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venerdì 30 maggio 2025

GAZA, LA DIMENTICATA

 

Davvero 
nessun governo 

ha fatto di più

 per Gaza?

 

-di  Giuseppe Savagnone 



 All’inizio di tutto

«Quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo», ha detto il nostro ministro degli Esteri, Tajani, il 20 maggio, in margine ad un incontro organizzato dall’Università Cattolica di Milano, polemizzando con l’opposizione che il giorno prima, durante l’informativa alla Camera, gli aveva rimproverato di non aver fatto abbastanza.

In quella occasione Tajani aveva dichiarato: «Il governo non ha mai abbassato la guardia sui comportamenti del governo israeliano che abbiamo ritenuto meritevoli di censura». E aveva citato tre o quattro episodi in cui l’Italia ha protestato per attacchi ingiustificati a singole realtà religiose o umanitarie, come quello alla parrocchia cattolica di Gaza o quello agli operatori umanitari di World Central Kitchen. Bocciando come «facili slogan, buoni solo per le piazze», le critiche di coloro che pretendono di additare alternative alla linea seguita dal nostro governo.

In un clima politico surriscaldato come quello attuale, è importante, per esercitare un serio giudizio critico, guardarsi dai pregiudizi che spesso caratterizzano lo scontro tra “destra” e “sinistra”.

Vale la pena, perciò, di valutare queste affermazioni stando semplicemente ai fatti. E, poiché la vicenda drammatica a cui si riferiscono risale a più di un anno e mezzo fa, il solo modo di verificarne la fondatezza o meno è provare a fare un esercizio di memoria e di ripercorrere le prese di posizione del governo italiano nel corso di questi diciotto mesi.

Dopo il 7 ottobre 2023 è scattata subito la risposta israeliana, col duplice obiettivo, dichiarato dal premier Netanyahu, di liberare gli ostaggi e di distruggere Hamas. Prima ancora dell’invasione di terra, l’aviazione di Tel Aviv ha cominciato a scaricare sulla Striscia, ininterrottamente, tonnellate di bombe, con l’intento di smantellare la rete di gallerie sotterranee che il movimento islamico in questi anni ha costruito.

L’opinione pubblica occidentale era tutta dalla parte delle vittime dell’atroce massacro che si era consumato a danno di innocenti giovani israeliani. Il motto ricorrente era «Israele ha il diritto di difendersi».

Pure, anche allora, in un mio Chiaroscuro del 13 ottobre – proprio all’inizio di questa lunga tragedia – scrivevo, prendendo le mosse da un raduno promosso dal fondatore del «Foglio» a sostegno dello Stato ebraico: «“Bisogna liberare Gaza anche con le bombe, anche con i carri armati, anche con l’esercito”, ha gridato tra gli applausi scroscianti Giuliano Ferrara nel suo infiammato discorso. Ma, in un territorio che è fra i più densamente popolati del mondo, con due milioni di persone stipate su una superficie di 360 km quadrati (aggiungo oggi: poco più di metà della città di Madrid), le bombe sono inevitabilmente destinate a colpire prevalentemente i civili. Il bilancio di sei giorni di raid aerei sulla Striscia è di più di 1.500 morti, di cui 500 bambini».

Tutti sapevano che, per colpire l’ala militare di un gruppo come Hamas, profondamente e capillarmente radicato nel territorio, sarebbe stata inevitabile una carneficina di innocenti civili, sicuramente ostili a Israele (molti erano profughi, rifugiati a Gaza dopo la Nakba), ma certo non direttamente responsabili dell’attacco terroristico del 7 ottobre.

 Una tregua umanitaria

Da questa consapevolezza è nata la mozione, presentata e votata già il 27 ottobre 2023 nell’Assemblea Generale dell’ONU, con cui si chiedeva una tregua umanitaria che fermasse i raid. La mozione è stata approvata con 120 voti favorevoli, 45 astenuti e 14 contrari. Il nostro paese, in questa votazione, si è astenuto. Hanno invece votato a favore, in base al principio espresso dal rappresentante francese che «niente può giustificare le sofferenze dei civili», Francia, Spagna, Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia.

