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venerdì 15 aprile 2022

PASQUA: UN PASSAGGIO PER RISORGERE


 Pasqua: un trauma 
che ci interroga 
e rinnova

 -         di Luigi Sanlorenzo (*)

 Perché abbiamo bisogno di risorgere

 “Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinché nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.”

Così Lev Nikolàevič Tolstoj nel celebre incipit di "Resurrezione" l’ultimo grande romanzo, scritto a Jasnaja Poljana tra il 1889 e il 1899. Ne riporto la trama, come mi sono impegnato a fare con i miei lettori, quale ultimo degli articoli sulla grande letteratura in lingua russa pubblicati a mia firma nei mesi scorsi ed elencati nelle note a piè di pagina.

 Un giovane ufficiale rispettato, il principe Nechljudov, ritorna per un po' di tempo alla vita civile nella ricca provincia natale, nei pressi di Niznij Novgorod. Egli conduce una vita piacevole tutta dedita alle riunioni sociali con le sue variegate conoscenze; è imminente d'altronde il suo matrimonio, organizzato con una giovane di nobili natali, e con serenità pensa al brillante futuro che gli spetta facendo la carriera militare.

Proprio durante il suo soggiorno cittadino viene chiamato dal tribunale ad esercitare il proprio dovere facendo parte di una giuria popolare; ma quello che doveva passare come un semplice impegno civico, prende improvvisamente per il principe una piega del tutto inaspettata. Chiamato a decidere come membro della giuria della condanna di una prostituta, riconosce in lei la ragazza che aveva sedotto molti anni prima e poi abbandonata; dovette difatti andarsene dalla casa di Nechljudov dove lavorava come cameriera al fine di soddisfare le esigenze del loro bambino. Per poter sopravvivere diventa prostituta.

Dopo aver assistito alla sua ingiusta condanna, è stata difatti accusata di omicidio premeditato, tra magistrati ridicoli e avvocati giovani ed inesperti matura in lui la volontà di salvarla e di sposarla.

Katjuša pare però rifiutare la proposta e le attenzioni del principe, il quale, divorato dal rimorso, decide di seguirla comunque ai lavori forzati in Siberia dove è stata deportata con l'immutato proposito di redimerla; compirà ogni sforzo per riscattare la propria colpa e riunirsi a lei. Egli assisterà infine alla "resurrezione" della ragazza, ma in maniera alquanto differente da come si proponeva; ella infatti rifiuterà di sposarlo, forse per l'amore d'un compagno di prigionia, forse perché non vuole che lui si rovini, e quindi per amor suo; comunque, come scelta di persona libera.

Il giovane uomo dovrà infine aprire gli occhi alla miseria spirituale del mondo e superare l'atroce delusione nei confronti della giustizia umana; ciò si risolverà non nella società del mondo, ma nella fede. La "resurrezione" di Nechljudov passa attraverso la riunione con Cristo: leggendo, una notte, il brano del Discorso della montagna trova egli stesso, attraverso il Vangelo, la via della redenzione e un nuovo indirizzo da dare alla propria vita.

 Nel 1965 dal romanzo fu tratto un indimenticabile sceneggiato televisivo della RAI in sei puntate con Alberto Lupo, Valeria Moriconi, Sergio Tofano, Andrea Checchi e la regia di Franco Enriquez.

Fu un grande successo e, grazie alla televisione in bianco e nero di allora, la maggior parte degli italiani, ancora afflitta da un consistente tasso di analfabetismo, scoprì un mondo, fino ad allora sconosciuto o distorto dalla propaganda della Guerra Fredda e dalle sue propaggini nel nostro Paese. Altri tempi, altra RAI, altra responsabilità pedagogica del Servizio Pubblico!

Ricordo ancora il momento in cui lessi per la prima volta quelle pagine il cui odore è rimasto impresso nella parte più profonda di me stesso. Avevo 12 anni, forse non era la lettura più adatta per quell’età, ma fu il primo incontro con i temi della necessità interiore del riscatto morale e dell’imperativo etico della giustizia sociale. Fu il primo passo di un’educazione sentimentale che si sarebbe sviluppata lungo l’intero corso della mia vita. Non vi è stata Pasqua, da allora, in cui al termine “resurrezione” io non abbia associato quell’antica esperienza sensoriale ed intellettuale.

Perché avvertiamo periodicamente il bisogno di risorgere? Probabilmente tale necessità è legata alla natura stessa degli esseri viventi che, in realtà, muoiono e rinascono costantemente attraverso il quotidiano ricambio cellulare che connota l’esistenza fisica per l’intera durata della vita codificata nel DNA. Tuttavia, mentre di questa dinamica cellulare non ci rendiamo pienamente conto, è sul piano culturale che il bisogno di rinascere esprime il massimo effetto.

Gli individui cambiano, a volte repentinamente, compiendo scelte inaspettate che sovente destano lo stupore di quanti li circondano; le società si trasformano e, seppur più lentamente, archiviano paradigmi e sistemi valoriali, sino a rendersi irriconoscibili nel volgere di pochi decenni; i popoli avvertono pulsioni inarrestabili di nuovi destini e si mettono in cammino verso terre promesse che variano secondo le epoche, fondando nuovi mondi o rigenerando quelli esistenti.

