e UE, e ha spinto verso
l’Alleanza Atlantica anche Paesi come la Finlandia e la Svezia, che si
erano fino ad ora mantenuti in una posizione di prudente neutralità.
Davanti all’affermazione del premier italiano, tuttavia, i
commentatori si sono divisi. Ci sono stati quelli che si sono fermati ad
essa e l’hanno assunta per quello che diceva, come riaffermazione di
una sintonia senza riserve. Altri sono andati a cercarne il retroterra in
ciò che il testo della frase in sé non diceva, ma che poteva
evincersi dal contesto del discorso fatto da Draghi al suo interlocutore
americano. Un discorso in cui ha avuto un posto centrale l’insistenza
sulla necessità di «promuovere negoziati credibili per costruire una
pace duratura».
Il contesto della riaffermata vicinanza tra Stati Uniti ed UE sarebbe
dunque, in questa prospettiva, la richiesta di una maggiore
disponibilità americana ad ascoltare le richieste dei suoi alleati, di cui
fino ad ora Biden, con l’appoggio incondizionato di Johnson, non
sembra aver molto tenuto conto. La questione essenziale non riguarda
la fornitura di armi all’Ucraina, né la fermezza nelle sanzioni alla
Russia – entrambe date per scontate dai governi europei –, ma
quella dell’atteggiamento di fondo dell’Occidente nella guerra in
corso.
Da questo punto di vista, un analista non certo sospetto di
“antiamericanismo” come Domenico Quirico ha potuto rilevare che
«la divaricazione tra la guerra degli europei e quella degli
americani contro l’aggressione russa combattuta sul suolo ucraino si
sta, giorno dopo giorno, allargando (…)». Divaricazione fatale ed
inevitabile perché ben diversi sono i punti di partenza e gli scopi che europei
ed americani si propongono. I primi sostengono la resistenza ucraina
per poter arrivare a «negoziare con Putin», i secondi per «spazzare
via la potenza russa come pericolo permanente». Insomma, «per gli
europei questa guerra è una sciagura che bisogna tentare di esorcizzare
sveltamente. Per gli americani una imperdibile occasione
di riaffermare una “iperpotenza” a cui sono giustamente
affezionatissimi» («La Stampa», 11 maggio 2012).
Si capisce perché, nel resoconto che sullo stesso quotidiano viene
fatto dell’incontro fra il premier italiano e quello
americano, leggiamo: «Il quesito che Draghi porta in dote, in
rappresentanza dell’Europa, investe innanzi tutto Stati Uniti e Regno
Unito, la loro volontà di ritrovare o meno la parola negoziato nel proprio
vocabolario» (Ilario Lombardo, «La Stampa», 11 maggio 2012). Un
quesito impertinente – nel senso letterale del termine – , in una
situazione in cui da parte americana (e inglese) si continua a ripetere
che l’obiettivo non è di finire la guerra, ma di vincerla. È
in questa logica che Biden sta chiedendo al congresso di approvare
una spesa iperbolica – 40 miliardi di dollari – da aggiungere a
quelle, già enormi, fatte finora per armare e sostenere l’Ucraina.
La chiusura di Putin e quella della NATO
Da parte americana si fa notare che Putin non sembra in alcun modo
desideroso di trattare. È verissimo. L’atteggiamento del leader russo
è stato, fin dalla vigilia di questa aggressione, impermeabile ad ogni
tentativo diplomatico. Macron e Scholtz hanno provato, uno dopo
l’altro, a bloccare l’imminente invasione, entrambi senza successo. Di
più: dalle affermazioni del capo del Cremlino è dato evincere che il
suo disegno non è solo quello, ufficialmente dichiarato, di rompere
l’assedio della NATO – di cui la preannunciata adesione dell’Ucraina
sarebbe l’ultimo anello – , ma la ricostituzione dei confini, o almeno
dell’area d’influenza, dell’ex Unione sovietica.
Ma è difficile respingere l’impressione che da parte americana ci sia
stato un analogo, simmetrico atteggiamento di totale chiusura ad ogni
possibile dialogo. Già alla vigilia dell’invasione, quando Biden non ha
mosso un dito, non ha detto una parola, per tentare di fermarla; e
poi nel corso della guerra, quando si è scatenato in una serie di
violentissimi attacchi al leader russo, rendendo impensabile, a
prescindere dalla sua indisponibilità, ogni confronto.