«L’Italia» – ha spiegato in quell’occasione il nostro ambasciatore alle Nazioni Unite, Maurizio Massari – «è e rimarrà fermamente solidale con Israele. Per noi, la sicurezza israeliana non è negoziabile in alcun modo. Questo è ciò che il governo italiano, a tutti i livelli, dal nostro Primo Ministro al nostro Ministro degli Esteri, ha affermato fin dall’inizio». Dei palestinesi, già allora colpiti senza pietà, nessuna parola.

Le successive Assemblee dell’ONU sul problema di Gaza

In base alla stessa logica l’Italia si è di nuovo astenuta nella votazione con cui, il 13 dicembre successivo, l’Assemblea Generale, ha chiesto  un «immediato cessate il fuoco umanitario» e il «rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi», approvando la risoluzione con 153 voti favorevoli – tra cui quelli di 17 paesi dell’UE – , 10 contrari e 23 astensioni. E sì che questa volta la mozione includeva la richiesta dell’immediato rilascio degli ostaggi, la cui assenza era stata citata come motivo per la mancata adesione alla risoluzione precedente.

Fin dal 27 ottobre, il nostro rappresentante aveva tenuto a sottolineare che l’Italia è favorevole alla soluzione “due popoli – due Stati”, che implica la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano, come previsto dalla risoluzione del 1947 dell’ONU. Ma quando, il 10 maggio 2024, nell’Assemblea delle Nazioni Unite si è votata una nuova risoluzione – approvata con 143 voti a favore, tra cui quelli di Francia e Spagna –  per il riconoscimento della Palestina come qualificata a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, l’Italia è stata ancora una volta, insieme ad altri 24 Stati, tra gli astenuti.

Questa volta l’ambasciatore Massari, nello spiegare il voto, ha ribadito che l’Italia è favorevole a questa soluzione. Tuttavia, ha aggiunto, «riteniamo che tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti e dubitiamo che l’approvazione della risoluzione odierna contribuirà all’obiettivo di una soluzione duratura al conflitto. Per questo motivo abbiamo deciso di astenerci».

Ma già allora in Italia l’opposizione, per bocca della segretaria del PD, Elly Schlein, criticava con energia la scelta del governo: «Il popolo palestinese non è Hamas, per isolare Hamas non bisogna schiacciare la legittima aspirazione dei palestinesi ad avere uno Stato in cui vivere in pace e in sicurezza, come è giusto che gli israeliani possano vivere in pace e in sicurezza».

Il 15 settembre dello stesso 2024 l’Assemblea generale dell’ONU ha di nuovo votato, chiedendo questa volta la fine dell’occupazione di Gaza da parte dell’esercito israeliano «entro 12 mesi». Nel documento si chiedeva, oltre al ritiro delle truppe dai territori palestinesi, la cessazione di nuovi insediamenti, la restituzione delle terre e delle proprietà sequestrate e la possibilità di ritorno dei palestinesi sfollati. La risoluzione è stata ancora una volta approvata a larga maggioranza: 124 voti a favore, 14 contrari e 43 astensioni. Ma, ancora una volta, tra gli astenuti c’era l’Italia. 

Anche in questo caso c’è stata una ferma protesta da parte delle opposizioni. «L’Italia», ha detto il segretario dei 5stelle Giuseppe Conte, «si astiene ancora una volta, all’ONU, su un voto per mettere fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Che vergogna! Continuiamo a girare la testa dall’altra parte di fronte a una occupazione illegale, allo stesso modo in cui rimaniamo indifferenti alla barbarie a Gaza, con il massacro di oltre 40mila civili».

La difesa di Netanyahu e gli attestati di vicinanza ad Israele

Il 21 novembre 2024, la Corte penale internazionale dell’Aja, all’unanimità, ha emesso mandati di arresto per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, colpevoli di «crimini contro l’umanità» per l’embargo degli aiuti umanitari nella striscia di Gaza.

