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giovedì 22 ottobre 2020

NEL SEGNO DELLA GRATUITA'

Cardinale Martini: Il dialogo resta, sempre e primariamente, la cifra distintiva della carità e della speranza. 

BRUNETTO SALVARANI

 Alla luce del processo di revisione delle dinamiche dialogiche innescato da Martini – «un esempio di dialogo da parte del magistero» nella Chiesa italiana – dobbiamo ammettere che sarebbe davvero impresa improba ricavarne un bilancio adeguato alla mole del lavoro e all’originalità del percorso tracciato. Un percorso, in ogni caso, illuminato da due fari costanti, nel suo dipanarsi ecclesiale: il fondamento sulla parola di Dio contenuta nella Bibbia, da un lato, e il lavoro sulla ricezione delle acquisizioni conciliari, dall’altro.

Certo, occorre in primo luogo essere grati al cardinale, da parte di chi, nel corso dell’ormai lunga stagione del postconcilio, ha compreso che le Chiese si stanno giocando una buona dose della loro credibilità pubblica sulle loro capacità di rispondere alle sfide del pluralismo culturale e religioso con una strategia all’altezza dei tempi. Perché, se il dialogo è il rischio del non ancora e dell’altrove, esso non nega le differenze e non le annulla; anzi, richiede le differenze e le mantiene pur senza

ergerle a idoli inscalfibili, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini che abbiamo scavato – lungo i secoli – per separare noi dagli altri e gli altri da noi. Invita apertamente e mettersi in gioco. Non rivendica diritti di verità assoluta (teologica o storica), né tanto meno si arroga il diritto di determinare le scelte dell’altro e non rinfaccia né richiede nulla all’altro. Il dialogo resta, sempre e primariamente, la cifra distintiva della carità, della speranza e della gratuità. Così, a monte, risulta innegabile lo sforzo martiniano in funzione di una Chiesa che – montinianamente – si faccia dialogo, e della consapevolezza che il tema del dialogo non dovrebbe essere derubricato nelle varie ed eventuali dell’elaborazione teologica; nonché gli effetti ottenuti, in chiave locale e non solo. A valle, peraltro, è doveroso rimarcare che il suo magistero sul dialogo ha generato pensiero e trovato sì interpreti e interlocutori capaci e convinti sul territorio diocesano, ma anche, verrebbe da dire inevitabilmente, resistenze, incomprensioni e pietre d’inciampo, su scala locale, nazionale e internazionale. Per queste ragioni, oltre che per il rapidissimo trasformarsi degli scenari sociali e culturali nella presente fase storica, refrattaria a ogni semplificazione, la portata del lascito martiniano rende complicata l’impresa di rinvenire un’immagine unica che racchiuda la sua fede e il suo ministero.

La sua eredità, chiamata ora a farsi seme da raccogliere e far fruttificare, sui temi di cui si è detto è senz’altro pesante e insieme complessa, e non ci si può che augurare che accompagni ancora a lungo la sua Chiesa ambrosiana e la Chiesa europea tutta.

Ecco perché, senza concludere ma tenendo la porta socchiusa, chiudiamo cedendo la parola a un suo caro amico, Paolo De Benedetti, che meditando sul significato della sua morte annotava: «Io credo, se così si può dire ( ki-vjakhol, espressione ebraica per giustificare uscite audaci), che Dio abbia preso con sé Carlo Maria Martini per un bisogno di conversare con lui». 

Una considerazione sapiente che è lecito tradurre così: per poter dialogare con lui.

 

www.avvenire.it

 

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