Cardinale Martini: Il dialogo resta, sempre e primariamente, la cifra distintiva della carità e della speranza.
BRUNETTO
SALVARANI
Certo,
occorre in primo luogo essere grati al cardinale, da parte
di chi, nel corso dell’ormai lunga stagione del postconcilio, ha
compreso che le Chiese si stanno giocando una buona dose della
loro credibilità pubblica sulle loro capacità di rispondere alle
sfide del pluralismo culturale e religioso con una strategia all’altezza
dei tempi. Perché, se il dialogo è il rischio del non ancora e
dell’altrove, esso non nega le differenze e non le annulla;
anzi, richiede le differenze e le mantiene pur senza
ergerle
a idoli inscalfibili, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini
che abbiamo scavato – lungo i secoli – per separare noi dagli altri e gli altri
da noi. Invita apertamente e mettersi in gioco. Non rivendica diritti di verità
assoluta (teologica o storica), né tanto meno si arroga il diritto di
determinare le scelte dell’altro e non rinfaccia né richiede
nulla all’altro. Il dialogo resta, sempre e primariamente, la cifra
distintiva della carità, della speranza e della gratuità. Così, a monte,
risulta innegabile lo sforzo martiniano in funzione di una Chiesa che –
montinianamente – si faccia dialogo, e della consapevolezza che il tema del
dialogo non dovrebbe essere derubricato nelle varie ed eventuali
dell’elaborazione teologica; nonché gli effetti ottenuti, in chiave locale
e non solo. A valle, peraltro, è doveroso rimarcare che il suo magistero
sul dialogo ha generato pensiero e trovato sì interpreti e interlocutori capaci
e convinti sul territorio diocesano, ma anche, verrebbe da dire
inevitabilmente, resistenze, incomprensioni e pietre d’inciampo, su scala
locale, nazionale e internazionale. Per queste ragioni, oltre che per il
rapidissimo trasformarsi degli scenari sociali e culturali nella presente fase
storica, refrattaria a ogni semplificazione, la portata del lascito martiniano
rende complicata l’impresa di rinvenire un’immagine unica che racchiuda la sua
fede e il suo ministero.
La
sua eredità, chiamata ora a farsi seme da raccogliere e far fruttificare, sui
temi di cui si è detto è senz’altro pesante e insieme complessa, e non ci si
può che augurare che accompagni ancora a lungo la sua Chiesa ambrosiana e la
Chiesa europea tutta.
Ecco perché, senza concludere ma tenendo la porta socchiusa, chiudiamo cedendo la parola a un suo caro amico, Paolo De Benedetti, che meditando sul significato della sua morte annotava: «Io credo, se così si può dire ( ki-vjakhol, espressione ebraica per giustificare uscite audaci), che Dio abbia preso con sé Carlo Maria Martini per un bisogno di conversare con lui».
Una considerazione sapiente che
è lecito tradurre così: per poter dialogare con lui.
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