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di Giuseppe Savagnone*
- La spaventosa strage che, nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, ha
causato la morte di diciannove bambini fra i sette e dieci anni e due
insegnanti, oltre a suscitare un moto di orrore, si presta a diversi ordini di
considerazioni. La si può leggere come una tragedia causata
dall’emarginazione e dalla solitudine.
Salvador Ramos aveva appena compiuto diciotto anni. La storia di questa
terribile vicenda ce lo consegna come un mostro di cui è difficile avere pietà.
Che sia stato abbattuto dalle forze dell’ordine, intervenute per bloccarlo, non
fa pena a nessuno. Eppure, la sua storia è un esempio di come mostri si possa
diventare per una serie di circostanze negative che riempiono una persona di
odio verso gli altri. Salvador Ramos era stato bullizzato da bambino per la sua
balbuzie, deriso da adolescente per la sua povertà e per il suo modo di
vestire, escluso dalla scuola per le sue continue assenze.
Un suo compagno ha raccontato che una volta si era presentato con la faccia
piena di tagli ed all’inizio aveva detto che era stato un gatto. «Poi mi ha
detto la verità, che era stato lui a tagliarsi con un coltello», ha spiegato
ancora, dicendo che Ramos affermava che lo faceva per divertimento. In realtà,
probabilmente, si odiava.
Quanto alla sua famiglia, del padre non si sa nulla. Aveva abitato con la
madre, che aveva problemi di droga, finché non era stato cacciato da casa ed
era andato a vivere con la nonna. Ma, a giudicare dal fatto che ha tentato di
ucciderla prima di recarsi nella scuola dove ha fatto l’eccidio, neanche con
lei il rapporto affettivo aveva funzionato.
Così Salvador Ramos ha vissuto nell’attesa spasmodica di avere l’età minima
necessaria per acquistare i due fucili semiautomatici – armi da guerra! – con
cui ha sparato, prima alla nonna, poi all’impazzata su dei poveri bambini, per
vendicarsi. Di tutti. Forse della vita.
Le stragi ricorrenti e il problema delle
armi
Ma la chiave di lettura più frequente della sparatoria di Uvalde, sui
giornali, è quella che la colloca nella storia sanguinosa delle altre che
l’hanno preceduta. Una lunga scia di sangue che parte da Columbine, nel
Colorado, dove il 20 aprile 1999 due studenti della Columbine High School,
di 17 e 18 anni, armati fino ai denti, uccisero 12 compagni di classe e un
insegnante, prima di suicidarsi nella biblioteca.
Il più sanguinoso in assoluto, in questo arco di tempo, è stato il
massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, nel Connecticut, nel
dicembre 2012, quando un uomo armato uccise 26 persone, di cui 20
bambini. A seguire, quello compiuto nel 2018, da un ex studente della
Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, dove
restarono uccisi 17 studenti ed educatori. La strage di Uvalde si colloca,
per gravità, tra queste due.
Ma sono solo i picchi di un fenomeno strisciante che si prolunga nel
tempo. Secondo un’analisi del «Washington Post», dalla strage di
Colombine oltre 200 mila studenti hanno vissuto in prima persona una
sparatoria nella loro scuola. Negli ultimi venti anni ne sono avvenute più
di duecento, con più di centocinquanta vittime.
Da una ricerca dell’Università del Michigan pubblicata sul New
England Journal of Medicine il mese scorso, risulta che, a partire
dal 2020, le armi da fuoco sono diventate la principale causa di morte per
bambini e adolescenti statunitensi superando gli incidenti
automobilistici. Gli Stati Uniti hanno 329 milioni di abitanti e 393
milioni di armi da fuoco: molto più di una per abitante!
Una causa è sicuramente la legislazione permissiva, che ne
consente l’acquisto senza alcun controllo sulla idoneità degli acquirenti.
«Sono stanco, dobbiamo agire sulle armi. Queste carneficine avvengono
soltanto negli Usa», ha detto esasperato il presidente Joe Biden,
commentando la tragedia di Uvalde. Il presidente ha comunicato che
chiederà al Congresso di agire, e di mettere un freno alla
circolazione delle armi. «Dobbiamo contrastare» – ha ribadito – «la lobby
delle armi».
Si colloca su questo piano la polemica che la strage ha scatenato contro
il governatore del Texas, Greg Abbott, che, facendo leva sul secondo
emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce il
diritto all’autodifesa, ha recentemente fatto approvare una legge che
facilita l’acquisto delle armi da fuoco, incoraggiando espressamente i
cittadini ad approfittarne. «Sono imbarazzato», aveva scritto in un tweet.
«Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro
alla California. Texani, aumentiamo la velocità».
In antitesi con questo atteggiamento l’addolorato commento di
papa Francesco al tragico evento di Uvalde: «È tempo di dire basta al
traffico indiscriminato delle armi. Impegniamoci tutti
perché tragedie così non possano più accadere».