In nome dell’etica
C’è chi si indigna di queste riserve sul comportamento degli Stati
Uniti, perché le ritiene inopportune in un momento in cui l’unico
obiettivo può essere quello di concentrarci sulla difesa
dell’Ucraina dall’invasore. Una indignazione che riflette la profonda
commistione tra dimensione politico-militare e dimensione etica che
fin dall’inizio ha caratterizzato questo conflitto. Ma proprio
l’etica, se da un lato esclude che si accetti una resa incondizionata
alla prepotenza altrui (come sarebbe stato assistere passivamente
all’occupazione dell’Ucraina), esige che si faccia il possibile per far
cessare una guerra che continua a mietere migliaia di vittime.
Biden – appoggiato incondizionatamente da Zelens’kyi – sembra invece
disposto a condurla fino all’ultimo ucraino e giustifica la
sua intransigenza insistendo sul carattere eccezionale, in qualche
modo unico, dei crimini di Putin. Solo che basta un po’ di memoria
per ricordarne altri, non meno gravi, dal punto di vista sia etico
che politico, di cui l’amministrazione americana sembra non tenere
conto.
Non sono passati neppure vent’anni da quando gli Stati Uniti, nel
2003, invasero l’Iraq accusandolo di essere una base del terrorismo
fondamentalista islamico e di conservare armi di distruzione di massa
che costituivano una minaccia per l’umanità. La prima accusa apparve
subito palesemente infondata visto che Saddan Hussein era sì
uno spietato dittatore (come del resto altri, sostenuti fino ad oggi
dagli Stati Uniti), ma risultava assolutamente estraneo ad ogni forma
di fondamentalismo (il suo ministro degli esteri, Aziz, era un esponente
della minoranza cristiana). La seconda fu assolutamente smentita
quando delle famose armi, a invasione compiuta, non fu
trovata nessuna traccia.
Rivelazioni successive portarono a ricostruire il gioco di
menzogne con cui il presidente Bush, per giustificare la sua
decisione, aveva consapevolmente fabbricato a tavolino la propria falsa
accusa. Il risultato di queste menzogne fu, allora, una guerra dalle
conseguenze umanitarie incalcolabili, che destabilizzò per molti anni
il Medio Oriente provocando centinaia di migliaia di vittime
(secondo un rapporto dell’OMS, 150.000 tra i soli iracheni).
Ma nessuno ha messo al bando gli Stati Uniti e tanto meno ha proposto
di mandare sotto processo alla Corte penale internazionale
il responsabile di quella scelta assurda, che possiamo
tranquillamente definire criminale.
Anche perché, sebbene Biden dica di stare raccogliendo prove contro
Putin per farlo condannare da quel tribunale, gli Stati Uniti, come
del resto la Russia e la Cina, non hanno mai voluto riconoscerlo e hanno
sempre rifiutato di sottoporre alla sua giurisdizione i comportamenti
dei propri soldati nelle diverse operazioni militari condotte in
questi anni in varie parti del mondo.
L’irrilevanza dell’Europa
Tutto ciò non sminuisce di un millimetro le gravissime responsabilità
della Russia nell’attuale vicenda ucraina e non può certo essere
invocato per un agnostico “né con la NATO né con Putin”, ma esclude che
verso il secondo si adotti una linea di assoluta chiusura che non c’è
mai stata, in passato, verso il Paese guida della prima. Questo è,
almeno, il punto di vista dell’UE, che Draghi è venuto ad esporre a
Washington.
Sarà ascoltato? Il corso della crisi, fino a questo momento, non
lascia ben sperare. L’Europa, in essa, ha avuto solo il ruolo subordinato
che le concede il suo appartenere a una NATO a trazione
americana. E non è un caso. Il progetto proposto dal presidente
francese Mitterand a Praga nel 1991, all’indomani del crollo del muro
di Berlino, per integrare anche i Paesi dell’Est (Ucraina compresa)
in una grande Confederazione europea – un progetto che avrebbe potuto
rendere l’Europa protagonista tra Usa e Russia e forse evitare
l’attuale conflitto – è caduto nel vuoto, sia per l’incapacità degli
Stati europei di mettere in discussione le loro anguste logiche particolaristiche,
sia per l’accanita opposizione degli Stati Uniti, a cui non era affatto
gradita la nascita di un terzo blocco di forze tra loro e la Russia.
Il 9 maggio scorso, a Bruxelles, Emmanuel Macron ha rilanciato, a
distanza di trent’anni, l’idea del suo predecessore. Una via
per tradurre il disagio dell’Europa in un progetto costruttivo che,
senza rompere l’amicizia con l’alleato americano, le consenta di prendere
in mano, finalmente, le vicende che si svolgono sul suo territorio,
senza essere schiacciata, come adesso sta accadendo, tra
super-potenze che la ignorano.
*Pastorale Scolastica Diocesi di Palermo
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