- di Luigi Sanlorenzo (*)
“Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno
stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra
sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinché
nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi
germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio;
per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli
uccelli; pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole
riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la
strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i
ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami
e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a
sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro
nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed
erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini –
gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare se stessi e
gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella
mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene
di tutti gli esseri, quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo,
all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano
inventato per dominare gli uni sugli altri.”
Così Lev Nikolàevič
Tolstoj nel celebre incipit di "Resurrezione" l’ultimo grande
romanzo, scritto a Jasnaja Poljana tra il 1889 e il 1899. Ne riporto la trama,
come mi sono impegnato a fare con i miei lettori, quale ultimo degli articoli
sulla grande letteratura in lingua russa pubblicati a mia firma nei mesi scorsi
ed elencati nelle note a piè di pagina.
Proprio durante il suo
soggiorno cittadino viene chiamato dal tribunale ad esercitare il proprio
dovere facendo parte di una giuria popolare; ma quello che doveva passare come
un semplice impegno civico, prende improvvisamente per il principe una piega
del tutto inaspettata. Chiamato a decidere come membro della giuria della
condanna di una prostituta, riconosce in lei la ragazza che aveva sedotto molti
anni prima e poi abbandonata; dovette difatti andarsene dalla casa di
Nechljudov dove lavorava come cameriera al fine di soddisfare le esigenze del
loro bambino. Per poter sopravvivere diventa prostituta.
Dopo aver assistito alla
sua ingiusta condanna, è stata difatti accusata di omicidio premeditato, tra
magistrati ridicoli e avvocati giovani ed inesperti matura in lui la volontà di
salvarla e di sposarla.
Katjuša pare però
rifiutare la proposta e le attenzioni del principe, il quale, divorato dal
rimorso, decide di seguirla comunque ai lavori forzati in Siberia dove è stata
deportata con l'immutato proposito di redimerla; compirà ogni sforzo per
riscattare la propria colpa e riunirsi a lei. Egli assisterà infine alla
"resurrezione" della ragazza, ma in maniera alquanto differente da
come si proponeva; ella infatti rifiuterà di sposarlo, forse per l'amore d'un
compagno di prigionia, forse perché non vuole che lui si rovini, e quindi per
amor suo; comunque, come scelta di persona libera.
Il giovane uomo dovrà
infine aprire gli occhi alla miseria spirituale del mondo e superare l'atroce
delusione nei confronti della giustizia umana; ciò si risolverà non nella
società del mondo, ma nella fede. La "resurrezione" di Nechljudov
passa attraverso la riunione con Cristo: leggendo, una notte, il brano del Discorso
della montagna trova egli stesso, attraverso il Vangelo, la via della
redenzione e un nuovo indirizzo da dare alla propria vita.
Fu un grande successo e,
grazie alla televisione in bianco e nero di allora, la maggior parte degli
italiani, ancora afflitta da un consistente tasso di analfabetismo, scoprì un
mondo, fino ad allora sconosciuto o distorto dalla propaganda della Guerra
Fredda e dalle sue propaggini nel nostro Paese. Altri tempi, altra RAI, altra
responsabilità pedagogica del Servizio Pubblico!
Ricordo ancora il
momento in cui lessi per la prima volta quelle pagine il cui odore è rimasto
impresso nella parte più profonda di me stesso. Avevo 12 anni, forse non era la
lettura più adatta per quell’età, ma fu il primo incontro con i temi della
necessità interiore del riscatto morale e dell’imperativo etico della giustizia
sociale. Fu il primo passo di un’educazione sentimentale che si sarebbe
sviluppata lungo l’intero corso della mia vita. Non vi è stata Pasqua, da
allora, in cui al termine “resurrezione” io non abbia associato quell’antica
esperienza sensoriale ed intellettuale.
Perché avvertiamo
periodicamente il bisogno di risorgere? Probabilmente tale necessità è legata
alla natura stessa degli esseri viventi che, in realtà, muoiono e rinascono
costantemente attraverso il quotidiano ricambio cellulare che connota
l’esistenza fisica per l’intera durata della vita codificata nel DNA. Tuttavia,
mentre di questa dinamica cellulare non ci rendiamo pienamente conto, è sul
piano culturale che il bisogno di rinascere esprime il massimo effetto.
