Galimberti: competenze?
La scuola non educa più.
Bisogna dirlo con forza
Educa? “Dobbiamo dire
con forza che non educa. E che la soggettività non conta proprio niente”. E’
caustico, il professor Umberto Galimberti. Migliaia di persone, accorse in
Piazza Grande a Modena ad assistere alla sua lezione magistrale al Festival
della Filosofia sul ruolo della tecnica nella società contemporanea, lo
acclamano, annuiscono. A fine lezione gli fanno domande perché non tutto è
chiaro, le risposte sono occasione ulteriore per nuovi dubbi. E’ la filosofia,
bellezza, ma è anche l’impatto della medesima con il mondo che ci circonda,
quello concreto, che grida aiuto su tutti i fronti. Forse è sempre stato così,
forse no, ma è con questo mondo – con le sue contraddizioni, esaltate dalla
società tecnologica, anzi con la tecnica, con la quale anche la scuola ogni
giorno di più viene invitata a esercitarsi e ad esercitare giovani e
giovanissime menti – che deve fare i
conti l’umanità attuale.
E quando qualcuno gli
rimprovera di essere troppo pessimista lui, il filosofo, sociologo,
psicoanalista, che è stato pure professore nei licei – ribatte che il suo non è pessimismo. “E’
realismo”, ribatte. “Guardate che io sono una persona gaia – sorride – ma se mi
chiedete come stiano le cose io vi dico come stanno, non posso dirvi quello che
vorreste sentire”. E la speranza, non abbiamo la speranza dalla nostra parte?
“E’ una parola che non mi è mai piaciuta”, confessa Galimberti. Che si spiega
meglio “Il Cristianesimo ha fatto un’operazione eccellente. Ha stabilito che il
futuro è sempre positivo, che il passato – il peccato originale – è male. Che
il presente è redenzione, e che il futuro è salvezza. La scienza ha fatto lo
stesso ragionamento: passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è
progresso”. E Marx? “Decise che il passato è ingiustizia sociale, che nel
presente esplodono le contraddizioni del capitalismo e che il futuro è
giustizia sulla terra”. Freud, da parte sua, “che ha scritto un libro contro la
religione, colloca tutte le nevrosi e i traumi nel passato, l’analisi nel
presente, la guarigione, e dunque la salvezza, nel futuro”. Errore. Errori. E
noi? “Noi abbiamo questa impostazione cristiana in tutte le scienze, in tutti i
repertori, anche in quelli che sembrano i più atei e allora con questa cultura
noi cerchiamo la speranza, ma la speranza è una parola passiva. Ogni volta che
io sento dire speriamo, auspichiamo, auguriamoci…, ecco, queste sono le parole
della passività. E a questa passività si educano anche i ragazzi, in quarta o
quinta ginnasio quando si fa leggere loro I Promessi sposi. E’ un ottimo
romanzo letterario, ma in quel modo si dà ai ragazzi un pessimo messaggio e
cioè che la storia la fa la Provvidenza. E allora – si chiederanno – io che
cosa faccio?
Dalla speranza alla
concretezza, alla responsabilità. Che non c’è più, secondo Galimberti. Il quale
sottolinea (e denuncia) il ruolo vincente della tecnica. Non tanto quello del
mercato, non tanto quello della tecnologia, ma quello della tecnica e quelli
dell’efficienza e della produttività, del consumo e della continua crescita.
“Chiedetevi – è stato l’invito di Galimberti alle migliaia di persone assiepate
in piazza sotto un sole più che settembrino –
se voi siete valutati ogni giorno in base a chi siete o in base alla
vostra capacità di essere efficienti e produttivi negli apparati in cui vi
trovate. Abbiamo una struttura sociale che non guarda più in faccia alle
persone ma alle loro prestazioni, e questo ha invaso anche la scuola”. E’ il
tema del tema di prima, non più richiesto agli studenti, sostituito dalla
comprensione del testo. Dalla prestazione: “Sì, dalla prestazione. La
soggettività non conta proprio niente in questa società”.
Una società che ha messo
l’individuo davanti alla società, cioè davanti a se stessa. L’individuo e la
propria identità. Ma cos’è l’identità? “L’identità ce l’abbiamo perché siamo
nati? No” – prosegue Galimberti – ce l’abbiamo perché gli altri ce la
riconoscono. Attraverso il riconoscimento noi acquistiamo un’identità. Noi non
siamo altro che il risultato del riconoscimento delle persone che abbiamo
incontrato e quindi sono questi molti che ci danno l’identità. Questo i Greci
lo sapevano ed è la ragione per la quale mettevano la città davanti
all’individuo mentre il Cristianesimo mette l’individuo davanti alla società. E
dopo ci si lamenta delle degenerazioni che sono l’individualismo, il
narcisismo, il nichilismo. Che sono i risultati dell’errore cristiano di porre
l’individuo davanti alla società primato dell’individualismo. Occorre
recuperare il concetto greco di persona, che è colui che mi sta davanti”. Colpa della tecnica, ancora una volta.
“L’uomo viene modellato sulla macchina. Il computer che hai davanti ha già
deciso la modalità con cui la persona deve pensare, lavorare, operare.
