A colloquio col filosofo Mauro Ceruti su pandemia e conseguenze: «Il morbo
del nostro tempo è la semplificazione.
Siamo figli dell’abitudine moderna a
pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice.
E questa si accompagna
alla droga della quantificazione
Dietro calcoli e diagrammi non si vedono le
sofferenze umane»
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di MARCO RONCALLI
Mauro Ceruti risponde al telefono da Bergamo. Due anni fa nel libro Il
tempo della Complessità (Cortina), per certi versi, aveva delineato lo scenario di questa crisi,
riflettendo sulla possibilità di fatti inattesi in grado di ribaltare
situazioni su scala planetaria. La voce è triste: «Mi mancano persone che in
questi giorni se ne sono andate. E tuttavia, in questo tempo pasquale, la loro
assenza si fa, strappando le parole al poeta, più acuta presenza …».
Professore dicevano che gli algoritmi prevedono tutto. Per Nassim Nicholas
Taleb quanto accaduto era prevedibile...
Il problema è un altro: è prevedibile che accada l’imprevedibile. Ma ciò
non lo rende comunque prevedibile. Per questo bisogna sviluppare la capacità di
affrontare l’intreccio di concause, l’incerto, l’aleatorio, l’imprevisto.
Soprattutto nel caso dei virus …
La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale. Il virus
rivela che viviamo in un mondo in cui tutto è connesso. I fili della
globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica sono
aggrovigliati e inestricabili.
Bernard–Henri Levy dice che bisogna liberarsi dall’idea di causa–effetto
tra globalizzazione ed epidemia: lei?
Ma ciò, in partenza, significa ammettere che tutto è connesso. Che non
bastano risposte tecniche a singoli problemi. Il morbo del nostro tempo è la
semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose
abbiano una spiegazione semplice. E questa si accompagna alla droga della
quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono
le sofferenze umane. Ma, detto con Foucault, le sofferenze umane mai devono
essere lo scarto muto della politica.
Siamo solo all’inizio dei guai, o c’è luce in fondo al tunnel? La storia è
costellata di crisi, pandemie, catastrofi...
La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in
una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure
impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma.
Dobbiamo assume- re la fragilità come condizione di opportunità e come
condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della
guerra al nemico, che si genera la creatività umana.
La fragilità è ora. Conviviamo con la paura del contagio. Martini diceva
che non aveva paura della morte, ma dell’atto di morire senza nessuno a
tenergli la mano ….
Il dramma della solitudine del morire, in questi giorni, ci spinge a voler
ritrovare questo grande rimosso della nostra civiltà: proprio il morire. Che
abbiamo sempre più confinato e sterilizzato fuori dalla nostra cura, fuori
dalla necessità di tenere e farci tenere la mano. Il bisogno di
riappropriazione della morte può essere una via per riappropriarsi della vita…
Viviamo questo tempo trascinati da quanto passa sui nostri schermi, la tv,
la rete sembrano le grandi soccorritrici…
C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si
comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo
interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato
di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha
isolato gli “esperti” nelle rispettive “specialità”.
Quali le priorità appena si riapriranno le porte di casa?
È necessario riformare i sistemi di educazione e di istruzione.
C’è ancora poca interdisciplinarità e molta
burocratizzazione, tecnicizzazione nelle
scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro
i saperi, i problemi, le crisi.
E’ da ripensare anche la medicina?
Può darsi che questa pandemia abbia costretto a far comunicare di più tra
loro medici infettivologi, microbiologi, virologi. Per affrontare le prossime
epidemie dovrà emergere una scienza e una figura di scienziato
polidisciplinare. Certo, anche la medicina deve essere ripensata. Aumenta
l’imprevedibilità di nuovi fattori patogeni esterni e, dal momento in cui
compare e minaccia la salute, si può allungare il tempo tra la conoscenza e la
cura della malattia provocata dal nuovo fattore patogeno.
Quale ruolo avrà l’Europa? Chiediamo unità, ma in Italia i partiti
accantoneranno le logiche di consenso immediato?
La ricerca del consenso immediato? Ma è la fine della politica! Quanto all’
Europa la crisi sanitaria ne ha aggravato la crisi. Di fronte al pericolo comune,
lo spirito di solidarietà è mancato. Si sono rinvigoriti gli egoismi nazionali.
Certe parole della politica sono proprio inconsistenti e pericolose: ad esempio
prima noi, solo noi… Ma l’Europa o si unirà o soccomberà.
C’è chi dice che le frontiere aperte saranno viste come pericoli, chi pensa
saremo più umani, chi si ricomincerà come prima. Cosa potremmo avere imparato?
Che è necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale,
non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra
un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta, non
differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme
risorse e conoscenze al di là delle frontiere nazionali. Il virus ignora i
confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati.
Tutti dentro una condizione inedita?
Tutti legati dagli stessi problemi di vita e di morte, dallo stesso
destino. La fraternità non è più solo un’aspirazione etica. È necessità
inscritta nella nuova condizione umana. Come ha detto Papa Francesco: tutti
sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo.
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