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venerdì 20 maggio 2022

RAGAZZI ALLO SBARAGLIO


NELLA VALLE DI ELAH 
I RAGAZZI 
DIVENTANO MOSTRI 

- di Giuseppe Savagnone*

- Il processo al sergente russo -

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Vadim Shishimarin, il soldato russo di 21 anni processato in questi giorni a Kiev per aver ucciso un civile, un uomo di 62 anni, disarmato, che tornava a casa in bicicletta. È il primo processo per crimini di guerra dall’inizio dell’invasione russa e si svolge davanti a un tribunale ucraino, in attesa che si completino le indagini in corso da parte della Corte penale internazionale dell’Aja, che sta anch’essa indagando sui crimini di guerra imputati all’esercito di Putin.

Le foto e le riprese dell’imputato hanno colpito coloro che le hanno viste su Internet: si aspettavano di vedere il volto di un cinico assassino e si sono trovati davanti un ragazzino minuto, dai lineamenti ancora infantili, rasato a zero, che, a testa bassa e rispondendo con qualche cenno del capo o con poche battute verbali, ha seguito l’inizio di un processo per cui rischia l’ergastolo.

Le autorità ucraine hanno affermato che l’imputato ha collaborato con gli investigatori ed ha ammesso i fatti. Ha corrisposto a questa dichiarazione l’andamento dell’interrogatorio svoltosi in aula: «Mi chiamo Vadim Shishimarin . Sono nato a Ust-Ilimsk, nella regione di Irkutsk. Sono sergente caposquadra della 4ª divisione Kantemirovskaya di stanza a Naro-Fominsk, regione di Mosca». «È sposato?», gli hanno chiesto. «No». «Ha figli?». «No». «Ha condanne precedenti?». «No». «È consapevole delle accuse di violazione delle leggi di guerra e d’omicidio premeditato che le sono rivolte?». «Sì». «A tale proposito, come si dichiara?». «Colpevole».

L’imputato faceva parte di un’unità, appartenente a una divisione corazzata, che operava nel nord-est dell’Ucraina e che era finita sotto attacco. Lui e altri quattro soldati, sbandati, hanno rubato un’auto. Mentre stavano viaggiando vicino al villaggio di Shupakhivka, nella regione di Sumy, hanno incontrato l’uomo in bicicletta, che stava tornando a casa. Parlava al cellulare. Sembra che i soldati russi abbiano temuto che potesse denunciare la loro presenza. «Mi è stato ordinato di sparare», ha raccontato Shishimarin, «gli ho sparato una volta. È caduto e abbiamo continuato il nostro viaggio». Poco dopo i militari russi sono stati catturati dagli ucraini.

Ragazzi della periferia mandati allo sbaraglio

Il sergente Shishimarin viene da lontano. Irkutsk è una città della Siberia e dista più di cinquemila chilometri da Mosca. D’inverno la temperatura è di 20° sottozero. Come in moltissimi insediamenti siberiani, una grossa componente della popolazione discende da deportati, confinati in Siberia prima dal regime zarista, poi da quello stalinista. Oggi la città ha seicentomila abitanti, ma Shishimarin non viene neppure dal centro urbano, bensì da un villaggio della regione.

Sono migliaia i ragazzi come lui, provenienti dalla periferia dell’impero russo, spesso appartenenti a minoranze etniche e linguistiche – la Federazione russa ne conta 200! –, finiti al fronte, in molti casi solo perché facevano solo il servizio di leva. Gli era stato detto che non era una guerra, solo una «operazione speciale» per ripulire l’Ucraina dai nazisti. Probabilmente si aspettavano di essere accolti dalla popolazione a braccia aperte, come liberatori. Invece si sono trovati in un inferno di ferro e di fuoco. E senza una tattica adeguata a farvi fronte.

I resoconti parlano di attacchi inconsulti, come quello delle centinaia di paracadutisti massacrati nel corso del fallito tentativo di occupare l’aeroporto di Kiev, o quello della colonna corazzata diretto alla capitale e lunga sessanta chilometri, esposta alla sistematica distruzione da parte dei commando ucraini, dotati di micidiali lanciarazzi dagli americani.

Una invasione condotta in modo assurdo dal punto di vista militare, oltre che politico, che ha portato, secondo stime plausibili, all’annientamento di un terzo degli effettivi dell’armata russa. Abbiamo visto tutti, in televisione, le carcasse dei carri armati di Mosca disseminati, dopo la ritirata, lungo le strade che avrebbero dovuto segnare la loro vittoriosa avanzata. Ci è stata risparmiata la visione dei corpi bruciati di coloro che li occupavano.

In questo disastro sono morti, secondo stime attendibili, più di ventimila soldati russi. La maggior parte ragazzi come Vadim. E non certo i figli degli oligarchi. Per lo più coscritti o, se volontari, poveri, attirati probabilmente da un premio in denaro. All’inizio di maggio, in un video reso pubblico dalle autorità ucraine, Shishimarin ha detto di essere venuto a combattere in Ucraina per «sostenere finanziariamente sua madre».