La reazione della premier italiana Giorgia Meloni è stata di ribadire innanzi tutto la solidarietà con gli incriminati: «Un punto resta fermo per questo governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas». Ha poi avanzato il sospetto che le motivazioni della sentenza fossero viziate da ragioni politiche: «Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica».

E quando il presidente americano Trump, anche lui solidale con Netanyahu, ha emesso una serie di misure punitive nei confronti della Corte per la sua decisione, e 79 Stati membri dell’ONU – tra cui tutti i paesi dell’Europa occidentale, tra cui  Regno Unito, Francia, Germania e Spagna –  in una dichiarazione congiunta hanno preso le distanze da questa presa di posizione, denunciandone l’incompatibilità con il rispetto del diritto internazionale, l’Italia ha rifiutato di firmare.

Il 20 maggio scorso, davanti al dilagare delle violenze israeliane a Gaza, la Commissione europea ha accolto la richiesta, sostenuta da 17 stati membri nel Consiglio dell’Unione europea, di valutare se Israele abbia violato gli obblighi previsti dall’articolo 2 dell’Accordo di cooperazione tra Unione europea e Israele, che riguarda il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. L’Italia, insieme alla Germania, ha votato no.

In questo lasso di tempo, il governo italiano per due volte, a distanza di pochi mesi – il 25-26 luglio 2024 e il 19-21 febbraio 2025 – , nel pieno svolgimento dell’offensiva israeliana a Gaza – ha accolto in visita ufficiale il presidente di Israele, Herzog, attestandogli l’amicizia incondizionata nei confronti del suo paese e la solidarietà per la strage del 7 ottobre, limitandosi a parlare dell’importanza di «giungere al più presto a un cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi», senza mai fare cenno al massacro di cui Israele si stava rendendo responsabile. Nemmeno l’ombra delle appassionate richieste che il nostro ministro degli Esteri, appena tre mesi dopo quella visita, ha espresso nell’informativa alla Camera: «I bombardamenti devono finire, l’assistenza umanitaria deve riprendere al più presto, il rispetto del diritto internazionale umanitario deve essere ripristinato».   Eppure, i morti erano già a quella data decine di migliaia, in maggioranza donne e bambini…

Parole tardive rivolte agli italiani smemorati

Difficile, alla fine di questa ricapitolazione, sottrarsi alla conclusione il ministro Tajani, sostenendo che «il governo non ha mai abbassato la guardia sui comportamenti del governo israeliano che abbiamo ritenuto meritevoli di censura» e che «quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo», ha evidentemente confidato nella mancanza di memoria degli italiani. E ha avuto ragione, perché la grande maggioranza dei giornali e degli opinionisti non ha avuto nulla da ridire.

Ma la verità è che diversi altri Stati europei in questi diciotto mesi hanno mostrato – e continuano a mostrare – ben maggiore solidarietà nei confronti degli sventurati abitanti della Striscia, battendosi per la fine del massacro di cui erano e continuano ad essere vittime, senza esitare a entrare in netto contrasto con le posizioni del governo israeliano, che ne ha sempre rivendicato la piena legittimità. 

Niente di lontanamente simile nella linea italiana, sempre molto attenta a «non isolare Israele», ma molto meno a cercare di risparmiare la vita e la dignità di un popolo ridotto a carne da macello. Anzi, con le sue reiterate scelte di neutralità, con la sua esplicita difesa dello Stato ebraico, l’Italia è stata di fatto complice di quello che ormai sempre più chiaramente si presenta come un genocidio.