Gli individui cambiano,
a volte repentinamente, compiendo scelte inaspettate che sovente destano lo
stupore di quanti li circondano; le società si trasformano e, seppur più
lentamente, archiviano paradigmi e sistemi valoriali, sino a rendersi
irriconoscibili nel volgere di pochi decenni; i popoli avvertono pulsioni
inarrestabili di nuovi destini e si mettono in cammino verso terre promesse che
variano secondo le epoche, fondando nuovi mondi o rigenerando quelli esistenti.
È passaggio quello di
Enea che si lascia alle spalle la patria ormai in fiamme e si incammina sulla
strada dell’incertezza, portando nei lombi il seme di un impero, ma lo è anche
quello di Ulisse che, tornato all’amata Itaca dopo vent’anni, avverte
l’insopprimibile bisogno di varcare le colonne d’Ercole e di realizzare il
sogno che ogni uomo ha di cercare incessantemente la radice di se stesso,
superandosi. Sono passaggi il gesto di Martin Lutero che sfida la corruzione di
una Chiesa ostinata in un medio evo già finito, quello di Giordano Bruno che
annuncia l’Universo fisico di cui siamo solo una parte infinitesima e quello di
Francesco che si spoglia di ogni bene ed abbraccia il lebbroso. In ciascuno di
questi passaggi c’è il conflitto con ciò che non si può più accettare e con
l’ipocrisia di chi teme di lasciare “la comoda schiavitù d’Egitto”.
Sono
"passaggi" l’Esodo biblico, l’Anabasi narrata da Senofonte che
riscatta i Greci dall’esperienza mercenaria al soldo dei persiani, la durissima
traversata atlantica dei Padri Pellegrini a bordo del Mayflower verso la
libertà dall’intolleranza, la lunga marcia di Mao, l’esperienza tragica della
Resistenza al nazifascismo, le grandi migrazioni di ieri e di oggi, la pandemia
che ha sconvolto le esistenze individuali e l'equilibrio, pur precario, del
mondo intero.
E' passaggio il tempo di
guerra che stiamo vivendo e che ci costringe a confrontarci con temi, fatti e
sentimenti che pensavano confinati nel passato della Storia; stiamo assistendo
ad eventi che riguardano singoli individui o interi popoli che si trovano nella
necessità di rinascere ad una nuova origine, nell’aspirazione a dare un corso
inedito al proprio destino che, comunque, riguarderà, i vinti, i vincitori e
quanti si illudono di essere solo spettatori.
Il passaggio non è
immune da insidie. Lo sanno bene gli adolescenti che durante i riti tribali di
iniziazione sono volutamente esposti ad ogni genere di rischio presente nella
boscaglia esattamente come quelli che, con minore consapevolezza, devono
affrontare i giovani delle società cosiddette “evolute”. La principale insidia
è sempre la tentazione di tornare indietro nella rassicurante condizione di
un’impossibile replica dell’infanzia fisica o sociale. Persino il Cristo
nell’Orto degli Ulivi implora il Padre di “allontanare il calice amaro” pur
sapendo che, oltre l’umana – fin troppo umana – paura del dolore, solo in quel
calice c’è la Resurrezione.
Né minore è l’insidia di
lasciare che altri guidino il passaggio, trasformando un individuo in un
gregario impaurito dalla responsabilità e un popolo in un gregge terrorizzato
dal mondo che cambia. L’unica possibile resurrezione è dentro noi stessi in quella
solitudine amara che è la sola garanzia di libertà delle scelte che sappiamo
essere necessarie per riscattare noi stessi.
È solo conquistando in
solitudine tale libertà che possiamo condividere il cammino con individui
altrettanto liberi e con essi fondare Nuove Città, senza la presunzione di
renderle ideali ed eterne, cioè, ancora una volta, di frenarne ulteriori e
necessarie successive resurrezioni.
Carl Gustav Jung, padre
della psicologia analitica che per la prima volta definì i concetti di inconscio
collettivo e di inconscio individuale, così scriveva nel 1911:
Abbiamo bisogno di risorgere
per non sopprimere il futuro, abbiamo bisogno di “passare” per non restare
intrappolati in noi stessi, abbiamo bisogno di morire a qualcosa o a qualcuno
per continuare a vivere in attesa del passaggio definitivo che ci restituirà a
quel Tutto da cui proveniamo e di cui nutriamo una dolce e profonda nostalgia.
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