- di Giuseppe Savagnone*
- Il processo al sergente russo -
Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Vadim Shishimarin, il
soldato russo di 21 anni processato in questi giorni a Kiev per aver
ucciso un civile, un uomo di 62 anni, disarmato, che tornava a casa in
bicicletta. È il primo processo per crimini di guerra dall’inizio
dell’invasione russa e si svolge davanti a un tribunale ucraino, in attesa
che si completino le indagini in corso da parte della Corte penale
internazionale dell’Aja, che sta anch’essa indagando sui crimini di guerra
imputati all’esercito di Putin.
Le foto e le riprese dell’imputato hanno colpito coloro che le hanno viste
su Internet: si aspettavano di vedere il volto di un cinico assassino e si
sono trovati davanti un ragazzino minuto, dai lineamenti ancora infantili,
rasato a zero, che, a testa bassa e rispondendo con qualche cenno del capo
o con poche battute verbali, ha seguito l’inizio di un processo per cui
rischia l’ergastolo.
Le autorità ucraine hanno affermato che l’imputato ha collaborato con
gli investigatori ed ha ammesso i fatti. Ha corrisposto a questa
dichiarazione l’andamento dell’interrogatorio svoltosi in aula: «Mi
chiamo Vadim Shishimarin . Sono nato a Ust-Ilimsk, nella regione di
Irkutsk. Sono sergente caposquadra della 4ª divisione Kantemirovskaya di
stanza a Naro-Fominsk, regione di Mosca». «È sposato?», gli hanno chiesto.
«No». «Ha figli?». «No». «Ha condanne precedenti?». «No». «È
consapevole delle accuse di violazione delle leggi di guerra e d’omicidio
premeditato che le sono rivolte?». «Sì». «A tale proposito, come si
dichiara?». «Colpevole».
L’imputato faceva parte di un’unità, appartenente a una divisione
corazzata, che operava nel nord-est dell’Ucraina e che era finita sotto
attacco. Lui e altri quattro soldati, sbandati, hanno rubato un’auto.
Mentre stavano viaggiando vicino al villaggio di Shupakhivka, nella
regione di Sumy, hanno incontrato l’uomo in bicicletta, che stava tornando
a casa. Parlava al cellulare. Sembra che i soldati russi abbiano temuto
che potesse denunciare la loro presenza. «Mi è stato ordinato di sparare»,
ha raccontato Shishimarin, «gli ho sparato una volta. È caduto e abbiamo
continuato il nostro viaggio». Poco dopo i militari russi sono stati
catturati dagli ucraini.
Ragazzi della periferia mandati allo
sbaraglio
Il sergente Shishimarin viene da lontano. Irkutsk è una città della Siberia
e dista più di cinquemila chilometri da Mosca. D’inverno la temperatura è
di 20° sottozero. Come in moltissimi insediamenti siberiani, una grossa
componente della popolazione discende da deportati, confinati in Siberia
prima dal regime zarista, poi da quello stalinista. Oggi la città ha
seicentomila abitanti, ma Shishimarin non viene neppure dal centro urbano,
bensì da un villaggio della regione.
Sono migliaia i ragazzi come lui, provenienti dalla periferia dell’impero
russo, spesso appartenenti a minoranze etniche e linguistiche – la
Federazione russa ne conta 200! –, finiti al fronte, in molti casi solo
perché facevano solo il servizio di leva. Gli era stato detto che non
era una guerra, solo una «operazione speciale» per ripulire l’Ucraina dai
nazisti. Probabilmente si aspettavano di essere accolti dalla popolazione
a braccia aperte, come liberatori. Invece si sono trovati in un inferno di
ferro e di fuoco. E senza una tattica adeguata a farvi fronte.
I resoconti parlano di attacchi inconsulti, come quello delle
centinaia di paracadutisti massacrati nel corso del fallito tentativo di
occupare l’aeroporto di Kiev, o quello della colonna corazzata diretto
alla capitale e lunga sessanta chilometri, esposta alla sistematica
distruzione da parte dei commando ucraini, dotati di micidiali lanciarazzi
dagli americani.
