- Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 22, 1-14
Il commento al Vangelo di domenica
11 Ottobre 2020 – Anno A, a cura di Paolo Curtaz.
Preparo il commento al vangelo la domenica sera. Mi ritaglio un tempo di riflessione e di preghiera che mi proietta alla domenica successiva, una sorta di post-it della mia vita interiore per fecondare la settimana. Dalle mie parti è arrivato l’autunno in anticipo con temperature gelide e la neve. È un effetto straniante, la scorsa settimana ancora si girava in t-shirt. Ho appena letto i quotidiani del giorno. Sono coinvolto da quanto sta succedendo dietro le mura leonine, gli scandali che da tempo scuotono il Vaticano e la (irrisolta e in salita) riforma della Curia romana attuata da Francesco. Provo disagio, lo confesso. Anche un senso di nausea. Non voglio entrare nello specifico: non ho gli strumenti per capire fino in fondo la situazione (chi li ha?), e le poche informazioni fornite sono interpretate nella linea di pensiero del giornalista che le riporta, lo so bene. Ma il disagio rimane. Come se qualcuno parlasse male di mia madre e mi invitasse a prendere le distanze solo perché ha un vestito fuori moda (leggetevi Il santo, di Antonio Fogazzaro). No, non è questa la Chiesa che ho conosciuto. Non così, almeno. Siamo peccatori, lo so. Tutti. E ne siamo consapevoli. Ma non a sufficienza. E se tutto quello che sta succedendo, dal Covid in avanti, ma anche prima, fosse lo sgambetto che lo Spirito ci sta facendo per fermarci e capire cosa stiamo facendo? E se – sul serio – ci stesse sfuggendo qualcosa di grandioso che, pure, è sotto gli occhi di tutti? Ho bisogno urgente e inappellabile di Profezia.
Un re che chiama
Il Dio che Gesù è venuto a rivelare è un re che invita a nozze. Non costringe, non obbliga, non intima. Propone. E non propone solo di andare a lavorare nella vigna per cambiare il mondo insieme a lui, no. Propone di partecipare ad una bella festa, ad un banchetto elegante, ad una cena che lungamente abbiamo sognato. Così è Dio. Non quello piccino della nostra testa, quello severo delle nostre paure, quello intransigente delle nostre ristrette visioni inutilmente moralistiche. Un Dio che fa festa. Un Dio che ama la compagnia, che la cerca, che mi invita. Invita me, perché non è egoista come sappiamo essere noi, non narcisista e diffidente. Dio è uno spettacolo di luce e di vita e mi chiede, mi propone nell’assoluta libertà, di partecipare alla sua vita ma anche di condividere la sua gioia. E i servi vanno, invitano, insistono. Noi servi, noi discepoli che già abbiamo conosciuto l’immensa bellezza di Dio. Come sono belli sui monti piedi di chi parla di Dio! Solo che.
Ahia
Grandioso, direte voi. In teoria. In pratica Dio si riceve un solenne e condiviso: no, grazie. Abbiamo delle cose da fare. Vero, certo. Cose urgenti, necessarie, importanti. Ma sempre e solo delle cose. Materia, impegno, lavoro, sudore.
Cose.
Che riempiono ogni spazio, che occupano la mente, che spengono l’anima e il desiderio. Peggio: che la uccidono. Non sono malvagi coloro che rifiutano. Sono solo troppo impegnati per diventare felici. Si illudono di trovare la felicità dopo avere finito le cose da fare. Come se la felicità potesse aspettare. Come se dipendesse dalle cose. Eppure, basta poco. Accogliere l’invito, andare. Vedere quanta gioia, verità, bellezza, abitano in Dio, e come la nostra vita, comunque sia, possa fiorire. Tutto il Vangelo consiste in un vieni e vedi. Cosa abbiamo di meglio da fare, oggi, dell’essere felici? Accampiamo scuse. Problemi, dolore, a volte addirittura attribuito a Dio, ostacoli. Macché: se non siamo felici oggi, non lo saremo mai.
L’abito
Una sola cosa serve: l’abito. Un abito adatto, confacente. Richiesta assurda, all’apparenza: al rifiuto degli invitati il re spinge ad entrare cattivi e buoni, medicanti e poveri. Come pretendere da loro un abito nuziale? Matteo, riprendendo questa parabola, pensa a quanti, in Israele, non hanno accolto l’invito, ora rivolto ai pagani. Noi, oggi, sappiamo che l’invito di Dio è rivolto a tutti, anche a chi non ne è degno, anche ai peccatori. Nessuna selezione di bravi cristiani per far parte della festa. Ma l’abito sì. Certo. La consapevolezza del dono ricevuto, il desiderio, lo stupore, sì, certo. Quello è necessario. Il re è un padre, è buono, non è un bonaccione, un inutile Babbo Natale. Ci ama seriamente, con gioia, ma non si fa prendere in giro. Possiamo drammaticamente rifiutare la gioia. Ma anche fingere e non essere disposti a crescere, a fiorire, a convertirci. La conseguenza, allora, sarà quella di essere per sempre legati alla nostra minuscola visione della vita ed abitare nelle tenebre.
Forse
Allora questa Parola mi aiuta, mi spinge, mi scuote, mi inquieta. Forse è rivolta a me. Forse sono proprio io a rifiutare la logica della festa. Anche se discepolo da lungo corso. Anche se catechista o prete o cardinale. Forse davvero dobbiamo smetterla di pensare che queste parabole siano per gli altri. Io, Paolo, posso rifiutarmi di partecipare alla festa di Dio. O convertirmi. Perché Dio continua ad invitare, dice Isaia. E se chi doveva partecipare non c’è, pazienza. Voglio esserci. E preparare un vestito che sia all’altezza. Non lussuoso o straordinario, ma che manifesti il desiderio che mi abita. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Anche di vivere questo tempo di scelta e di setaccio. Ecco. Cosa abbiamo di meglio da fare oggi che non essere felici?
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