Il grido del papa contro la guerra
- di Giuseppe Savagnone *
Sembra caduto nel vuoto
l’appello rivolto da papa Francesco, durante l’Angelus della Domenica delle
Palme, e poi riprodotto, su Twitter, in russo e in ucraino: «Si depongano le
armi! Si inizi una tregua pasquale; ma non per ricaricare le armi e riprendere
a combattere, no! Una tregua per arrivare alla pace, attraverso un vero
negoziato, disposti anche a qualche sacrificio per il bene della gente».
Durante la messa aveva
detto, con evidente riferimento alle recenti notizie di violenze e di stragi:
«Quando si usa violenza non si sa più nulla su Dio, che è Padre, e nemmeno
sugli altri, che sono fratelli. Si dimentica perché si sta al mondo e si arriva
a compiere crudeltà assurde. Lo vediamo nella follia della guerra, dove si
torna a crocifiggere Cristo. Sì, Cristo è ancora una volta inchiodato alla
croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli. È
crocifisso nei profughi che fuggono dalle bombe con i bambini in braccio. È
crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro,
nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli. Cristo è crocifisso lì, oggi».
Mai come in questi
giorni è apparsa chiara l’inattualità del Vangelo. Enzo Bianchi, parlando della
guerra in corso, ha scritto che «questa chiara dimostrazione di come i
cristiani non siano capaci di dare il messaggio che loro compete, messaggio di
fraternità e di pace, risulta un grave fallimento, un’impotenza che dice quanto
poco credibile sia diventato il cristianesimo!»
Fallimento o destino del
cristianesimo?
In realtà, però, ciò che
sta accadendo in Ucraina non manifesta il fallimento del cristianesimo, ma il
suo destino. Si può constatare con amarezza l’indifferenza dei contendenti
all’accorato appello del pontefice, ma non ci se ne può stupire. È stato così anche
in passato. Almeno nel Novecento.
Benedetto XV
(1914-1922), eletto papa poche settimane dopo l’inizio del primo conflitto
mondiale, nella sua prima enciclica, «Ad Beatissimi Apostolorum principis», del
novembre 1914, supplicò vanamente i governanti delle nazioni (tra cui la
cattolicissima Austria) che facessero tacere le armi. E nella successiva «Nota
di pace», indirizzata il primo agosto 1917 ai belligeranti, definì la guerra in
corso una «inutile strage». La guerra durò ancora fino al novembre dell’anno
dopo.
Anche Pio XII
(1939-1958) – proprio all’indomani della sua elezione al pontificato, avvenuta
nel marzo del 1939 – cercò disperatamente di fermare lo scoppio della seconda
guerra mondiale nel Radiomessaggio del 24 agosto, contenente il famoso appello:
«Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra». Poco
prima, papa Pacelli aveva inviato anche un messaggio personale a Hitler,
esortandolo a occuparsi del vero benessere spirituale del popolo tedesco.
E quando, infine, la situazione
stava precipitando, tentò un’ultima carta proponendo a Germania e Polonia di
soprassedere per quindici giorni alle azioni militari, per incontrarsi in una
conferenza internazionale di pace. Sappiamo che questi sforzi della Santa Sede
furono vani, di fronte alla decisa volontà di Hitler di scatenare la guerra,
che infatti cominciò il 1 settembre del 1939.
«Dio dei nostri Padri,
(…)
Tu hai progetti di pace
e non di afflizione,
condanni le guerre
e abbatti l’orgoglio dei
violenti
(…)
Ascolta il grido unanime
dei tuoi figli,
supplica accorata di
tutta l’umanità:
mai più la guerra,
avventura senza ritorno,
mai più la guerra,
spirale di lutti e di violenza;
fai cessare questa
guerra nel Golfo Persico,
minaccia per le tue
creature, in cielo, in terra ed in mare.
(…)
Mai più la guerra
Amen».
La preghiera seguiva uno
sforzo concreto per evitare il conflitto. Nel 1990, alla vigilia dell’inizio
dell’operazione «Desert storm», Wojtyla aveva inviato un messaggio sia a Saddam
Hussein che a George Bush Sr, supplicandoli di avviare negoziati.