Una invasione condotta in modo assurdo dal punto di vista militare, oltre
che politico, che ha portato, secondo stime plausibili, all’annientamento
di un terzo degli effettivi dell’armata russa. Abbiamo visto tutti, in
televisione, le carcasse dei carri armati di Mosca disseminati, dopo la
ritirata, lungo le strade che avrebbero dovuto segnare la loro vittoriosa
avanzata. Ci è stata risparmiata la visione dei corpi bruciati di coloro
che li occupavano.
In questo disastro sono morti, secondo stime attendibili, più di
ventimila soldati russi. La maggior parte ragazzi come Vadim. E non certo
i figli degli oligarchi. Per lo più coscritti o, se volontari, poveri,
attirati probabilmente da un premio in denaro. All’inizio di maggio, in un
video reso pubblico dalle autorità ucraine, Shishimarin ha detto di essere
venuto a combattere in Ucraina per «sostenere finanziariamente sua madre».
La banalità del male
Corrisponde alle notizie che abbiamo avuto e alle immagini che abbiamo
visto durante i primi giorni dell’invasione: soldati russi carichi di
oggetti di ogni tipo – computer, elettrodomestici, soprammobili – rubati
nelle case occupate, che li spedivano a casa. Con i commenti che, sui
cellulari (anch’essi rubati), si scambiavano tra di loro, sorpresi e
invidiosi del benessere in cui avevano fino ad allora vissuto le persone
che stavano depredando.
In uno dei colloqui telefonici intercettati, un soldato raccontava a sua
madre di avere rubato una collanina d’oro e la donna tutta contenta lo
lodava, invitandolo a cercarne altre, anche se rotte, perché ci avrebbe
pensato lei ad aggiustarle, così poi le avrebbero rivendute. Senza neppure
chiedere che fine avesse fatto la persona a cui quella collanina
apparteneva.
Che squallore umano… Viene in mente quello che Hannah Arendt ha scritto,
a proposito del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, sulla
«banalità del male». Facendo emergere che un uomo che aveva avuto potere
sulla vita e la morte di milioni di suoi simili era in realtà un mediocre
burocrate, che aveva approfittato delle circostanze per ottenere meschini
vantaggi personali.
Nella valle Elah Davide è diventato un
assassino
Per rimanere alla storia del sergente Shishimarin, a me personalmente essa
ha ricordato un film del 2007, “Nella valle di Elah”, diretto da Paul Haggis e
basato su una vicenda realmente accaduta. In esso si narra delle indagini che
un militare in pensione, Hank Deerfield (Tommy Lee Jones), veterano del
Vietnam, svolge per scoprire che ne è stato del figlio Mike, della cui carriera
militare egli è fiero e che, appena reduce dall’Iraq, è sparito in circostanze
misteriose.
Ma dalla sua indagine emerge una verità drammatica, a cui non era
preparato. Mike – già sconvolto, all’inizio della sua missione, perché,
obbedendo agli ordini, aveva ucciso un bambino – nelle successive vicende di
una guerra spietata si era via via trasformato in un sadico torturatore, per
puro divertimento, dei prigionieri feriti. Un mostro. E la sua morte era dovuta
ai suoi commilitoni, abbrutiti come lui dalla guerra (che, nella storia reale,
lo avevano ucciso per impedirgli di denunziare lo stupro di gruppo ai danni di
una ragazza irachena).
Nella valle di Elah secondo la Bibbia, Davide aveva affrontato Golia. Nel
testo sacro l’episodio viene celebrato senza riserve. Ma il padre di Mike alla
fine è costretto a chiedersi se sia stato giusto mandare un ragazzo allo
sbaraglio in una guerra che, anche se vittoriosa, lo avrebbe trasformato in un
assassino. Forse è una domanda pertinente anche nel caso del sergente
Shishimarin e dei tanti poveracci che un conflitto assurdo ha fatto diventare
mostri.
*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo
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