 Ciascuna di queste azioni singole o collettive coincide con il grande rito del Passaggio, presente in tutte le religioni e nelle principali filosofie elaborate nei secoli; un “dies a quo” dopo il quale nulla è più come prima, anche se il cammino è appena iniziato e la meta non è certa né chiara. Ed è forse questo che conferisce ad ogni passaggio, il fascino dell’ignoto che prevale sulle certezze che si vogliono mettere in discussione, prima che ci soffochino ma al tempo stesso ci trova, come ogni trauma individuale e collettivo, impreparati nel corpo o nello spirito.

È passaggio quello di Enea che si lascia alle spalle la patria ormai in fiamme e si incammina sulla strada dell’incertezza, portando nei lombi il seme di un impero, ma lo è anche quello di Ulisse che, tornato all’amata Itaca dopo vent’anni, avverte l’insopprimibile bisogno di varcare le colonne d’Ercole e di realizzare il sogno che ogni uomo ha di cercare incessantemente la radice di se stesso, superandosi. Sono passaggi il gesto di Martin Lutero che sfida la corruzione di una Chiesa ostinata in un medio evo già finito, quello di Giordano Bruno che annuncia l’Universo fisico di cui siamo solo una parte infinitesima e quello di Francesco che si spoglia di ogni bene ed abbraccia il lebbroso. In ciascuno di questi passaggi c’è il conflitto con ciò che non si può più accettare e con l’ipocrisia di chi teme di lasciare “la comoda schiavitù d’Egitto”.

Sono "passaggi" l’Esodo biblico, l’Anabasi narrata da Senofonte che riscatta i Greci dall’esperienza mercenaria al soldo dei persiani, la durissima traversata atlantica dei Padri Pellegrini a bordo del Mayflower verso la libertà dall’intolleranza, la lunga marcia di Mao, l’esperienza tragica della Resistenza al nazifascismo, le grandi migrazioni di ieri e di oggi, la pandemia che ha sconvolto le esistenze individuali e l'equilibrio, pur precario, del mondo intero.

E' passaggio il tempo di guerra che stiamo vivendo e che ci costringe a confrontarci con temi, fatti e sentimenti che pensavano confinati nel passato della Storia; stiamo assistendo ad eventi che riguardano singoli individui o interi popoli che si trovano nella necessità di rinascere ad una nuova origine, nell’aspirazione a dare un corso inedito al proprio destino che, comunque, riguarderà, i vinti, i vincitori e quanti si illudono di essere solo spettatori.

 Durante il passaggio muore, come ci ricorda Paolo di Tarso, l’uomo vecchio che è in noi e prende forma l’uomo nuovo che elaborerà se stesso proprio nel travaglio della trasformazione, vera e propria nuova nascita. Come quella fisica, anch’essa è originata e connessa al dolore e alla fatica immane di scrollarsi di dosso il passato superfluo, senza rinunciare alla propria identità, unica guida che consente di non smarrire se stessi tra i mille sentieri, spesso divergenti, col cui volto il cambiamento si presenta.

Il passaggio non è immune da insidie. Lo sanno bene gli adolescenti che durante i riti tribali di iniziazione sono volutamente esposti ad ogni genere di rischio presente nella boscaglia esattamente come quelli che, con minore consapevolezza, devono affrontare i giovani delle società cosiddette “evolute”. La principale insidia è sempre la tentazione di tornare indietro nella rassicurante condizione di un’impossibile replica dell’infanzia fisica o sociale. Persino il Cristo nell’Orto degli Ulivi implora il Padre di “allontanare il calice amaro” pur sapendo che, oltre l’umana – fin troppo umana – paura del dolore, solo in quel calice c’è la Resurrezione.

Né minore è l’insidia di lasciare che altri guidino il passaggio, trasformando un individuo in un gregario impaurito dalla responsabilità e un popolo in un gregge terrorizzato dal mondo che cambia. L’unica possibile resurrezione è dentro noi stessi in quella solitudine amara che è la sola garanzia di libertà delle scelte che sappiamo essere necessarie per riscattare noi stessi.

È solo conquistando in solitudine tale libertà che possiamo condividere il cammino con individui altrettanto liberi e con essi fondare Nuove Città, senza la presunzione di renderle ideali ed eterne, cioè, ancora una volta, di frenarne ulteriori e necessarie successive resurrezioni.

Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica che per la prima volta definì i concetti di inconscio collettivo e di inconscio individuale, così scriveva nel 1911:

  "La rinascita, nelle sue varie forme di reincarnazione, resurrezione e trasformazione è una necessità che deve essere contata tra le prime affermazioni dell'uomo.”

Abbiamo bisogno di risorgere per non sopprimere il futuro, abbiamo bisogno di “passare” per non restare intrappolati in noi stessi, abbiamo bisogno di morire a qualcosa o a qualcuno per continuare a vivere in attesa del passaggio definitivo che ci restituirà a quel Tutto da cui proveniamo e di cui nutriamo una dolce e profonda nostalgia.

 Buona Pasqua di Resurrezione !

 (*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.

 Nuovi Approdi

 

 

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