Attività
essenziale
da garantire.
Alessandro
Zaccuri
Proprio
perché si rivolge ai ragazzi e alle ragazze, la scuola deve parlare il loro
stesso linguaggio, deve tenere il passo con una voglia di novità della quale
l’innovazione tecnologica rappresenta l’elemento più visibile, senza per questo
essere esclusivo. Una scuola senza ambizioni, al contrario, è il segnale di un
Paese stanco, incline alla rassegnazione del ' così va il mondo ', che è
poi un altro modo per dire che così si è sempre fatto: perché darsi la pena di
cambiare?
Tra
marzo e aprile, quando l’Italia è stata sconquassata dalla tempesta del
coronavirus, la scuola ha mostrato il suo volto migliore. Non senza accusare
limiti e mostrare contraddizioni, lo sappiamo.
Ma
quella era un’emergenza, si faceva quello che si poteva. E si è fatto molto, da
parte di tutti. Spesso si è fatto molto bene. Da allora però sono trascorsi
almeno sette mesi e l’imprevedibile è una categoria alla quale non è più
consentito fare appello. Si sapeva che con l’autunno i casi di Covid-19 si
sarebbero moltiplicati, si sapeva che le aule scolastiche e universitarie
sarebbero stati luoghi da tenere sotto osservazione. Adesso, a poche settimane
di distanza da una travagliata ripresa delle lezioni, in diverse Regioni –
dalla Lombardia alla Puglia – ritorna la soluzione della didattica a distanza
anche se al momento, dati alla mano, le scuole non sono affatto luoghi di
diffusione del contagio. Il problema, si dice, è prima e dopo le ore passate a
scuola. Ma tant’è. Si è partiti dalle superiori, al momento, ma con il motivato
timore che a breve si proceda a cascata e di rimbalzo, fino a una sospensione
delle attività estesa all’intero sistema, dalle primarie alle università.
Detto
nel modo più semplice, non ce lo possiamo permettere. Non si tratta di
istituire un dibattito retroattivo sull’utilità dei provvedimenti adottati nei
mesi scorsi da amministrazioni centrali e locali, non si tratta di ragionare su
come si sarebbero potuti impiegare altrimenti tempo e risorse. Questi giorni di
ottobre sono di per sé uno spartiacque, una linea lungo la quale si decide,
alla lettera, il destino di una generazione. Non ci sono pagelle da compilare,
né liste di buoni e cattivi da stilare, ma solamente obiettivi sui quali
accordarsi per poi salvaguardarli con fermezza.
L’importanza
della scuola non si misura in metri statici o dinamici, ma nel valore sociale
che la scuola stessa produce.
Chiudere
le scuole (di nuovo, e per la seconda volta nel medesimo anno solare) espone il
Paese al rischio di un ulteriore sfaldamento di quella rete di relazioni che la
scuola contribuisce a garantire con una capillarità e una tenacia troppo spesso
inavvertite.
Proprio perché è un progetto e non un programma, la scuola svolge un ruolo
insostituibile di socializzazione e di concreta educazione alla cittadinanza. A
trarne beneficio sono, in particolare, gli studenti e le studentesse che
provengono dai contesti di maggior fragilità. Lo stesso divario digitale, del
quale si è tornato a discutere di recente, è il segno di una disparità di
condizioni che va molto al di là della strumentazione tecnologica.
Oltre
al bisogno di conoscenze, agisce la necessità di mettere a confronto esperienze
e tradizioni differenti, ed è urgente la ricerca di una visione comune. In tutto
questo la scuola non può essere lasciata sola. Perché questo significherebbe
un’altra serrata: abbandonare la scuola a sé stessa, scaricando sul personale,
sugli insegnanti, sugli studenti e sulle famiglie il peso di responsabilità
colpevolmente disattese. Non ce lo possiamo permettere, appunto. Non possiamo
permettere che accada.
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