Qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro è un io che, in un modo o nell’altro, è messo di fronte a se stesso
UN FILM CHE FA RIFLETTERE
Il giorno in cui Ugyen
avrebbe dovuto tenere la sua prima lezione nel villaggio a cui era stato
assegnato, viene svegliato dalla capoclasse che gli dice con estrema gentilezza
che i suoi alunni lo stavano aspettando. Un po’ sorpreso, Ugyen si prepara, ma
i pensieri che attraversano il giovane maestro nel tragitto che compie dalla
sua casa alla scuola non devono essere stati molto diversi da quelli che aveva
avuto nei lunghi otto giorni di cammino che aveva compiuto per raggiungere
Lunana; quella mattina i suoi pensieri erano anzi aggravati dall’impressione
della sera prima quando, guardando le pareti spoglie della sua nuova aula e
immaginando le condizioni di vita che lo avrebbero aspettato nei mesi
successivi, aveva deciso che lui, lì, non sarebbe riuscito a stare; che non ci
voleva stare.
Aveva quindi chiesto al
capo del villaggio e all’uomo che lo aveva accompagnato per le montagne di
riportarlo indietro. Era questione di giorni, gli asini avrebbero riposato e
poi, lasciando certamente gli abitanti un po’ delusi soprattutto per la grande
aspettativa con cui avevano atteso il suo arrivo, si sarebbe liberato di un
peso e avrebbe potuto continuare a dedicarsi al suo più grande sogno: smettere
di fare l’insegnante e costruirsi in Australia una brillante carriera musicale.
Era questo, il motivo per cui lo avevano assegnato a Lunana: a causa degli
scarsi rendimenti professionali del suo ultimo periodo, occupato per lo più a
procurarsi il visto per uscire dal paese, i superiori lo avevano assegnato alla
scuola più remota dello Stato e forse dell’intero pianeta.
Sono questi i primi
connotati della storia raccontata dal film del buthanese Pawo Choyning Dorji,
che esordisce con questa pellicola come regista. Lunana:
a yak in the classroom, candidato all’Oscar come miglior film
internazionale e distribuito nelle sale italiane con il titolo Lunana. Il
villaggio alla fine del mondo racconta la rivoluzione che avviene nell’animo
del suo protagonista, richiamando a chi insegna oggi nelle scuole di tutto il
mondo (non necessariamente così sperdute) il cuore del compito a cui è
chiamato.
Il villaggio in cui
viene mandato Ugyen è un villaggio di 56 abitanti a 5mila metri di altitudine,
sulle montagne dell’Himalaya al confine tra Buthan e Tibet. Durante l’inverno
la neve rende Lunana irraggiungibile. I suoi abitanti sono pastori di Yak, non
usufruiscono dell’elettricità e anche i bambini, per giocare, si accontentano
di poco. Quando nel suo primo giorno di lezione Ugyen chiede loro cosa
vorrebbero fare da grandi si aspetta poco di diverso dall’unica prospettiva che
offre loro la valle, la pastorizia. Sorpreso dalle risposte che gli danno,
reagisce in prima battuta con manifesto cinismo, buttando lì la prospettiva che
per realizzare ciò che desiderano devono lasciare il loro povero villaggio. Ma
c’è uno dei loro sogni che inizia a scavargli nell’animo: uno tra i più grandi
dei suoi alunni aveva confessato che avrebbe voluto fare il maestro, “perché i
maestri toccano il futuro”. Pian piano, nell’animo di Ugyen, attraverso gli
incontri che fa con gli abitanti del villaggio, queste parole si fanno strada.
Decide di non ripartire, di rimanere a Lunana fino al termine del suo mandato,
scoprendo in quel periodo della sua esistenza che è possibile essere felici
anche nel qui e nell’ora, di una felicità che è fatta anche della riscoperta
della passione per il suo lavoro e che si manifesta in una creatività anche
pratica per rendere più bella la scuola del paese e fornire ai suoi alunni la
strada verso il futuro.
Quello che ci insegna
Ugyen è che qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro
è un io che si ritrova e per questo non si dà per vinto, arrivando a fare del
dono di sé l’albero maestro della sfida educativa. Inizia a scrivere sulle
pareti dell’aula, Ugyen; poi si fa costruire una lavagna di legno, fa arrivare
dalla città libri e quaderni e, quando finiscono i fogli, si priva
silenziosamente della carta tradizionale che nella sua abitazione era stata
messa alle finestre per ripararsi dal freddo. Fa lezione con la sua chitarra,
si lascia toccare dalle vite dei bambini e delle bambine che gli è dato
incontrare in quella remota parte del mondo, e quando lascia Lunana è più
ricco, certamente, di prima.
Alla fine del film Ugyen
partirà, riuscirà ad andare in Australia. Dal suo ritorno da Lunana al
palcoscenico del bar di Sidney dove lo si vede nell’ultima scena il regista
lascia un vuoto narrativo. Non sappiamo quello che accade in mezzo. Sappiamo
solo che durante un attimo di desolazione per gli avventori distratti del
locale per cui la sua presenza è solo un sottofondo musicale del loro momento
di svago, Ugyen interrompe la sua canzone e intona un canto tradizionale di
Lunana.
Quello che è vero, nella
vita come nella scuola, rimane. Ed è per questo che, nel momento storico in cui
ci troviamo, la visione di questo film può aprire tracce di riflessione,
sostegno e speranza in chi nella scuola lavora nella ricerca di ciò che gli è
essenziale.
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