La banalità del male

Corrisponde alle notizie che abbiamo avuto e alle immagini che abbiamo visto durante i primi giorni dell’invasione: soldati russi carichi di oggetti di ogni tipo – computer, elettrodomestici, soprammobili – rubati nelle case occupate, che li spedivano a casa. Con i commenti che, sui cellulari (anch’essi rubati), si scambiavano tra di loro, sorpresi e invidiosi del benessere in cui avevano fino ad allora vissuto le persone che stavano depredando.

In uno dei colloqui telefonici intercettati, un soldato raccontava a sua madre di avere rubato una collanina d’oro e la donna tutta contenta lo lodava, invitandolo a cercarne altre, anche se rotte, perché ci avrebbe pensato lei ad aggiustarle, così poi le avrebbero rivendute. Senza neppure chiedere che fine avesse fatto la persona a cui quella collanina apparteneva.

Che squallore umano… Viene in mente quello che Hannah Arendt ha scritto, a proposito del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, sulla «banalità del male». Facendo emergere che un uomo che aveva avuto potere sulla vita e la morte di milioni di suoi simili era in realtà un mediocre burocrate, che aveva approfittato delle circostanze per ottenere meschini vantaggi personali.

Nella valle Elah Davide è diventato un assassino

Per rimanere alla storia del sergente Shishimarin, a me personalmente essa ha ricordato un film del 2007, “Nella valle di Elah”, diretto da Paul Haggis e basato su una vicenda realmente accaduta. In esso si narra delle indagini che un militare in pensione, Hank Deerfield (Tommy Lee Jones), veterano del Vietnam, svolge per scoprire che ne è stato del figlio Mike, della cui carriera militare egli è fiero e che, appena reduce dall’Iraq, è sparito in circostanze misteriose.

Ma dalla sua indagine emerge una verità drammatica, a cui non era preparato. Mike – già sconvolto, all’inizio della sua missione, perché, obbedendo agli ordini, aveva ucciso un bambino – nelle successive vicende di una guerra spietata si era via via trasformato in un sadico torturatore, per puro divertimento, dei prigionieri feriti. Un mostro. E la sua morte era dovuta ai suoi commilitoni, abbrutiti come lui dalla guerra (che, nella storia reale, lo avevano ucciso per impedirgli di denunziare lo stupro di gruppo ai danni di una ragazza irachena).

Nella valle di Elah secondo la Bibbia, Davide aveva affrontato Golia. Nel testo sacro l’episodio viene celebrato senza riserve. Ma il padre di Mike alla fine è costretto a chiedersi se sia stato giusto mandare un ragazzo allo sbaraglio in una guerra che, anche se vittoriosa, lo avrebbe trasformato in un assassino. Forse è una domanda pertinente anche nel caso del sergente Shishimarin e dei tanti poveracci che un conflitto assurdo ha fatto diventare mostri.

 *Pastorale Scolastica Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 3 luglio 2020

IL SASSO E LA VEDETTA


1944: una bambina, la mamma, tre fuggitivi inglesi, i soldati tedeschi e un grande sasso.

 Una storia autobiografica in tempo di guerra.



di Adriana Dominici

         Il cesto di vimini era pronto. Mia madre lo copriva con un pezzo di stoffa e, prendendomi per mano, diceva: “Andiamo!”
 Le trotterellava vicino; ogni tanto correvo avanti per raccogliere le ghiande: le tasche del mio grembiule erano sempre rigonfie. Che bel gioco era quello che le ghiande facevano scappando dalle tasche per ricadere di nuovo pe terra.
“Le raccoglierai un'altra volta. Dobbiamo andare!”  mi sollecitava la mamma.
 Pochi passi, un viottolo, una risalita ed ecco un grande masso dalla forma tondeggiante coperto da una parte da muschio e dall'altra da lichene, sopra a mo' di trono, un incavo.  Era lì che la mamma mi metteva e sussurrava: “Guarda bene. Se vedi venire qualcuno chiamami forte”.
 Il bosco era fitto, gli alberi inghiottivano con tenerezza la macchia chiara del vestito della mamma.
 Dondolavo beata sul mio trono di pietra; le gambette grassocce le scarpette di pezza fatte dalla nonna battevano contro la pietra.  Stavo facendo un lavoro e non lo sapevo. Ero sentinella di un segreto e non lo sapevo. Ero in pericolo e non lo sapevo. Vivevo la storia e non lo sapevo.
Era la primavera del 1944.  La nostra casa era stata occupata da un comando tedesco. Mia madre andava a portare del cibo a tre soldati inglesi scappati da un campo di prigionia e nascosti da mio padre in una grotta nel bosco. Intorno a me c'era la guerra ma io non lo sapevo
Me ne stavo felice sul mio trono di pietra con le ghiande tra le mani, le scarpette di pezza, il profumo del trifoglio e quel bosco che ogni tanto si prendeva la mia mamma.
Oggi quel bosco è diventato un boschetto. Non c'è più il campo di trifoglio; c’è una pianura coltivata ora a grano ora ad erba medica, ma nel mezzo c'è quel masso.
Molti chiesero a mio padre, quando cercò di recuperare più terra possibile per le coltivazioni, perché non lo avesse rimosso: dava fastidio alle macchine agricole. Egli lui rispondeva: “E’ di mia figlia!”
Solo egli, mia madre ed io sapevamo.