Nella lettera al
presidente americano scriveva: «Desidero adesso ripetere la mia ferma
convinzione che è molto difficile che la guerra porti un’adeguata soluzione ai
problemi internazionali e che, anche se una situazione ingiusta potesse essere
momentaneamente risolta, le conseguenze che con ogni probabilità deriverebbero
dalla guerra sarebbero devastanti e tragiche. Non possiamo illuderci che
l’impiego delle armi, e soprattutto degli armamenti altamente sofisticati di
oggi, non provochi, oltre alla sofferenza e alla distruzione, nuove e forse
peggiori ingiustizie».
Anche nel caso del
conflitto della ex Jugoslavia Giovanni Paolo II cercò di fare quanto poteva per
fermarlo. La guerra del Kosovo era iniziata il 24 marzo 1999 con i
bombardamenti Nato. Il primo aprile il papa inviò a Belgrado il suo “ministro
degli esteri”, l’arcivescovo Jean Louis Tauran, latore di un messaggio
personale a Milosevic, con la richiesta della cessazione immediata delle
operazioni di pulizia etnica nel Kosovo. Nel messaggio si proponeva anche, con
l’accordo della Nato, una tregua per la Pasqua ortodossa. Quattro giorni dopo
in effetti la tregua venne dichiarata, ma poi la guerra riprese con immutata
violenza.
Una terza iniziativa il
pontefice l’ha messa in atto in occasione della seconda guerra del Golfo.
Quando ormai era tutto pronto per l’offensiva, il 5 marzo 2003, egli inviò il
cardinale Pio Laghi a incontrare il presidente George W. Bush Jr per chiedergli
di rinunziare all’imminente azione militare. Il Cardinale Laghi disse a Bush
che, se gli Stati Uniti avessero scatenato la guerra, sarebbero successe tre
cose.
Primo, il conflitto
avrebbe causato un gran numero di vittime. Secondo, esso avrebbe condotto a una
guerra civile. E, terzo, gli Stati Uniti sarebbero sì stati in grado di entrare
in guerra, ma avrebbero avuto molta difficoltà ad uscirne. Si trattava di una
diagnosi profetica, ma Bush fu irremovibile nella sua decisione che, disse,
«era convinto che fosse la volontà di Dio».
La solitudine di papa
Francesco e quella di Gesù
Anche ora c’è chi è
certo che la guerra sia l’unico modo di fare la volontà di Dio. E’ il caso del
patriarca di Mosca Kirill, che, fin dall’inizio, ha giustificato l’invasione
russa dell’Ucraina come una battaglia di civiltà contro la corruzione dei
valori da parte dell’Occidente, facendo riferimento in particolare al problema
dell’omosessualità, e successivamente ha definito il conflitto scatenato da
Putin un esempio di legittima difesa: «Siamo un Paese che ama la pace e non
abbiamo alcun desiderio di guerra», ha detto durante la liturgia celebrata
nella Cattedrale Patriarcale con le forze armate, «ma amiamo la nostra Patria e
saremo pronti a difenderla nel modo in cui solo i russi possono difendere il
loro Paese».
In realtà anche i due
grandi protagonisti del confronto militare – sia pure a distanza – sembrano sicuri di non rinnegare la propria
dichiarata fede cristiana. Non sembra avere dubbi Putin, che pure si professa
esplicitamente credente, mentre le sue truppe distruggono e massacrano
indiscriminatamente. Né sembra averne il cattolico Biden, che non perde
occasione per alimentare il conflitto con le sue dichiarazioni estreme e con
una escalation nella fornitura di armi sempre più aggressive agli ucraini.
Papa Francesco è rimasto
pateticamente solo, con il suo grido contro la guerra. Come è rimasto solo Gesù,
proclamato «re dei Giudei», ma nella burla crudele dei suoi aguzzini, nelle
ipocrite parole di Pilato e nella scritta da questi fatta appendere sulla
croce.
Se il cristianesimo è
fallito, il suo fallimento cominciò in un giorno lontano di circa duemila anni
fa. Eppure, proprio nella sua sconfitta, questo messia deriso e umiliato ha
potuto costituire nei secoli una testimonianza, per credenti e non credenti,
che non solo Dio, ma anche l’umano che è in noi, può sopravvivere alle peggiori
violenze. E che la inerme forza dell’amore, alla fine, può continuare a dare
senso alla nostra travagliata storia, anche quando sembra che il non-senso
abbia prevalso. La Settimana Santa e la Pasqua sono la memoria di questo.
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