Le parole di Tajani avrebbero dovuto essere pronunziate – e in sede internazionale – nell’ottobre del 2023. Oggi suonano solo come una concessione tardiva al clima di indignazione ormai sempre più diffuso tra i governi e nell’opinione pubblica occidentale. E non basta, per smentire l’accusa di aver chiuso gli occhi, evocare la condanna dell’attacco alla parrocchia cattolica di Gaza. 

 www.tuttavia.eu



 

 

venerdì 20 maggio 2022

RAGAZZI ALLO SBARAGLIO


NELLA VALLE DI ELAH 
I RAGAZZI 
DIVENTANO MOSTRI 

- di Giuseppe Savagnone*

- Il processo al sergente russo -

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Vadim Shishimarin, il soldato russo di 21 anni processato in questi giorni a Kiev per aver ucciso un civile, un uomo di 62 anni, disarmato, che tornava a casa in bicicletta. È il primo processo per crimini di guerra dall’inizio dell’invasione russa e si svolge davanti a un tribunale ucraino, in attesa che si completino le indagini in corso da parte della Corte penale internazionale dell’Aja, che sta anch’essa indagando sui crimini di guerra imputati all’esercito di Putin.

Le foto e le riprese dell’imputato hanno colpito coloro che le hanno viste su Internet: si aspettavano di vedere il volto di un cinico assassino e si sono trovati davanti un ragazzino minuto, dai lineamenti ancora infantili, rasato a zero, che, a testa bassa e rispondendo con qualche cenno del capo o con poche battute verbali, ha seguito l’inizio di un processo per cui rischia l’ergastolo.

Le autorità ucraine hanno affermato che l’imputato ha collaborato con gli investigatori ed ha ammesso i fatti. Ha corrisposto a questa dichiarazione l’andamento dell’interrogatorio svoltosi in aula: «Mi chiamo Vadim Shishimarin . Sono nato a Ust-Ilimsk, nella regione di Irkutsk. Sono sergente caposquadra della 4ª divisione Kantemirovskaya di stanza a Naro-Fominsk, regione di Mosca». «È sposato?», gli hanno chiesto. «No». «Ha figli?». «No». «Ha condanne precedenti?». «No». «È consapevole delle accuse di violazione delle leggi di guerra e d’omicidio premeditato che le sono rivolte?». «Sì». «A tale proposito, come si dichiara?». «Colpevole».

L’imputato faceva parte di un’unità, appartenente a una divisione corazzata, che operava nel nord-est dell’Ucraina e che era finita sotto attacco. Lui e altri quattro soldati, sbandati, hanno rubato un’auto. Mentre stavano viaggiando vicino al villaggio di Shupakhivka, nella regione di Sumy, hanno incontrato l’uomo in bicicletta, che stava tornando a casa. Parlava al cellulare. Sembra che i soldati russi abbiano temuto che potesse denunciare la loro presenza. «Mi è stato ordinato di sparare», ha raccontato Shishimarin, «gli ho sparato una volta. È caduto e abbiamo continuato il nostro viaggio». Poco dopo i militari russi sono stati catturati dagli ucraini.

Ragazzi della periferia mandati allo sbaraglio

Il sergente Shishimarin viene da lontano. Irkutsk è una città della Siberia e dista più di cinquemila chilometri da Mosca. D’inverno la temperatura è di 20° sottozero. Come in moltissimi insediamenti siberiani, una grossa componente della popolazione discende da deportati, confinati in Siberia prima dal regime zarista, poi da quello stalinista. Oggi la città ha seicentomila abitanti, ma Shishimarin non viene neppure dal centro urbano, bensì da un villaggio della regione.

Sono migliaia i ragazzi come lui, provenienti dalla periferia dell’impero russo, spesso appartenenti a minoranze etniche e linguistiche – la Federazione russa ne conta 200! –, finiti al fronte, in molti casi solo perché facevano solo il servizio di leva. Gli era stato detto che non era una guerra, solo una «operazione speciale» per ripulire l’Ucraina dai nazisti. Probabilmente si aspettavano di essere accolti dalla popolazione a braccia aperte, come liberatori. Invece si sono trovati in un inferno di ferro e di fuoco. E senza una tattica adeguata a farvi fronte.

I resoconti parlano di attacchi inconsulti, come quello delle centinaia di paracadutisti massacrati nel corso del fallito tentativo di occupare l’aeroporto di Kiev, o quello della colonna corazzata diretto alla capitale e lunga sessanta chilometri, esposta alla sistematica distruzione da parte dei commando ucraini, dotati di micidiali lanciarazzi dagli americani.