L’obiettivo della tecnica è quello di spingere la imitare il più possibile il
computer. Il quale non ha malumori con la moglie, non si ammala, non va in
ferie, non dorme, ha una memoria superiore alla tua, e tu devi essere sempre
connesso. La gente ormai va in giro con le cuffie alle orecchie e parla da sola
in strada, che era esattamente quello che facevano i pazzi una volta. Io non so
tra l’una e l’altra cosa. La tecnica ti porta via anche l’identità. Vai a casa
e non sai neanche più chi sei. Vai al ristorante e vedi padre, madre e figli,
tutti quanti ciascuno con il telefonino mentre aspettano da mangiare. No,
questa non è più un’umanità”.
Colpa della tecnica ma
anche dell’economia? “Basta guardare allo scenario economico e a cosa sono
diventate le persone. Il capitalismo sta divorando se stesso perché ha fatto
diventare il denaro il principale tra tutti i valori. C’è l’illusione di una
continua crescita attraverso il consumo. L’Ocse dice che per tenere questo
livello di vita dobbiamo consumare l’ottanta per cento delle risorse. Solo un
pazzo può pensare che si possa continuare in questo modo”. Occorre consumare di meno. “Tuttavia il
capitalismo non ci vede come persone ma come consumatori, in un circolo vizioso
per cui se non si consuma non si produce, se non si produce si crea
disoccupazione e infine disastro sociale”: Dunque siamo sottoposti a un
continuo, pressante invito a consumare. “Ma consumare significa portare le cose
a niente. Il nichilismo e la nostra cultura ci spingono a portare le cose a
niente e nel più breve tempo possibile, c’è una data di scadenza su tutte le
cose. È una società nichilistica, gli oggetti si devono distruggere, la moda
distrugge, la moda è un acceleratore di nichilismo, instilla bisogni con la
pubblicità, ci dice che c’è sempre qualcosa di nuovo, ma qualcuno ha scritto
che la gente felice non consuma”. Il qualcuno viene ricordato da Galimberti. Si
tratta del bellissimo e inquietante libro “Lire 26.900”, forse autobiografico,
di Frédéric Beigbeder, nel quale l’autore fa dire a Octave, pubblicitario
pagato per spingere la gente a comprare: “Nel mio mestiere nessuno desidera la
vostra felicità, perché la gente felice non consuma”.
Ancora tecnica e
tecnologie. “Una madre preoccupata un giorno mi ha chiesto – racconta
Galimberti – Professore, il mio bambino fa la quarta elementare e vuole il
telefonino. Glielo dia, le ho risposto, se no non socializza. La tecnica è già
entrata nella nostra sfera intima e i giovani si trovano in un mondo diverso a
loro insaputa”. Giovani che “sono la prima generazione in cui i padri non
comunicano con i figli. Mi scrivono tanti giovani. E dopo aver letto le loro
lettere io chiedo loro: perché queste cose non le dite ai vostri genitori e ai
vostri professori? E loro: sappiamo già cosa ci risponderebbero”. Pausa di
sconforto. “Allora state attenti cari genitori, perché i vostri figli ogni
tanto aprono una finestra. E i genitori dovrebbero ascoltarli. Ma non per dire
poi di dico, ma per essere curiosi del loro mondo. Siate curiosi del mondo dei
vostri figli. E’ davvero inquietante che noi non siamo preparati alla
trasformazione del mondo, che non abbiamo un pensiero alternativo al calcolo
tecnico”. Ma lo scenario della tecnica per Galimberti è altrettanto
inquietante: “Non è più uno strumento nelle mani dell’uomo – spiega – Se è vero
che la nostra capacità di fare è superiore alla nostra capacità degli effetti
del nostro fare vuol dire che ci muoviamo a mosca cieca. I Greci avevano
incatenato Prometeo. Noi abbiamo un robot che cura i nostri vecchi. La tecnica
spinge a produrre non ciò che serve ma per vedere l’effetto che fa: è
l’eterogenesi dei fini”. E la politica “non è più il luogo della decisione
perché, per decidere, la politica guarda all’economia”. Che “per decidere, a
sua volta guarda alle risorse tecnologiche”.
Ma non sono le tecnologie ad essere demonizzate: “La tecnologia è il
mezzo, sono i mezzi. La tecnica e più sofisticata. È pericolosa. Il suo
obiettivo è raggiungere il massimo degli scopi con il minimo mezzo. E’ lo
strumento con cui l’uomo uscirà dalla storia. Non basta un week end per
recuperare la nostra parte irrazionale. Voi mi chiedete se sono pessimista, ma
non sono pessimista – ripete ancora una volta –
io sono realista. E se pensate di essere in un mondo naturale e non in
un mondo tecnologico sbagliate paesaggio”. Va bene tutto, anzi malissimo. Ma se
la parola speranza non serve, quale potrebbe essere una parola di conforto
costruttivo? “La parola corretta – conclude Galimberti – è consapevolezza. La
felicità è nella giusta misura, la misura della vita. Se la vita va oltre la
vita c’è l’esagerazione. I Greci pensavano che non si morisse perché si è
malati, ma si è malati perché si deve morire. Dovremmo acquisire il senso del
limite”.
Nessun commento:
Posta un commento