SAPIENZA È USARE I
LIMITI
E
PENSARE IL DOMANI
- di Umberto Folena
Che cosa sono per il poeta il metro e la rima? Dei vincoli, dei limiti.
Sono un carcere in cui volentieri il poeta si rinchiude per meglio sprigionare
la creatività. Per questo a nessuno dovrebbe essere permesso di scrivere 'versi
liberi' se prima non sia misurato con i 'versi incatenati'. Solo nei vincoli
del pentagramma il musicista crea. Altrimenti emette rumori, non melodie.
Così noi siamo oggi. Chiusi nel perimetro delle nostre abitazioni,
limitati nei movimenti; e soprattutto con quella colossale palla al piede che è
la paura. I nostri limiti e la nostra paura rischiano di diventare il nostro
pensiero unico. Non pensiamo ad altro, non parliamo né scriviamo di altro.
Basta ascoltare le rare parole scambiate tra vicini da una finestra all’altra,
da un balcone all’altro, per i più fortunati da un giardino all’altro. Basta
visitare i social network. Basta ascoltare un telegiornale. Quello lì, il morbo
famelico che come Voldemort non dovremmo nominare mai, ci sta succhiando
l’anima pezzetto per pezzetto. Esiste solo lui ed è logico, in fondo, che così
sia. Perché ha ucciso troppi di noi. Troppi, e tutti ci sono vicini anche se sconosciuti.
Ma non sta soltanto uccidendo i corpi; sta anche conquistando i nostri
pensieri. E non va bene. È sbagliato.
Con i dovuti distinguo e le enormi differenze, ci diciamo che è come
stare in guerra. È bello pensare che i nostri nonni e bisnonni, che la ben più
tragica esperienza della guerra reale l’hanno fatta davvero, ogni tanto si
mettessero a ballare. A suonare e cantare. A giocare a pallone o a carte. A
dipingere e a disegnare. A raccontarsi storie, tantissime storie e fiabe,
perché il segreto racchiuso nelle fiabe è di infondere coraggio: ai bambini e
pure agli adulti che non si siano dimenticati di avere uno spirito bambino
dentro di sé e l’abbiano alimentato.
È bello immaginare che sentissero,
i nostri vecchi, il bisogno di non farsi rubare dalla guerra non solo
il corpo ma anche l’anima. Come poeti, è bello pensare che avessero la sapienza
di sfruttare i limiti imposti dalla guerra per creare, inventare, produrre
comunque cose belle. E se la libertà fisica era in gran parte negata,
scoprivano una libertà che niente e nessuno poteva negargli, la libertà della
fantasia, del sogno, della creatività. La guerra c’era, incombente e
assordante. La guerra affamava e terrorizzava. Eppure non poteva né doveva
essere il pensiero fisso. Non bisognava permetterglielo, altrimenti
avrebbe vinto lei e la pace avrebbe perso. Infatti molti di loro, nelle cantine
e nelle galere, pensavano al futuro; e il futuro non li colse impreparati.
Tutti eroi o tutti accoppati, scrisse un soldato su un muro nei pressi
del Piave un secolo fa. Oggi dovremmo scrivere: tutti poeti o tutti accoppati,
magari vivi di fuori, ma ammazzati dentro dal clima plumbeo, dal pensiero
fisso, dalla paura che ci svuota.
Parliamo anche di altro,
pensiamo anche ad altro. I canti ai balconi purtroppo hanno qualche limite di
troppo. Consentono agli sguaiati di continuare a imporsi sugli altri. Offrono
spazi eccessivi al protagonismo dei narcisi. Probabilmente non sempre rispettano
i morti. Ma nelle nostre case possiamo, silenziosamente e delicatamente, dare
spazio al sogno. Possiamo, anzi dobbiamo pensare al dopo, affinché la luce in
fondo al tunnel, che oggi appena intravediamo con la speranza che non sia un
miraggio, non ci abbagli cogliendoci impreparati. Pensiamo, sogniamo a come
potremo essere migliori. La crisi fa emergere il meglio e il peggio.
Fa diventare più duri ed egoisti i cattivi e più generosi e miti i buoni.
Rivela tutta la verità su chi siamo. Così accadrà all’Italia: prevarranno gli
uni o gli altri? Per questo i buoni devono farsi trovare pronti. E lo saranno
soltanto se ora, in catene, avranno composto la propria poesia.
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