Una invasione condotta in modo assurdo dal punto di vista militare, oltre che politico, che ha portato, secondo stime plausibili, all’annientamento di un terzo degli effettivi dell’armata russa. Abbiamo visto tutti, in televisione, le carcasse dei carri armati di Mosca disseminati, dopo la ritirata, lungo le strade che avrebbero dovuto segnare la loro vittoriosa avanzata. Ci è stata risparmiata la visione dei corpi bruciati di coloro che li occupavano.

In questo disastro sono morti, secondo stime attendibili, più di ventimila soldati russi. La maggior parte ragazzi come Vadim. E non certo i figli degli oligarchi. Per lo più coscritti o, se volontari, poveri, attirati probabilmente da un premio in denaro. All’inizio di maggio, in un video reso pubblico dalle autorità ucraine, Shishimarin ha detto di essere venuto a combattere in Ucraina per «sostenere finanziariamente sua madre».

La banalità del male

Corrisponde alle notizie che abbiamo avuto e alle immagini che abbiamo visto durante i primi giorni dell’invasione: soldati russi carichi di oggetti di ogni tipo – computer, elettrodomestici, soprammobili – rubati nelle case occupate, che li spedivano a casa. Con i commenti che, sui cellulari (anch’essi rubati), si scambiavano tra di loro, sorpresi e invidiosi del benessere in cui avevano fino ad allora vissuto le persone che stavano depredando.

In uno dei colloqui telefonici intercettati, un soldato raccontava a sua madre di avere rubato una collanina d’oro e la donna tutta contenta lo lodava, invitandolo a cercarne altre, anche se rotte, perché ci avrebbe pensato lei ad aggiustarle, così poi le avrebbero rivendute. Senza neppure chiedere che fine avesse fatto la persona a cui quella collanina apparteneva.

Che squallore umano… Viene in mente quello che Hannah Arendt ha scritto, a proposito del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, sulla «banalità del male». Facendo emergere che un uomo che aveva avuto potere sulla vita e la morte di milioni di suoi simili era in realtà un mediocre burocrate, che aveva approfittato delle circostanze per ottenere meschini vantaggi personali.

Nella valle Elah Davide è diventato un assassino

Per rimanere alla storia del sergente Shishimarin, a me personalmente essa ha ricordato un film del 2007, “Nella valle di Elah”, diretto da Paul Haggis e basato su una vicenda realmente accaduta. In esso si narra delle indagini che un militare in pensione, Hank Deerfield (Tommy Lee Jones), veterano del Vietnam, svolge per scoprire che ne è stato del figlio Mike, della cui carriera militare egli è fiero e che, appena reduce dall’Iraq, è sparito in circostanze misteriose.

Ma dalla sua indagine emerge una verità drammatica, a cui non era preparato. Mike – già sconvolto, all’inizio della sua missione, perché, obbedendo agli ordini, aveva ucciso un bambino – nelle successive vicende di una guerra spietata si era via via trasformato in un sadico torturatore, per puro divertimento, dei prigionieri feriti. Un mostro. E la sua morte era dovuta ai suoi commilitoni, abbrutiti come lui dalla guerra (che, nella storia reale, lo avevano ucciso per impedirgli di denunziare lo stupro di gruppo ai danni di una ragazza irachena).

Nella valle di Elah secondo la Bibbia, Davide aveva affrontato Golia. Nel testo sacro l’episodio viene celebrato senza riserve. Ma il padre di Mike alla fine è costretto a chiedersi se sia stato giusto mandare un ragazzo allo sbaraglio in una guerra che, anche se vittoriosa, lo avrebbe trasformato in un assassino. Forse è una domanda pertinente anche nel caso del sergente Shishimarin e dei tanti poveracci che un conflitto assurdo ha fatto diventare mostri.

 *Pastorale Scolastica Diocesi Palermo

 www.tuttavia.eu