L’ambiguità della libertà
È possibile, però, una terza lettura, che, senza sottovalutare la questione
del libero mercato delle armi, parte da essa per andare alle radici
culturali del problema. La fornisce un giornalista che conosce bene la
società americana: «Limitare per legge la possibilità di armarsi appare la
soluzione logica. Il problema è che non succederà mai. Non succederà
perché in America il diritto di portare armi è incardinato sul principio
inviolabile della libertà individuale, poggia sulle idee dell’autopossesso
e dell’autodeterminazione, dalle quali
discende il diritto di proteggersi secondo modalità che non siano
sottoposte a un’autorità» (Mattia Ferraresi, Perché gli Stati Uniti non
faranno mai una legge contro le armi, su «Il Domani» del 25 maggio 2022)
C’è un modo di intendere la libertà, osserva Ferraresi , che la riduce a
quella «puramente negativa, “libertà-da” – dallo Stato, dalla leggi, dagli
altri» – e insiste quindi esclusivamente sull’autonomia dell’individuo,
piuttosto che sulla sua responsabilità verso gli altri. «La stessa»,
scrive Ferraresi, «invocata per celebrare conquiste e progressi
nell’ambito dei diritti individuali, il diritto di disporre di sé, del
proprio corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della
propria sicurezza».
È questa libertà che, nella cultura americana, rende improbabile una
legge contro le armi e che comunque, anche ove una simile legge finalmente
vedesse la luce, ne neutralizzerebbe gli effetti nella pratica. Il
problema, insomma, non è solo giuridico, ma prima di tutto
culturale. Converge con questo giudizio ciò che scrive Maria Elisabetta
Gramellini, dell’agenzia «Sir», quando, riassumendo il senso di una
intervista a John Allen – vaticanista, scrittore statunitense e
caporedattore dell’agenzia indipendente “Crux: Taking the Catholic Pulse” – ,
scrive: «Concentrare il dibattito solo sulla facilità con cui le armi
vengono vendute e diffuse nel Paese sarebbe un errore».
È ciò che emerge dalle parole di Allen: «La disponibilità delle armi è
un problema a cui serve una risposta politica, ma è solo un sintomo. La
disponibilità dà ai giovani il modo di esprimersi nella maniera più
violenta, ma le armi non sono la causa del malessere, che necessita invece
di una risposta più convincente». Qui, però, si fa un passo avanti
nella diagnosi: se la libertà è diventata un valore assoluto in se stessa,
è perché non ci sono più fini ulteriori per cui investirla. A monte c’è un
vuoto, di cui il malessere è un sintomo.
E questo forse non è vero solo degli Stati Uniti, ma evidenzia la
crisi dell’intero Occidente, dove il culto di diritti individuali ha
sempre più corrisposto alla crisi delle “grandi narrazioni” religiose e
filosofiche che davano senso alla vita e alla libertà stessa. Questa,
perciò, invece di essere innanzi tutto “libertà-per” qualcos’altro, si
è sempre più identificata con quella “da”. Col risultato di riguardare
sempre di più l’individuo e di essere sempre più sganciata dai fini e
dalla dimensione comunitaria in cui questi si incarnavano. Significativo
il fatto che la società occidentale vede ormai il tramonto della famiglia
e il trionfo della figura del single, che ha rapporti non vincolanti con
partner che cambiano di volta in volta, o con cui comunque «si sta insieme
finché si sta bene insieme», senza un impegno assoluto.
Che ci sia una versione “progressista” di questa visione – negli Stati
Uniti come in Europa – , in contrasto e in polemica con quella del
governatore repubblicano Abbott e ostile all’uso indiscriminato delle
armi, non cambia la sostanza. «Il diritto di disporre di sé, del proprio
corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della propria
sicurezza», di cui parlava Ferraresi, è il grande protagonista delle battaglie
“di sinistra” (ma ha ancora senso questa parola, applicata una visione
individualista?) che negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente hanno ormai
identificato la libertà con la legalizzazione dell’aborto senza vincoli di
sorta, con il matrimonio tra persone dello stesso sesso e con il libero
accesso all’eutanasia.
Ovviamente la comune radice culturale non può fare equiparare
questi diverse fattispecie, come dimostra il fatto che i fautori del
libero mercato delle armi sono spesso contrari alla libertà dell’aborto o
al matrimonio gay e viceversa. Come spesso accade, da un’unica premessa si
traggono conseguenze assai diverse e perfino opposte.
A chi ritiene rovinose per la vita umana sia le une che le altre non resta
che evidenziarne, al di là delle immediate reazioni emotive, la logica
interna – come qui si è cercato di fare – e rimettere in discussione il
concetto di libertà che esse implicano.
*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo
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